4. Critica teorica dello scolasticismo

Per comprendere il senso e la portata di rifondazione della speculazione cristiana proposta dal Valla nell'Encomion, ai fini d'una teologia 'retorica' in alternativa ad una teologia 'filosofica', è necessario portarsi alla critica teorica della Scolastica messa in atto dal Valla nel liber primus della Repastìnatio dialectice et philosophie. Qui erano stati elaborati dal Valla, sin dalla prima stesura giovanile dell'opera, i fondamenti teorici della critica all'ontologia classica - per l'umanista, la «philosophia» classica tout court -. La Repastìnatio, infatti, sottende l'intero iter della riflessione valliana, in incessante rielaborazione come è attestato dal vari rifacimenti dell'opera; e soprattutto definisce i presupposti episternologici e metodologici, che presiedono alla rifondazione teorica e storica della 'teologia umanistica' valliana.

Repastìnatio, liber primus è la critica dei fondamenti ontologici e logici dell'aristotelismo scolastico sia a livello filosofico che a livello teologico. Mediante l'analisi linguistica e semantica - (1) delle «categorie» o predicati fondamentali (i praedicamenta); (2) degli attributi propri dell' «essere» e con esso "convertibili', in quanto attributi espressivi dei vari aspetti essenziali dell'«essere» medesimo (i trascendentalia); ed infine, (3) delle classificazioni logiche, quali «genere», «specie», «proprieta»ed altre ancora (i praedicabilia), - il Valla opera una vera e propria critica del linguaggio-base dell'intero sistema teorico aristotelico e scolastico.

La pregiudiziale del Valla in questa critica anti-metafisica del linguaggio-base dell'aristotelismo è la seguente. La parola od un termine qualsiasi, sia esso universale che particolare, è un significante (signum) che rinvia al mondo reale delle cose in sé (res); il significante-verbum, invece, indica soltanto l'aspetto contingente e storico delle cose in sé, non il sostrato sostanziale ed in genere 'ontologico', come al contrario era stato ritenuto dalla filosofia classica, e particolarmente dall'aristotelismo.

Alla concezione quindi 'ontologica' del linguaggio in genere, e di quello filosofico in particolare, sostenuta e sempre riproposta pur in vari modi dall'aristotelismo, il Valla oppone una concezione 'storica' del linguaggio in genere e di quello filosofico in particolare.

Tale concezione del linguaggio, non metafisica ma ‘storica', potrebbe formularsi nel seguenti termini: il referente ultimo (extra mentale) del linguaggio umano è sempre e soltanto il contingente storico (fenomenico) della realtà.

Di qui il programma e l'obbiettivo ultimo del Valla, perseguito in tutti i suoi scritti: sino ad ora i filosofi hanno 'ontologizzato' il linguaggio, presupponendo che parole e modi di dire fossero espressioni di sostanze e modi di essere; da ora in poi occorre, invece, 'de-ontologizzare' il linguaggio, mostrando che parole e modi di dire sono unicamente espressioni di accadimenti e modi di contingenza, pur essendo, questi stessi accadimenti e modi di contingenza, extra mentali, reali cioè ed oggettivi.

Di qui, ancora, deriva la motivazione per cui il discorso valliano verte costantemente circa una medesima argomentazione critica nel confronti dell'aristotelismo e dell'ulteriore riflessione scolastica: dimostrare, cioè, mediante l'analisi morfologica sintattica e semantica, che parole e modi di dire non rimandano né si riferiscono a sostanze e modi di essere come a referente ultimo soggiacente al contingente. Il linguaggio non comporta alcuna significazione della dimensione specificamente ontologica, quale sostrato metafisico della realtà - così come quella dimensione ontologica era stata intesa dalla filosofia classica e scolastica.

Di conseguenza tutta la realtà delle res significatae si identifica per il Valla con le significationes verborum, così che è in queste che tutta la realtà sussiste per noi. L'insieme delle «significationes verborum», vale a dire la totalità del contenuto semantico, sia del discorso particolare che del linguaggio in genere, è la sola ed unica realtà che noi conosciamo di fatto e/o è a noi possibile conoscere, in modo più o meno adeguato. Vi sono di certo realtà trascendenti la nostra esperienza immediata, sia essa sensibile che spirituale: quali, ad esempio, l'anima umana e la sua essenza, la divinità o il mistero trinitarlo, la libertà umana o la predestinazione salvifica. E però, realtà come queste non sono circoscrivibili né entro un linguaggio univoco (perché trascendono la nostra esperienza) né entro un linguaggio analogico (perché non si dà alcuna analogia entis). Simili realtà sono esprimibili unicamente attraverso la retorica della comparatto (a volta a volta con immagini, metafore, o mito) oppure mediante l'esplicito riconoscimento della loro indicibilità: del silenzio, cioè, che s'impone di fronte all'impenetrabilità del mistero.

Non è quindi il philosophus, ma è il grammaticus-retore il vero sophós, riafferma il Valla citando Quintiliano.

«Oratorem esse virum sapientem, quantum in hominem cadit: hoc est, plus esse quam philosophum, et sophón»: l'affermazione si legge nella Apologia ad Eugenio IV, al termine della sezione nella quale sono elencate le 'proposizioni' della Repastinatio che furono giudicate eterodosse al processo inquisitoriale del 1444. Il testo in VALLAE Opera, I,  p. 799. L'affermazione valliana riprende quanto aveva scritto Quintiliano nella Inst. orat., lib. I, pr. 18ss: «orator vir talis, qualis vere sapiens appellari possit, etc.».

La retorica, infatti, studia la msverborum (la pregnanza delle parole e la loro 'grammatica') per attingerela vis rerum (le realtà e le dimensioni conoscibili delle cose). La ricerca delle strutture e dei contenuti del linguaggio in genere e delle varie lingue storiche in particolare porta alla conoscenza delle realtà di cui noi parliamo. E sono le realtà espresse e contenute nel linguaggio communis (orale e letterario) che costituiscono l'oggetto e la verità cui il pensiero tendedi fatto, perché soltanto a tale oggetto e verità è capace di tendere e ingrado di attingere.

A tale concezione del linguaggio e conseguente messa in crisi del linguaggio-base della metafisica classica, il Valla è indotto dalla sua rilettura della Institutto oratoria di Quintiliano. Siffatta riscoperta ed originale reinterpretazione dell'opera di Quintiliano porta il Valla ad assumere la Institutto quale novum organon di paradigmi concettuali, di indagine storica e teorica, di strumenti e forme argomentative.

Più in particolare. La metodologia valliana si fa strutturalmente critica filologica, così che l'oggetto precipuo della sua indagine si concretizza, da un lato, nel de-ontologizzare il linguaggio della filosofia aristotelicoscolastica, e dall'altro, nel rifiuto del linguaggio metafisico-teologico della Scolastica (da Boezio a Tommaso).

Il linguaggio-base della teologia scolastica era costituito dal connublo delle categorie filosofiche del pensiero classico (particolarmente aristotelico) con le forme concettuali indotte dalle Scritture ebraico-cristiane. Tale sintesi era stata possibile partendo da un pressupposto fondamentale, che possiamo enucleare nei termini seguenti.

Tra le categorie filosofiche del pensiero classico e le forme concettuali della Scrittura, pur nella differenza infinita tra pensiero razionale e dato biblico della Rivelazione, sussistono livelli epistemologici di convergenza lungo 1 quali è possibile, in qualche modo, trasferire le categorie filosofiche classiche all'interno della riflessione interpretativa delle Sacre Scritture. Più specificamente: questo trasferimento (delle categorie filosofiche entro l'interpretazione stessa delle Scritture) sarebbe stato attuabile lungo uno specifico 'rapporto proporzionale', ritenuto sussistente e reale, tra il pensiero filosofico e la rivelazione biblica. Siffato rapporto proporzionale, presupposto come esistente tra l'umano e il divino, doveva essere necessariamente ed esclusivamente un rapporto di tipo strettamente « analogico », secondo il quale i due livelli gnoseologici non potevano essere altrimenti che «secundum quid idem, simpliciter diversi» - secondo la felicissima formulazione classica, aristotelica prima e poi scolastica, del principio di analogia.

In forza del «principio di analogia» era dunque possibile assumere una categoria aristotelica ed introdurla nel discorso teologico mediante una dislocazione semantica lungo il rapporto di similitudine «analogica» tra il senso originario ('filosofico') di quella categoria ed il senso primario ('rivelato') del paradigma scritturistico. In tal modo, aldilà dello scarto semantico (per definizione, 'infinito') tra il concetto filosofico e quello scritturistico, si cercava quel minimo di convergenza « analogica » appunto tra il primo ed il secondo, che permettesse di utilizzare il concetto filosofico come punto di partenza per l'elaborazione teologica del concetto scritturistico.

Che il principio di analogia fosse alla base del discorso teologico scolastico quale tentativo di sintesi tra filosofia classica e pensiero scritturistico, e che quel medesimo principio e quella medesima sintesi avessero raggiunto espressione massima nel discorso teologico di Tommaso, appariva al Valla in luce meridiana. Egli, infatti, affermava lucidamente che la «probatio theologiae» nell'Aquinate era sempre inclusiva « della logica, della metafisica e dell'intera filosofia » (classica ed in particolare aristotelica).

Ora la critica linguistico-semantica della struttura concettuale della logica e della metafisica aristotelico-scolastica, elaborata per l'intero liber primus della Repastinatio, concludeva in ultima istanza al rifiuto radicale dell'ontologia classica e di conseguenza al paradigma fondante quella metafisica, cioè l'analogia entis.

Ma la negazione dell'«analogia entis» comportava immediatamente l'affermazione che, tra essere infinito «soprannaturale» (quello della Rivelazione biblica) e l'essere finito «naturale», la differenza è assoluta. La distanza differenziale tra il «soprannaturale» ed il «naturale» diveniva perciò incolmabile. Pertanto, tra le realtà soprannaturali e le realtà naturali si dà soltanto il «simpliciter diversum»; ne puo essere altrimenti, mancando la possibilità di un «secundum quid idem». Di conseguenza risultava la impossibilità di carpire una qualche «commensurabilità proporzionale», o una «similitudine analogica». Occorreva quindi astenersi da ogni messa in atto del «principio di analogia», perché questo aveva il proprio fondamento sulla «analogia entis».

Ora, la negazione dell'«analogia entis» e l'impossibilità di applicazione del principio di analogia venivano ad intaccare i fondamenti della teologia scolastica. Questa infatti si fondava sulla possibilità d'interpretazione d'una verità o realtà soprannaturale ('rivelata') attraverso categorie razionali ('filosofiche', in specie aristoteliche), assimilabili a quelle verità e/o realtà soprannaturali in forza del rapporto di 'proporzionalità analogica' tra le prime e le seconde. Soltanto con questo processo era stato possibile alla teologia scolastica assumere il linguaggio-base della filosofia classica, in particolare le categorie logiche e metafisiche aristoteliche, e farne lo strumento interpretativo del linguaggio biblico della Rivelazione. Era stato in forza del principio di analogia che la Scolastica - e Tommaso nel suo momento più alto - aveva introdotto formalmente il discorso «filosofico» classico nel propria speculazione «teologica» sulle Scritture della Rivelazione, ed aveva operato quello che poi sarebbe risultato il tentativo di massimo connubio tra «filosofia» classica e «rivelazione» biblica.

Si è detto sino adesso della critica anti-«filosofica» valliana nei confronti della teologia scolastica, elaborata dall'umanista in base ai seguenti assunti: (1) deontologizzazione del linguaggio in genere, e di quello logico e metafisico in particolare, fondamenti della epistemologia scolastica; (2) rifiuto dell'«analogia entis» e del conseguente «principio di analogia», fondamenti del discorso teorico scolastico sia filosofico che teologico. Rimane ora da capire come quella duplice critica veniva esercitata dal Valla ai fini di una 'teologia alternativa' a quella scolastica, che denotiamo come 'teologia umanistica'.

Il passaggio dal momento negativo della critica anti-« filosofica »quello propositivo di una teologia 'umanistica' consisterà, per il Valla, nella trasposizione del paradigma retorico-quintilianeo della 'filologia' dalle «humanae litterae» alle «sacrae litterae».

Ma siffatta trasposizione dell'analisi filologica delle «humanae litterae» (cultura classica greco-romana) alle «sacrae litterae» (rivelazione ebraico-cristiana) comportava il seguente procedimento speculare: come le realtà storiche (politiche e/o umane in genere) e l'insieme dell'intera speculazione filosofica dell'antichità classica greco-romana erano state indotte dall'analisi filologica delle «humanae litterae», così i 'dati' della rivelazione biblica (prassi e dottrina) - che costituivano per il credente le dimensioni di diacronia e di sincronia della «storia della salvezza» - sarebbero stati indotti attraverso l'analisi filologica dell'universo linguistico e semantico delle «sacrae litterae» (le Scritture Vetero e Neo-testamentarie). 

5. La riscoperta della «Institutio oratoria»

A questo punto è necessario ritornare a quanto si è detto sopra circa il «quintilianesimo» del Valla e la sua concezione dell'«ars rhetorica», dall'umanista romano rielaborata appunto secondo i dettami della Institutio oratoria.

Il Valla, facendo propria e rielaborando la Institutio quale «novum organon» d'indagine umanistica, aveva ampliata la «retorica» ben oltre i limiti di «tecnica della persuasione», entro cui l'aveva ormai confinata il ciceronianesimo contemporaneo. Tale operazione estensiva della retorica arrivava a tal punto da costituirla «scienza-epistème del linguaggio». La retorica cioè, prima di risolversi in tecnica d'argomentazione, era anzitutto e nei suoi fondamenti una «grammatologia» della scrittura (le «litterae» classiche greco-romane) e del parlare (il rapporto di significato tra «res et verba».

E noto che Quintiliano dedica l'intero lib. I della sua opera alla «grammatica», considerata come basilare per la formazione («institutio») del retore («oratoria»). Egli la suddivide in «grammatica metodica» e «grammatica istorica»; ma è la prima («metodica») che viene fondata sulla seconda («istorica»), nel senso che la «metodica» è disciplina normativa i cui dettami provengono unicamente per via induttiva dalla «istorica». L'una e l'altra determinano la «grammatica» quale dottrina, sincronica e diacronica ad un tempo, dei fondamenti della scienza dei linguaggio. La grammatica dunque, prima ancora di essere una precettistica del parlare e dello scrivere «rettamente» - fissata come dottrina prescrittiva del processo discorsivo -, consiste anzitutto nell'indagine analitica della prassi linguistica in genere e nello studio filologico sia delle fonti che dello sviluppo storico del linguaggio.

La ricerca «grammaticale», lungo le coordinate «metodica» ed «istorica», si sviluppa attraverso tappe successive, conseguenti l'una all'altra: (1) l'indagine filologica delle auctoritates, i testi e le scritture «letterarie», circa le quali viene esercitata con acribia (2) la emendata lectio, e sulle quali viene esplicata mediante analisi linguistica (3) la enarratio; l'una e l'altra, la «emendatio» e la «enarratio», dovranno essere costantemente sorrette dall'acre judicium di carattere critico e storico. In tal modo si giunge ad una lettura «filologica» delle scritture letterarie. Tale tipo di «lettura» vien così a collocarsi entro l'analisi più ampia delle strutture linguistiche in genere, dalla fonetica all’ortografia, dalla morfologia alla sintassi e alla semantica dell'universo-linguaggio di cui la particolare scrittura sotto analisi (l'auctoritas in oggetto) è parte integrante. L' «ars grammatica» assurge così, sempre secondo i dettami di Quintiliano, a scienza filologica e critica: disciplina storico-teorica del sapere linguistico.

Tali riferimenti alla messa in opera dell'«ars grammatica» come indagine filologica si hanno in particolare nel cap. 1 del lib. II della Institutio, dove Quintiliano determina lo specifico rapporto tra grammatica e retorica. La grammatica, «quam in latinum transferentes litteraturam vocaverunt» scrive il Retore latino (II, 1.4), è il « fondamento » della conoscenza delle « lettere ». Il ruolo infatti che le compete e l'oggetto che le è proprio vanno ritenuti e considerati in funzione diretta ed immediata alla retorica. E la retorica è la scienza onnicomprensiva di tutte le branche del sapere, poiché, essendo ogni sapere espresso in linguaggio e scrittura, ogni sapere cade nell'ambito della «litteratura». La retorica è in tal senso la scienza che include in sé, come parti integranti e organiche di se stessa, tutte le altre scienze. Ed in questo senso ancora (al termine di un'ampia indagine circa la natura e le dimensioni dell'oggetto proprio della retorica) Quintiliano può concludere: «Ego, neque id sine auctoribus, materiam esse rhetorices iudico omnes res quaecunque ei ad dicendum subiectae erunt» (II, 21.4).

Si comprende allora tutta la portata della funzione di fundamentum, in rapporto alla retorica, attribuita alla grammatica, e si capiscono le implicanze che la ripresa della concezione quintilianea della grammatica vengono ad avere per il Valla - il primo che opera siffatto recupero -, e poi per l'intero umanesimo filologico da Ermolao Barbaro a Poliziano sino ad Erasmo e Vives e gli altri « umanisti » del '500.

6. Epilogo: dalle «humanae litterae» alla «grammatica della parola»

Per la teologia, assunta entro l'ambito della « litterarum scientia » -per usare un'espressione ciceroniana prima e poi quintilianca -, la filologia diventava, in tutta la sua ampiezza, strumento d'indagine della ricerca teologica, così che le humanae litterae venivano come ad inverarsi nelle theologicae litterae, e queste a loro volta derivavano il proprio statuto scientifico dal seno stesso della cultura umanistica.

È sulla base di siffatto « novum organon » della scienza teologica - la cui strumentazione portava ad una specie di « communicatio idiomatum »tra letteratura classica e letteratura biblica, perché ambedue litteratura - che il Valla amplierà il suo discorso e la sua ricerca teologica. Egli infatti argomenterà sulla base di quella «communicatio idiomatum» tra le due letterature: la grammatica e la retorica verranno applicate alla ricerca teologica in genere, ed in particolare alla ripresa sia della teologia patristica che di quei medesimi strumenti analitici si era servita, sia della filologia (geronimiana) quale metodo critico di ricostruzione ed intepretazione dei testi scritturistici.

Inoltre, l'esegesi grammaticale nel caso specifico della Scrittura si presentava al Valla ancora più complessa. La Bibbia Vulgata era infatti una traduzione e, in quanto tale, priva di valore autonomo. Per conseguenza l'analisi filologica, se voleva essere veramente comprensiva del testo in esame, doveva rifarsi all'originale ebraico e greco. Solo esaminando il testo greco (neotestamentario, cui era limitata la competenza linguistica valliana), si poteva avere una verifica filologica della traduzione latina, esplicitarne tutto il contenuto, risolvere nel miglior modo possibile i problemi esegetici e teologici della Parola di Dio. Rifiutare ed eliminare del tutto, o quasi, tale discorso voleva dire menomare, se non addirittura impedire, una comprensione adeguata della Vulgata e dare adito a questioni e problemi circa il contenuto della Rivelazione altrimenti risolvibili con la versione originale anch'essa del resto da esaminare con la medesima tecnica filologica.

Ora, poiché la 'differenza' tra linguaggio filosofico e linguaggio biblico-teologico è infinitamente distante, l'unico discorso che rimane al teologo non può essere altro che quello biblico-rivelato: una parafrasi costante del linguaggio biblico, una continua e puntuale «enarratio» della Scrittura. Tuttavia, una volta assunta la filologia quale strumento storico-critico e l'«analisi grammaticale» come strumento unico ed esclusivo della ricerca scritturistico-biblica, il Valla ridefiniva e trasformava la tradizionale scientia Dei in quella di 'teologia umanistica'.

La conclusione definitiva cui il Valla approdava con l'Encomion s. Thomae era in ultima istanza la seguente: la teologia è disciplina che deve consistere, dati i suoi fondamenti (le «sacrae litterae») ed i suoi strumenti operativi (l’'analisi filologica'), nell'essere essenzialmente ed unicamente al di fuori di ogni speculazione teoretica classica (la «philosophia»), una grammatologia della Parola, della Rivelazione cioè Vetero e Neo-testamentaria. 

SALVATORE I. CAMPOREALE

Harvard University Center

Villa I Tatti

Firenze, Italia