Nel giugno del 1423 Guido di Piero è sicuramente già frate domenicano del convento di San Domenico di Fiesole e (si badi) continua ad esercitare l’arte pittorica. Ne abbiamo notizia dal registro di ‘Uscita’ dell’Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze. Nell’annotazione viene chiaramente affermato: “A frate Giovanni de’ frati di San Domenico di Fiesole per dipintura di una croce, fine di giugno 1423, lire dieci”[1].
Guido di Piero dev’essere pertanto entrato nell’Ordine, come membro (nelle Costituzioni si diceva “figlio”) della comunità fiesolana, tra il 1419 - anno in cui i religiosi ripresero ad abitare e a ricostruire il conventino chiuso nel 1409 - ed il 1422[2] -, quando Guido diede inizio al periodo di prova (il noviziato veniva designato come “tempus probationis”) durante il quale difficilmente poté accettare commissioni impegnative di lavoro pittorico, dovendo applicarsi - come insegnava il Maestro Generale fra Umbero de Romanis - ad apprendere “totum Psalterium cordetenus (a memoria)”, l’Ufficio dei defunti - anche questo cordetenus - e poi ad impratichirsi nella lettura e nell’uso dell’Antifonario e del Graduale nella recitazione del coro, ecc.[3].
Si può quindi ritenere che nel 1423 Guido di Piero - che da questta data in poi dobbiamo chiamare ‘fra Giovanni’ - aveva portato a compimento il noviziato e gli veniva concesso esplicitamente dai superiori dell’Ordine - e dal marzo 1422 al giugno del 1424 fu priore del convento fiesolano fra Antonio Pierozzi (che poi sarà conosciuto come ‘sant’Antonino’) - di continuare ad esercitare l’arte di pittore e a ricevere committenze di lavoro.
A questo punto, però, è storicamente doveroso porsi le seguenti domande sulle motivazioni che spinsero Guido di Piero: primo ad entrare nell’ordine Domenicano, e secondo a preferire il convento di San Domenico di Fiesole.
Le ragioni che vengono addotte da Giorgio Vasari sono, infatti, così ‘generiche’ da non rendere conto della ‘vocazione domenicana’ di Guido.
Lo Storico della ‘vita’ dell’Angelico riteneva che Guido avesse scelto l’Ordine dei Frati Predicatori per trovarvi “quiete” e “per salvare l’anima sua principalmente”[4].
Ma tali condizioni Guido le avrebbe potuto trovare anche presso i Carmelitani, che dirigevano la Compagnia di San Niccolò alla quale si era iscritto fin dal 1417 (cfr. sopra), e che, inoltre, proprio nel tempo in cui Guido maturava la determinazione di vivere in convento, avevano accolto nella propria comunità il giovanetto Filippo Lippi, che vi emetteva i voti l’8 giugno del 1421, e - come sappiamo - lo lasciarono pienamente libero di dedicarsi alla pittura[5].
La “quieta contemplazione”, l’assenza di “molestia alcuna” ed i “divini uffici” - che Giorgio Vasari descrive come pregi della vita monastica - vigevano anche presso i camaldolesi del monastero degli Angeli, che Guido ‘laico’ conosceva sia per la vicinanza alla sua abitazione nel popolo di San Michele Visdomini sia per la frequentazione - forse di discepolo a maestro - di Lorenzo Monaco, che nella comunità camaldolese di Firenze aveva ricevuta la cocolla ed emesso i voti il 10 di dicembre del 1391[6].
Soprattutto nel convento di Santa Maria Novella Guido avrebbe potuto condividere con i frati domenicani della proficua opportunità di dedicarsi nel silenzio e nella solenne celebrazione liturgica agl’impegni di preghiera e di studio. E tuttavia Guido preferì aggregarsi al convento di San Domenico di Fiesole, senza ancora tradizioni e disponibilità di spazio, piuttosto che affiliarsi all’antico convento di Santa Maria Novella, fondato nel 1219 per volere espresso di san Domenico.
Le motivazioni, dunque, della scelta di Guido devono ricercarsi non nella tranquillità conventuale e nella sola vita di contemplazione e di servizio liturgico, ma nel profondo del suo animo, vale a dire nel ‘carisma’ che lo animava, quello di essere ‘pittore’ e di volere esercitare tale ‘dono’ prezioso da ‘domenicano’, cioè da frate sacerdote-predicatore.
Ora nel convento di Santa Maria Novella gli ‘artisti’ venivano computati (secondo la consuetudine della divisione delle arti nel Medioevo) tra coloro che praticavano non un lavoro da intellettuali ma un lavoro da persone dedite ad ‘opere servili’, come si diceva; e a tali lavoratori non era consentito l’accesso alla vita clericale. Conseguentemente i domenicani di S. Maria Novella accettavano nell’Ordine gli ‘operai-artisti’ ma soltanto come ‘frati conversi’, con il divieto espresso di applicarsi allo studio e di aspirare agli ordini sacri. Le Costituzioni infatti recitavano: “Nessun converso diventi frate corale ed ardisca di occuparsi dei libri per motivo di studio: Nullus conversus fiat canonicus, nec in libris causa studendi se audeat occupare”[7].
Fra Giordano da Pisa, predicando in Santa Maria Novella nella quaresima del 1304 affermava: “Non è commesso ad ogni uomo l’ufficio del predicare; ché, innanzi, a tutte le femmine è vietato in tutto e pet tutto; appresso, tutti i laici e idioti che non hanno lettera; onde niuno può essere predicatore, se non è letterato e scientifico”[8].
Fu forse in forza di questa mentalità che il cronista di S. Maria Novella fra Modesto Biliotti, pur scrivendo nel 1586, commise il lapsus di designare il Beato Angelico come converso: “Frater Ioannes faesulanus conversus”[9].
Creighton Gilbert ritiene che fu un fatto singolare che Guido fosse accolto nell’ordine Domenicano come chierico e non quale “conversus”: “What Angelico did was out of the ordinary / what he did was remarkable”. Ma le motivazioni che lo storico adduce per spiegare tale ‘straordinarietà’ sono incerte ed esteriori. Guido, che egli fa nascere nel 1387-88 (come indica Vasari) sarebbe entrato nel convento di Fiesole nel 1419-1420 (come dettermina p. S. Orlandi), cioè in un’età troppo avanzata (sopra i trett’anni): ma a questa età, osserva Gilbert fondandosi su statistiche estratte dal “Necrologio” di S. Maria Novella, si accettavano generalmente i candidati a ‘fratello converso’: l’Angelico invece - e sarebbe questo il caso eccezionale - ricevette l’abito di ‘fratello chierico’[10].
Guido di Pietro, dunque - e mi sembra corretto dedurlo - non entrò nel convento di Santa Maria Novella perché i frati di questa comunità non gli avrebbero permesso di inserire il suo carisma pittorico in quello di frate ‘sacerdos et praedicator’.
Guido di Piero, pertanto, si rivolse ai frati di San Domenico di Fiesole perché presso di questi il postulante veniva giudicato non tanto dalla volontà di studio quanto dalla volontà di preghiera. Fra Raimondo da Capua, che aveva dato inizio alla ‘riforma’ dell’Ordine in Italia, lamentava lo sbilanciamento dei frati per la scienza più che per la sapienza, per lo studio più che per la preghiera, per la inflatio scientiae più che per la caritas. Egli infatti aveva notato che “alcuni: quidam” non riflettevano sufficientemente che è “lo Spirito Santo che insegna su tutto” e non avevano presente che il santo dottore san Tommaso, maestro dei frati dell’Ordine, aveva ‘raggiunto “la pienezza della scienza, anzi la sapienza, più con la preghiera che con lo studio umano”[11].
Grazie anche alle larghe vedute del Fondatore fra Giovanni Dominici, i frati fiesolani non ritenevano più - ed in questo erano ‘innovatori’ - che l’operazione di mano - che già Cennino Cennini affermava che discendeva dalla scienza e nella scienza aveva il suo ‘fondamento’[12] - costituisse opera servile. Il Dominici, infatti, sembra quasi commentare e spiegare a Bartolomea Alberti il principio teorico che sottostava alle parole del Cennini. “L’anima [...] essere tutta in ciascuna parte del corpo”, egli insegnava. Quindi:”In ciascuna parte l’anima intende, vuole e odia. Al buio palpi e conosci la gamurra dalla gonnella, il grosso dal fiorino, il ramo dall’acqua; se l’anima intellettiva non fusse nella mano, non intenderebbe questo”[13].
In tal modo intelletto e mano venivano congiunti e resi intercomunicanti. La ‘manualità’ era continuazione dell”intellettualità’.
Nell’assenso dunque dei domenicani di Fiesole all’ingresso di Guido in convento venivano a porsi e a risolversi (allo stesso tempo) due istanze: quella di Guido che intendeva prolungare la pittura nel ministero domenicano della predicazione, e quella dei seguaci di san Domenico che ritenevano che il messaggio della predicazione -- loro munus specifico -- potesse trasmettersi attraverso l’arte pittorica.
La ‘vita domenicana’, del resto, aveva (ed ha) come fonte-originaria il processo ‘contemplari-contemplata’[14] - contemplazione ed assimilazione del ‘mistero di Dio’ nella sua più ampia estensione[15], e che aveva (ed ha) quale centro oggettivo della formazione spirituale la celebrazione liturgica nella quale il mistero umano-divino del Cristo è proposto in modo speculativo-pratico, cioè secondo una ‘forma espressiva’ che necessita del ‘segno’: parola e gesto, ascolto e visione; e si sviluppa perciò con forme espressive proporzionate alla ‘devotio’ o ‘pietas’ o culto pubblico, che sono vere ‘forme d’arte’, come è bene enunciato in lingua tedesca con il lemma ‘Kunstgottesdienst: servizio di Dio con arte’[16].
Da siffatto quotidiano vivere conventuale il frate predicatore riceveva ‘stimolo’ al movimento intellettuale di conoscenza e di adesione al mistero della Fede, che avrebbe poi trasmesso ‘per verba’. Da tale condizione di vita Guido, divenuto fra Giovanni dipintore e frate predicatore, prendeva anch’egli ‘stimolo’ alla composizione di idee-immagini ed immagini-idee, che avrebbe poi trasmesse per azione-artistica nel ‘concreto’ dei suoi dipinti[17].
La ‘novità’, che viene introdotta dal Beato Angelico nella ‘praedicatio’ dei frati domenicani, e ‘di diritto’ — perché egli era stato accolto nell’Ordine come ‘frater clericus’ (lo si è detto), cui incombeva ‘il dovere’ della predicazione —, sta nella trasmissione del frutto della sua contemplazione nella maniera-di-predicare, non per mezzo delle ‘immagini acustiche’ (come Ferdinand de Saussure descrive ‘la parola’) ma attraverso le ‘immagini visive’.
Correttamente, quindi, l’Angelico, ed in quanto ‘dipintore’, poteva emettere la professione di ‘frate predicatore’. Egli rimaneva coerente con se stesso, perché la ‘pittura’ permaneva nella sua attività di ‘clericus’; e restava coerente con il carisma della ‘praedicatio’ voluta da san Domenico, perché questa, in quanto ‘contemplari-contemplata’, strutturava dall’interno la sua fantasia, e di conseguenza ne formava lo stile: iconografia, iconologia ed iconoteologia[18].
In altre parole, il Beato Angelico che si esprime nei suoi dipinti come ‘frate predicatore’ ha de facto stabilito l’analogia: ‘Come la pittura, così la predicazione: Ut pictura praedicatio’ - che è esplicitazione della proporzione ‘Come la pittura, così la poesia: Ut pictura poesis’ - come avevano affermato il poeta Simonide e poi Orazio[19] - e della analogia: ‘Come la pittura, così l’eloquenza (o la retorica): Ut pictura eloquentia (o rhetorica) - come piacque ai trattatisti delle ‘humanae litterae’[20].
Queste considerazioni fanno riconoscere ‘realizzato’ nelle immagini del Beato Angelico quanto apprendiamo dalla riflessione e definizione dei Padri del Concilio di Nicea II del 787, i quali contro gli iconoclasti dommatizzarono: “le pitture dei Santi sono state tramandate nella Ecclesia non altrimenti che la sacra lettura dei vangeli: “Videmus igitur et intelligimus quod [...] Sanctorum picturae in ecclesia traditae fuerint non aliter ac sacra evangelii lectio”[21].
La storia della salvezza, infatti, si manifesta - spiegano i Padri niceni - sia mediante la Parola-che-si-ascolta sia attraverso l’Immagine-che-si-vede, perchè come la lettura porta all’orecchio e quindi alla mente il contenuto del testo, così la visione delle pitture trasferisce all’occhio e quindi all’animo il contenuto dell’espressione figurativa[22].
Dunque il suono ed il colore, la parola (o orecchio) e la visione (o occhio), vale a dire la predicazione e l’ostensione delle opere visive, costituiscono ‘due vie’ paritetiche per accogliere e proclamare la rivelazione divina[23].
Pertanto sono necessarie sia la teologia: “Fides quaerens intellectum per verba”, sia la iconoteologia che è “Fides quaerens intellectum per visionem”. Il teologo e l’iconoteologo rispondono alla stessa ‘testimonianza apostolica’: “Quello che abbiamo visto e udito, lo annunziamo anche a voi (I Giov. 1, 3).
Il domenicano p. Venturino Alce ha potuto quindi con ragione affermare che le ‘pitture’ del Beato Angelico sono “omelie”[24].
[1] Cfr. G. Vasari, Frate Giovanni da Fiesole..., cit., in «Opere di G.V.», p. 505.
[2] M. Boskovits, Un’adorazione dei Magi e gli inizi dell’Angelico, cit., pp. 18-19: “L’intera produzione giovanile dell’artista, il frutto di quasi tre lustri di attività [Boskovits pone la data di nascita dellAngelico al 1395], sarebbe dunque andato perduto ? Non è facile crederci [...]. Si è tentati di pensare che invece di un inesorabile destino si tratti piuttosto delle conseguenze di una disattenzione critica, e che parte almeno dei dipinti ritenuti perduti stiano in verità sotto i nostri occhi in attesa di essere riconosciuti”.
[3] G. Bonsanti, Beato Angelico. Catalogo completo, Franco Contini ed., Firenze 1998, pp. 113-114.
[4] S. Orlandi, Beato Angelico, cit., pp. 14-15. - G. Bonsanti data quest’opera al 1425ca: Cfr. G. Bonsanti, Beato Angelico, cit., p. 121.
[5] G. Vasari, Frate Giovanni da Fiesole..., cit., p. 513: “In Santa Maria Novella [...] dipinse di storie piccole il cereo pasquale”.
[6] M. Biliotti O.P., Chronica pulcherrimae aedis magnique coenobii S. Mariae cognomento Novellae Florentinae civitatis, [composta nel 1586], , “Analecta S. Ord. FF. Praedicatorum”, Anno XXIII, Ser.III (1915-1916), cap. 21, p. 240. Biliotti, in verità, non parla propriamente del cero ma di un “candelabro pensile [cioè ‘che poggia su dei pilastri’]”, che ‘ricoperto dapprima d’oro: ipsum [candelabrum] auro prius tectum” fu poi effigiato da figure angeliche dal giovane pittore del Mugello. Biliotti riferisce a fra Borghese la committenza del candelabro, che fin dall’origine fu collocato sul lato sinistro dell’altare della Cappella maggiore: “Et pensile illud fabricatus est candelabrum, in quo ante maius altare appenso ardet quotannis paschalis cereus” (l. cit., p.240).
[7] S. Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella, L. S. Olschki, Firenze 1955, t. II, n. 589, p. 77 e p. 397: Orlandi riporta la testimonianza di fra Giovanni Caroli: “Paschale cereum egregia sculptoris arte atque pictura insigni confectum Borghesius idem instituit”. - Per la ‘probabile’ attribuzione della ‘scultura’ del candelabro cfr. S. Orlandi-, S. Maria Novella e i suoi Chiostri Monumentali, Ed. PP. Domenicani di S. M. Novella, Firenze 1966 (3a ed.), p. 25.
[8] Il Libro di Antonio Billi, a c. di Annamaria Ficarra, Fausto Fiorentino ed., Napoli 1968, p. 16. L’Anonimo Magliabechiano, a c. di Annamaria Ficarra, Fiorentino ed., Napoli 1968, p. 102. Cfr. S. Orlandi, Beato Angelico, cit., pp. 12-13.
[9] Il Libro di Antonio Billi, cit., p. 16: “In Santa Maria Novella in Firenze, tra le tre porte del tramezzo, quando era giovanetto, più tabernacoli in detta chiesa dove tengono le reliquie”; L’Anonimo Magliabechiano, cit., p. 102.
[10] Cfr. S. Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella, cit., t. I, pp. 152-153.
[11] Cfr. M. Biliotti O.P., Chronica pulcherrimae aedis, cit., cap. 19, p. 230.
[12] Cfr. S. Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella, cit., t. II, pp. 168-169.
[13] G. Vasari, Giovanni Cimabue, in «Opere di G.V.», cit., t. I, pp. 247-249. Ecco il testo completo: «Giovanni cognomato Cimabue [...], fu mandato, acciò si esercitasse nelle lettere, in Santa Maria Novella, ad un maestro suo parente, che allora insegnava grammatica ai novizi di quel convento: ma Cimabue in cambio di attendere alle lettere, consumavasi tutto il giorno, come quello che a ciò si sentiva tirato dalla natura, in dipingere in su‘ libri ed altri fogli, uomini, cavalli, casamenti ed altre diverse fantasie. Alla quale inclinazione di natura fu favorevole la fortuna; perché essendo chiamati in Firenze da chi allora governava la città alcuni pittori di Grecia, non per altro che per rimettere in Firenze la pittura piuttosto perduta che smarrita, cominciarono fra le altre opere tolte a fare nella città la cappella de’ Gondi; di cui oggi le volte e le facciate sono poco meno che consumate dal tempo, come si può vedere in Santa Maria Novella allato alla principale cappella, dove ella è posta”.
[14] Cfr. S. Orlandi, Beato Angelico, cit., Doc. VII, p. 173. - Giorgio Bonsanti (Beato Angelico. Catalogo, cit., p. 116) ritiene che ‘la Croce’ dall’Angelico eseguita per l’Ospedale di Santa Maria Nuova possa identificarsi con l’attuale “Crocifisso” (cm. 164 x 100) collocato attualmente sopra l’altare maggiore della Chiesa di San Marco in Firenze: “Dal momento che i parametri stilistici del Crocifisso sono ancora nell’ambito tardogotico alla Lorenzo Monaco [...] potrebbe davvero trattarsi dell’opera in questione”.
[15] Riferisco quanto S. Orlandi ritiene sulla datazione dell’apertura del Convento S. Domenico di Fiesole: “Non sappiamo precisamente quando il convento di San Domenico di Fiesole venisse riaperto e cominciasse la sua vita regolare.Sembra tuttavia certo che il restauro, e soprattutto il grandioso ampliamento, richiedesse qualche anno di lavoro. Supposto, perciò, che sia stata messa mano subito ai lavori, si può pensare che il convento fosse terminato ed abitabile sulla fine del 1420, o sul principio del 1421”, Cfr. S. Orlandi, Beato Angelico, cit., p. 18. - Sant’Antonino ci riferisce su i due momenti che si sono avuti nella costituzione del Convento dell’osservanza di San Domenico di Fiesole: quello della fondazione da parte di fra Giovanni Dominici e quello, che Antonino chiama ‘complementum’, della restaurazione e dell’ampliamento alla ripresa del Convento nel 1419. Purtroppo Antonino non fa date. “Conventus quoque Sancti Dominici in diocesi Fesulana prope Florentiam ab ipso [i. e. fr. Ioanne Dominici] a fundamentis edificatus est. Complementum tamen beneficii illius habuit ex legato VI. milium florenorum facto per nobilem virum Barnabbam de Aleis mercatorem”:Cfr. Antoninus Arch. Florentinus, Chronica, Sub signo Sphaerae apud Aegidium et Iacobum Hugietan, Lugduni 1543, Pars III, Titulus XXIII, cap. XI, § III, fol. 178v
[16] Humbertus de Romanis, Libellus seu Tractatus de instructione Novitiorum, cap. IV, in “Oprera de vita regulari”, a c. di J. J. Berthier O: P:, ed. Marietti, Casale 1956, t. II. p. 530.
[17] G. Vasari, Frate Giovanni da Fiesole., cit., in “Opere di G. V.”, pp. 505-506.
[18] Cfr. le note di Gaetano Milanesi alla “Vita di fra Filippo Lippi” di G. Vasari, in “Opere di G. V.”, cit., p. 612. Milanesi ricorda come Filippo, accolto dai Carmelitani fiorentini “quand’era fanciullo di appena 8 anni, [...] gl’insegnarono le prime lettere e tanto di grammatica, quanto gli fosse sufficiente a pigliare i primi ordini del chiericato”:cfr. l. cit., pp. 611-612.
[19] G. Vasari, Don Lorenzo, monaco degli Angeli di Firenze, in “Opere di G. V.”, cit. pp. 17-18.
[20] S. Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella, cit., t. I, pp. XVIII-XIX.. - Thomas Aq., Summa th., I p., q. 57, a. 3, ad 3: “In ipsis speculabilibus est aliquid per modum cuiusdam operis, puta constructio syllogismi aut orationis congruae, aut opuus numerandi vel mensurandi. Et ideo quicumque ad huiusmodi opera rationis habitus speculativi ordinantur, dicuntur per quandam similitudinem artes, , scilicet liberales, ad differentiam illarum artium quae ordinantur ad opera per corpus exercitia, quae sunt quodammodo serviles, in quantum corpus serviliter subditur animae, et homo secundum animam est liber”.
[21] Cfr. Constitutiones primaevae S. O. Praedicatorum, S. Dominici de Faesulis 1962, [n. XXXVIII], p. 24. Humbertus de Romanis, Opera, ed. cura J. J. BERTHIER, Taurini 1956, v. II, cap. VI: De officio magistro conversorun, pp. 234-235: “Debet eos sumrne incitare ad laborandum semper et libenter in aliquo opere pro conventu; et propter hoc licentiare eos ab omnibus horis sive de die, sive de nocte: praeterquam a completorio, a quo non sunt licentiandi, nisi propter servitia quae tunc ex necessitate surn facienda”.
[22] Giordano da Pisa, [sermone] In pnncipio Deus creavit caelum et terram, in “Prosatori minori del Trecento”, a c. di De Luca G., Milano-Napoli 1954, p. 27.
[23] S. Orlandi, “Necrologio” di S. Maria Novella, cit., t. I, p. 22, n. 179: “Fr. Petrus filius Galigai de Maccìis, Sacerdos et predicator [...], ingenìosus circa mechanica, et ad edificia construenda industrius”; p. 49, n. 276: “Fr. Thomas filius olim ser bindi pinzocheri [...]. Sacerdos et predicator [...], bonus scriptor, optirnus mechanicus”. - Trovo nel Necrologio di S.M. Novella, un frate artista, contemporaneo del Beato Angelico, e ‘non converso’ ma ‘sacerdote’. Si tratta di fra Bcrnatdino di Stefano, maestro vetraio, morto a Firenze neI 1451. L’elogio del Necrologio però, non appena affermato che fra Bernardino era “magister fenestratnm optimns”, soggiunge, quasi a scusare la sua condizione di ‘sacerdote’, che egli era “satis licteratus”. Cfr. S. Orlandi, ‘Necrologio’ di S. M.: Novella, cit., t. I, n. 652, p. 159.
[24] M. Biliotti O.P., Chronica pulcherrimae aedis, cit., in “Analecta S. O. FF. PP.”, cit., a. XXIII (1915-16), cap. 19, p. 184. - Opportunamente p. V. Alce ricorda alcuni nomi illustri di ‘artisti’ domenicani (cronologicamente posteriori all’Angelico) non sacerdoti ma soltanto ‘frati conversi’. “Nell’ordine domenicano furono conversi il Beato Giacomo da Ulma, maestro di vetrate (m. 1491), fra Damiano da Bergamo, intarsiatore (m. 1549), mentre non andò oltre il diaconato il pittore fra Bartolomeo dalla Porta (m. 1517)”. Cfr. V. Alce O.P., Angelicus pictor, cit., p. 35. - Cfr. Salvatore I. Camporeale, Giovanni Caroli e le “Vitae fratrum S. M. Novellae”. Umanesimo e crisi religiosa (1460-1480), in “Memorie Domenicane”, N. S. n. 12 (1981), pp. 185, 243. - Cfr. E. Marino O.P., Santa Maria Novella e il suo spazio culturale, in “Memorie Domenicane”, N. S. n. n. 14 (1983), p. 352.