⌂ Ma veniamo al Contra falsos. Affermata l’universalità della chiesa quanto alla dimensione geografica (quantum ad universitatem locorum), demografica (quantum ad universitatem personarum), sapienziale (quantum ad universitatem notitiarum), Remigio sviluppa questo terzo punto: la sapienza e le conoscenze di tutte le attività, noetiche e fabrili, dell’uomo sussistono nella chiesa del Cristo. Il versetto tematico «Novit universa ecclesia», come nella tecnica del sermone scolastico, prelude e precontiene le parti del trattato. Le scienze, le arti liberali e meccaniche sono lì a fare il telaio compositivo del tutto: compatto e rigoroso - nelle divisioni e suddivisioni dei membri - come negli altri trattati remigiani.
■ I
trattati di Remigio rivelano una rigorosa e fitta trama compositiva (vedi De peccato usure, De bono communi, De misericordia...) da rintracciare, e mettere in evidenza, non certo nella lista dei capitoli ma nelle divisiones, e sottodivisioni, del thema o dei membra.SARUBBI 62 n. 57: « il Contra falsos... costituisce il trattato più voluminoso degli scritti di Remigio». Non esattamente. Il Contra falsos è il terzo per estensione dopo il De via paradisi di carte 144 e il De modis rerum di 53.
Gettiamo uno sguardo alla distribuzione quantitativa. Il CF occupa ff. 154vb-196vb del cod. C; 42 carte con un totale di 169 colonne di fittissima scrittura gotica; terzo per estensione dopo De via paradisi di carte 144 (ff. 207r-351v) e De modis rerum di 53 (ff. 17r-70r). Capitoli 99. Se le scientiae (naturale, medicina teorica, morale, metafisica, teologia) occupano appena 15 colonne circa in 6 capitoli, il grosso del trattato è distribuito tra:
- arti liberali: cc. 2-40 (tot. 39), carte 14, colonne 52;
- arti meccaniche: cc. 46-97 (tot. 52), carte 24, colonne 96.
Una media di 8,05 colonne per disciplina (19 discipline in tutto) su un totale di 163 colonne, escluse quelle dei capitoli primo e ultimo. Di fatto, su un totale di 163 colonne, le arti liberali beneficiano del 31,9%, le meccaniche del 58,9%, contro il 9,2% delle altre discipline (le scientiae). L’interesse appare spostato a favore delle arti, ed in specie di quelle meccaniche.
Inoltriamoci nel testo. I capitoli 1 e 46 (vedi Append. I-a) fanno da guida all’architettura del trattato. La notitia di ciascuna scienza e arte si ritrova nella chiesa. Tutto l’edificio del sapere si distribuisce in sette blocchi di discipline.
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1 | arti liberali |
2 | scienza naturale |
3 | medicina |
4 | morale |
5 | metafisica |
6 | arti meccaniche |
7 | teologia |
«... in the thirteenth century the classification of the sciences corresponds to the hierarchy of forms in nature: natural science is subalternated to the four mathematical sciences, and mathematics is subalternated to metaphysics. Each sience is resolved into a higher and more universal science, and mathematics is the key which unlocks both nature and metaphysics» (Weisheipl, Classification of the sciences…, «Mediaeval Studies» 27 (1965) 88-89). Qui invece sono le arti meccaniche «la chiave che schiude» natura e soprannatura.
Le liberali si suddividono a loro volta in 7, suddivisione cui fa ovvio supporto la tradizione del trivio e quadrivio. Ma le arti meccaniche? «Sunt quasi infinite»! Ma Ugo da San Vittore s’era ingegnato a ridurle a 7, tre “esterne”, quattro “interne” al corpo umano. Cosicché le arti meccaniche «respondent» alle liberali (CF 46, 6-13: in Append. I-a; Ugo da San Vittore, Didascalicon II, 21: PL 176, 760). Si ha pertanto:
Ugo da San Vittore |
|||
arti liberali |
arti meccaniche |
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trivio |
grammatica |
esterne |
lanificio |
logica | armifattura | ||
retorica | navigazione | ||
quadrivio |
geometria |
interne |
agricoltura |
aritmetica | caccia | ||
musica | medicina | ||
astronomia | teatrica |
Ma allo schema delle arti meccaniche d’Ugo da San Vittore, Remigio apporta qualche variante. Tra navigatio e agricultura inserisce la negotiatio, la quale acquista autonomia rispetto alla navigatio (di questa era parte nello schema di Ugo). Distinta la medicina in teorica e pratica, conserva quest’ultima tra le meccaniche ma non la conta; cosicché partizione settenaria e parallelismo simmetrico sono salvi.
Il genere della congruentia ha imposto le proprie leggi fin dalle prime mosse. E trascina con sé sia il bisogno della simmetria numerica che il gusto dell’ermeneutica allegorizzante.
Nos autem ad propositurn accipiamus istas septern [arti meccaniche] spiritualiter, ut respondeant septem virtutibus, scilicet trivio virtutum theologicarurn et quadruvio virtuturn cardinalium (c. 46, 14-16; Append. I-a).
Perfino l'etimologia, la scienza della interpretatio nominum, che svela significati e mysteria delle cose, serve il proposito. Gli antichi dicevano arithmetrica da “ares” e “rithmon”; noi preferiamo arismetrica da “ares” e “metros”: virtus mensure.
Contra falsos c. 38 (inizio): «Quantum vero ad arismetricam, inveninus in ea multitudinem. Est enim arismetrica de multitudine absoluta, secundum Boetium in Arismetrica sua. Et Ysidorus dicit in lib. III Ethim. quod arismetrica est disciplina numerorum. Grece enim numeri “rithmon” vocant. Unde sic videtur dici ab “ares” quod est virtus et “rithmon” quod est numerus. Unde veteres, sicut dicit Hugo de Sancto Victore in Didascalicon, scripserunt “arithmetrica” et non “arismetrica”. Si autem dicatur arismetrica secundum comunem usum modernorum, tunc videtur dici ab “ares” quod est virtus, et “metros” quod est mensura; inde arismetrica, idest virtus mensure» (ff. 165vb-166ra).
Dunque 7 blocchi di discipline, 7 arti liberali, 7 arti meccaniche, 7 virtù base dell’agire cristiano. Anche quest’ultime suddivise in due gruppi (3 + 4): «scilicet trivio virtutum theologicarum et quadruvio virtutum cardinalium» (c. 46). “Ars”, dopotutto, non sembra lo stesso che “ares” cioè virtù?: «ut sic ars dicatur ab “ares” quod est virtus» (c. 46, 17: in Append. I-a).
E così, prende il via l’allegorizzazione delle arti meccaniche, già saggiata - benché meno sistematicamente - con le altre discipline. Il lanificium provvede le vesti. La chiesa veste il Cristo e il Cristo la chiesa. Vestimenti colori e virtù s’intrecciano in simbolismi a più riprese (cc. 46-48). L’armifactura fabbrica le armi della chiesa: verba sacre scripture, virtutes, orationes (cc. 49-57). L’agricultura offre infiniti simboli della chiesa: silva (vita contemplativa!), campus, vinea, ortus, pomerium, pratum... La vinea dà luogo a suddivisione di membri allegorici: vites, palmites, stipites, terra, cultura, custodia, frondes, flores, fructus, liquor... (cc. 76-83). E il vino, a sua volta, possiede una sorta di plurisemia simbolica: significa tutte le virtù e ciascuna di esse! (cc. 84-89). E così via.
Ma l’allegorismo ad ogni costo obbliga talvolta alla minuzia descrittiva. Allora le fonti letterarie del passato appaiono inadeguate e si fa ricorso all’informazione diretta e locale. Sono spunti preziosi. Nella sezione della coltura della vite, ad esempio. Sebbene nelle Etimologie lib. XIII d’Isidoro siano scritte molte cose
«sub nominibus non ita familiaribus nobis, et similiter a Palladio in libro De agricultura, tamen vulgariter apud nos hec fiunt in ipsa:
- plantatur;
- propaginatur;
- circa radicem foditur;
- male herbe circumstantes eliciuntur;
- putatur
- ad paxillum ligatur (= la si lega al paletto, l’uva, perché non tocchi terra e marcisca!)
- firmatur;
- exfoliatur a foliis seu pampinis superfluis» (c. 78, ff. 188vb-189va).
La descrizione del grappolo sembra un’appercezione mescidata prima che lo sia il volgare fiorentino, che preme, lì, fra le strettezze del latino:
Botrus enim conponitur ex racemis, et racemus ex acinis, et acinus secundum nostrum vulgare vocatus, ex folliculo idest pelle exteriori et glarea sive humore interiori, et granello quod est in glarea (c. 82, 45-48).
■ Annota tuttavia il probabile contributo di Summa Britonis sive Guillelmi Britonis Expositiones vocabulorum biblie [1250-70], ed. L.W. Daly and B.A. Daly, Padova 1975, II, 850-51.
E allora composizione, maturazione e raccolta dell’uva abbozzano una metafora ecclesiologica di lirica bellezza (c. 82, 45-67: in Append. I-a di ediz. stampa). Ma sembrano rari i casi in cui il procedimento allegorizzante superi l’accostamento per liste comparative.
Sarebbe ingiusto introdurre valutazioni d’insieme a partire da predilezioni letterarie e da temperamento mentale. Vero è che altre opere di Remigio confermano una predilezione non occasionale né digressiva per l’allegorismo e la dilatazione moralizzante; e per di più sui ritmi d’un simbolismo cosmico che sa molto della letteratura religiosa prescolastica. Si vedano i trattati Speculum (l’allegorizzazione fisiognomica del corpo umano), De via paradisi, lo stesso De peccato usure che illustra la perversitas dell’atto feneratorio sui ritmi del mondo subceleste (elementi, misti, vegetali, sensitivi, razionali), celeste (stelle fisse, costellazioni, segni zodiacali, pianeti), superceleste (angeli... ). Ma il corpus remigiano include una notevole produzione di marca scolastica cui non sembra faccia difetto e sottigliezza di pensiero e uso disciplinato degli strumenti analitici della schola - si pensi al De divisione scientie, alle questioni e quodlibeti, e soprattutto al De modis rerum.
Va però detto che, se la retorica e l’«amour des lettres» aveva lievitato una letteratura patristica e una teologia monastica (cf. J. LECLERCQ, L’amour des lettres et le désir de Dieu, Paris 1957, 9-14,179-218); se la logica nuova e i libri naturales d’Aristotele avevano determinato, per intrinseca costituzione dell’atto conoscitivo, la struttura della teologia scolastica; le arti meccaniche restano solo un’occasione esterna alla fuga allegorizzante di Remigio. Nessun residuo di specifico contenuto epistemologico della techné, nessuna traccia dell’habilitas dell’artiere, nessuna attenzione alla trasformazione che le artes factivae inducono nel manufatto e nella società sono lì a sollecitare una teologia all’insegna d’una cultura e d’una società delle “arti”. Eppure la crescita frenetica della Firenze di Remigio - come la radice dei suoi tumulti dall’istituzione del magistrato dei Priori al governo dei guelfi neri - aveva il nome di arte e di artiere. E frati conversi del medesimo convento, mastri di pietre di legno e d’edifici, stavano costruendo – sotto gli occhi di Remigio – lo splendore della chiesa e dei chiostri di SMN!
Al fiorentino Remigio resta il merito d’averne registrato l’irruenza storica, sia pure enervata dall’atto allegorizzante. La comparizione massiccia delle artes mechanicae entro questa summa notitiarum che è la chiesa di Remigio, la loro inserzione tra metafisica e teologia, non è di poco interesse storico.
Un’ultima nota sulla struttura d’insieme del CF. A fine d’ogni sezione dedicata alle singole discipline, ricorre regolare un elemento antitetico. La notitia affermata nella ecclesia Christi viene negata nella ecclesia infidelium o hereticorum. I riferimenti vanno principalmente al catarismo medievale. Ma in genere quest’appendice antitetica è poco sviluppata, e serve più al parallelismo compositivo (tecnica di cui si ha prova anche altrove: elemento «de cruce» nel De misericordia, quasi tema dentro il tema) che a un vero approfondimento del discorso. È essa, comunque, che rende ragione del titolo del trattato - Contra falsos ecclesie professores - visto che nessun elemento dei cc. 5-37 fa pensare che i «falsi professores» fossero gl’interlocutori di Remigio nel dibattito sul potere papale.
■ Un testo di primissima qualità sul catarismo di metà ’200, la Summa de catharis di Raniero Sacconi, ex-cataro e frate domenicano. A fine c. 38 (Arismetrica) di CF si ha: «Ecclesia autem infidelium non est ecclesia simplicitcr, quia ecclesia idem est quod convocatio, sed potest dici ecclesia solitaria, iuxta illud Numeri 20[,4] «Exduxisti» idest extra duxisti, ut scilicet nec ecclesia simpliciter nec Domini dici possit. Sicut enim dicit frater Ranerius ordinis nostri lombardus qui prius fuit magnus heresiarcha, in Summa sua quam compilavit anno Domini 1250, catharorum ecclesie tantum 16 sunt et in toto mundo omnes cathari utriusque sexus non sunt numero quatuor milia; et, ut subdit, dieta computatio facta est olim pluries inter eos» (f. 166rb). Ma tutti i dati riferiti da Remigio - anche l’anno di composizione della Summa - sono informazioni desunte dalla stessa Summa de catharis, ed. F. Sanjek, AFP 44 (1974) 31-60. I dati del testo di Remigio si ritrovano, nell’edizione, a pp. 44, 20-22; 49, 25-27; 50, 18-20; 60 nell’explicit.
Al trattamento allegorizzante si sottraggono due sezioni: quella della negotiatio, vero e proprio trattato teologico di etica commerciale distribuito secondo le classiche circostanze dell'atto morale (quis, quid, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando: cc. 62-75); e quella sulla auctoritas della chiesa (cc. 5-37).
Quest'ultima è la sezione che pubblichiamo. Essa copre l'intera trattazione della geometria, prima disciplina del quadrivio (Append. I-c, d). E nel blocco delle arti liberali, la geometria fa la parte del leone, aggiudicandosi 33 dei 39 capitoli, pari a 37 delle 52 colonne di scrittura. Il disequilibrio distributivo è palese. Come palese è la vanificazione epistemologica della scienza geometrica. Questa - si dice - tratta della magnitudo. E la chiesa è magna per estensione, forza e autorità. L'ancillarità della geometria si esaurisce non appena sollecitata. Mentre fa seguito un'esposizione giuridico-teologica sull'autorità della chiesa, che ha giustamente attirato l'attenzione degli studiosi del pensiero politico e ecclesiologico tra fine '200 e inizio '300; diciamo del periodo del conflitto tra l'estremo esercizio del potere papale in temporalibus e i primi chiari segni dell'autonomismo regal-nazionale del regno di Francia: Bonifacio VIII e Filippo IV il Bello.
Una lunga digressione nell'economia compositiva del CF.
I cc. 6-18 sono in verità un'organica (anche se rapida) esposizione dell'auctoritas della chiesa. Il che ben risponde alle esigenze dello schema tracciato dall'autore fin dal capitolo introduttivo (CF 1,26-34: in Append. I-a). Vi si affermano e illustrano due tesi: ecclesia est magna auctoritate (tesi I); auctoritas pape excedit omnes huius mundi auctoritates (tesi II) (cc. 6-18). E il tutto ha la sua coerenza redazionale, così come la sua compiutezza, nella costruzione d'insieme del trattato e nell'innesto allegorico sulla geometria, arte della magnitudo.
Il problema, se non di digressione certamente di “ripresa”, si pone invece per il secondo blocco, cc. 19 e seguenti. Lo inducono a credere due dati: l'avvio del capitolo 19; la ripresa intricata, nel tessuto compositivo, delle medesime argomentazioni già svolte a sostegno di tesi I e II. Leggiamo l'avvio di c. 19:
Utrum autem papa habeat auctoritatem super laicos principaliter et directe quantum ad temporalia, non fuit presentis intentionis tractare, et ideo in aliud tempus reservetur oportunius indagandum. Sed ne hoc ad presens ex quo occurrit omnino relinquatur intactum, et ne credatur, propter ea que dicta sunt, necessario sic esse tenendum, possumus sic opinando procedere... (c. 19,3-8).
«Non fuit presentis intentionis tractare». Che cosa si vuol dire esattamente? Quanto esposto in tesi III (cc. 19-36) «non rientrava nel piano originale del CF, ma - qui pervenuti e dàtasene l'occasione - lo inseriamo lo stesso sviluppando la trattazione...»? Oppure: «non faceva parte della stesura originale del CF ma ora lo aggiungiamo... »? - in secondo tempo? al tempo del riordinamento dei codici?
Difficile decidere per l'uno o per l'altro. Vero è che il «ne hoc ad presens ex quo occurrit omnino relinquatur intactum» lascia sì ingiudicato il momento dell'intervento improgrammato (cc. 19-36), ma testimonia incontestabilmente un “nuovo” interesse dell'autore, subentrato (almeno) quando il piano del trattato era già stato concepito. E il nuovo interesse non è soltanto di natura redazionale: «ne credatur, propter ea que dicta sunt, necessario sic esse tenendum...». Di nuovo, che cosa ci si vuol dire? «Perché le tesi I e II (cc. 6-18) non siano intese in senso di assoluta esaltazione del potere papale, si ritiene conveniente aggiungere delle precisazioni...» (cc. 19-36)? Oppure: «se in un primo tempo scrivemmo così, ora diremmo piuttosto...»?
Vediamo l'intreccio dei capitoli.
Tesi III (cc. 19-36) Ecclesia non habet auctoritatem super temporalia principaliter et directe è illustrata prima con la serie di luoghi ex auctoritate (cc. 19-25), poi con la serie di nove argomenti ex ratione (c. 26). Questi sono le medesime «novem rationes» che in c. 18 hanno servito tesi II Auctoritas pape excedit omnes huius mundi auctoritates, e che ora (c. 26) sono piegate a sostenere la distinzione delle giurisdizioni spirituale e temporale.
Le obiezioni a tesi III sono introdotte in c. 27 con un significativo «hec videntur quibusdam incompossibilia». Infatti le obiezioni e relative risposte non sono che la ripresa delle «novem rationes» dei capitoli 18 e 26. L'obiettante tenta d'inferire dall'excellentia auctoritatis pape l'estensione diretta nel temporale. L'autore scioglie le obiezioni in senso opposto: la chiesa, e il papa, non ha autorità sul temporale «principaliter et directe». Ma non è finito. Si suppone che l'obiettante riprenda la serie di argomenti ex auctoritate portati a sostegno di tesi I (cc. 6-16) per concludere a suo modo all'estensione diretta nel temporale. Le risposte seguono perfettamente la sequenza argomentativa delle auctoritates di cc. 6-16, per concludere che queste confermano sì l'excellentia della potestà papale ma non autorizzano a inferire competenza diretta del papa nel temporale (cc. 28-36).
S'è detto «Si suppone che...». Perché difatti la redazione del testo è ellittica. Le obiezioni non sono riformulate. Vi è solo un rimando denotativo implicito nelle risposte. La sezione è così introdotta: «Ulterius respondendum est ad auctoritates veteris testamenti. Et primum quantum ad figuralia dicta ante legem...» (c. 28, 2-3). Si risponde cioè a quanto scritto in cc. 6-16 a mo' d'auctoritates; queste, da c. 28 a c. 36, sono issofatto subintrodotte quale materia d'obiezione.
Il che a prima vista fa presumere che il blocco cc. 6-18 altro non sia che la serie di argumenta in contrarium cui faccia seguito la tesi sostenuta dall'autore (cc. 19-36), gli argumenta que pro veritate faciunt, come tipico della struttura delle quaestiones o trattati scolastici. Ma non è così. Le due sezioni (cc. 5-18 e cc. 19-36) non affermano e negano la medesima proposizione. La prima termina alla grandezza dell'auctoritas della chiesa, formulata genericamente e indistintamente; la seconda mira a sostenere che tale auctoritas non si estende principalmente e direttamente al temporale.
In particolare Remigio si propone, nella seconda sezione, di mettere a fuoco nozione ed estensione della surroga del potere o del giudice secolare da parte di quello spirituale: «ut scilicet dicamus quod “in preiudicium iuris alieni” nonnisi ratione delicti vel defectus iudicis principalis» (19, 9-10). L'intenzione è bene espressa dall'avvio di c. 19: «Utrum autem papa habeat auctoritatern super laicos principaliter et directe quantum ad temporalia... » (19, 3-4). E così pure dalla conclusione di c. 26, 37-40.
Resta che la seconda sezione (cc. 19-36 e 37) è insolitamente intricata se paragonata al modello compositivo degli altri trattati remigiani; dove la sezione “obiezioni/risposte” è redazionalmente ben definita e non sconcerta il lettore con sussunzioni multiple e a risvolto, come appunto qui. Cadere e restare entro singoli capitoli (e singole sezioni!) senza sciogliere l'incastro, rischia il fraintendimento del pensiero dell'autore. E il CF non è apparso agli uni un manifesto intransigente della teoria ierocratica, agli altri un testimonio della posizione moderata anzi restrittiva delle pretese della corte papale?
■ Cf. B. NARDI, Dal «Convivio... » saggio III: «Intorno a una nuova interpretazione del terzo libro della Monarchia Dantesca», pp. 151-313 (esame critico e polemico di MACCARRONE, Il terzo libro). Su Remigio, in particolare pp. 169-73; ma vedi anche pp. 26, 201, 216, 230, 233-34, 237 n. 179, 256, 273 n. 266, 279-80. L'illustre studioso è caduto sui cc. 18 e 37 di CF, sorvolando praticamente il blocco cc. 19-36 e problemi ermeneutici che questo pone. Secondo punto: una cosa è chiedersi se la tesi «papa non habet auctoritatem super temporalia principaliter et directe» (CF c. 19, e cc. 19-36) tenga logicamente all'interno delle premesse, altra cosa è equiparare filologicamente i testi di Remigio a quelli ierocratici. Si provi un confronto sinottico tra CF cc. 19-36 e la Determinatio di Tolomeo da Lucca, De potestate pape d'Enrico da Cremona, De ecclesiastica potestate d'Egidio Romano, l'anonimo Non ponant laici, le glosse dei decretalisti...
Se non c'è prova sufficiente per sostenere due redazioni temporalmente disgiunte per cc. 5-18 e cc. 19-36 (riflettenti un'evoluzione di Remigio sulla questione), s'impone però il fatto che la sezione cc. 19-36 risponde al bisogno dell'autore di chiarire e precisare il proprio pensiero; questo non era adeguatamente espresso nella prima sezione, comunque poteva esser frainteso da chi avesse voluto trarre corollari specifici da una trattazione rapida e generale. Si ricordi: «ne credatur, propter ea que dicta sunt, necessario sic esse tenendum...» (c. 19,6-7). Il contesto, l'inclinazione del testo, la nuova prospettiva dottrinale risulterà evidente allo stesso lettore. Alla sequenza quasi meccanica delle auctoritates della prima sezione - cui nessuna interpretatio contesta l'implicita inclinazione alla ierocrazia illimitata - fa riscontro nella seconda sezione il vaglio delle auctoritates, l'introduzione delle distinzioni, l'esercizio dell'interpretatio dei testi; il tutto orientato a contenere esegesi ierocratiche. Vedi i casi della regalità temporale del Cristo, della nozione di vicario, dei testi di Bernardo da Clairvaux nei cc. 27 e 30. L'interlocutore di Remigio, almeno in questa sezione del trattato, è il sostenitore ad oltranza della teocrazia ierocratica; questi, all'occasione, svolge il ruolo di opponens nelle obiezioni. Il passo seguente, oltre a definire le intenzioni dell'autore, punta il dito - non senza acutezza - al centro ecclesiastico-politico che potrebbe presiedere a una dilatazione indebita delle prerogative papali. E se ne fa quasi argomento ex adversario:
Ex dictis igitur ipsorum paparum apparet quod papa non debet se de temporalibus que pertinent ad iudicium seculare intromictere principaliter et directe. Efficatia autem istius probationis ex quadruplici parte apparet, quasi ipsa veritate cogente eos sic dicere: tum quia locuntur contra auctoritatem suam; tum quia non est corum consuetudo sua iura velle diminuere sed potius augere, sicut apparet per multas decretales... (c. 21, 70-75).
Va però notato che nel tono del CF - come in molti sermoni su personaggi pubblici - prevale la cautela, la circospezione, quasi la premeditazione a dire senza esporsi. Si confronti con la franchezza, perfino l'audacia, dei confratelli e contemporanei Giovanni da Parigi (De potestate regia et papali, ed. J. Leclercq, Parigi 1942) e Pietro de la Palu (Tractatus de potestate pape, ed. P.T. Stella, Zurigo 1966).