Ninnj Di Stefano Busà

Poesie

ELLITTICHE STELLE (2013)

 

Copyleft © Emilioweb  ottobre 2013

Fortezza nel deserto. Scrutano all'orizzonte ospiti sconosciuti, tra le mura riducono schiavi ospiti benemeriti (cf. Sap. 19,14)g Un settembre che rintraccia

le parole, le orienta, le stringe a sé,

come un torpore o un abbraccio.

Poi tutto è un rimedio per le rughe,

una realtà che scompare a comando,

ben oltre gli sguardi.

A frenarci c’è solo il mistero,

una pelle che invecchia.

Ancora un altro giorno cede,

se ne va, e il nostro viaggio

si fa breve, se un’altra estate chiama,

è tempo di ricordi, di ellittiche stelle.

Qui – oltre il silenzio c’è il mondo,

quasi ombra senza gioia

che si ripara dalla noia,

ha un passato senza volto.

Qui – è la città, l’alba, il perdono

che ti chiedo, a scaldare le mie vene.

 

Il tempo di guardarle appena le cose,

e già sfuggono, e il mondo ha uccelli

di passo, ozi, cose di breve conto;

appena un foglio bianco

e neppure un’odissea da raccontare,

un’elegia da vendere o incrociare

coi suoi morti, un’anemia di versi,

di suoni, di tinte accavallate.

Qui – dove le parole hanno solo l’ombra

a farle già diverse –

Qui – dove il verso scorre per cercarsi,

come se niente fosse e manca

la voce che lo stringe, lo conserva.


g Ora – c’è solo la tregua che concede

il vento –

Altro non potrei che lasciare

poche parole al foglio,

qualche seme intatto che s’agita

sotto la neve.

 

Tu affonda i piedi,

spingiti oltre la nostalgia che transita

veloce e incespica sulle cose,

intorno ai giorni, in questa terra

indifesa, che nasconde il carico

dell’ora e si nutre del buio.

 

Questa è la sigla che ti rendo,

una verità senza sconti,

un passo che non arretra, affrancato

dal battito del mondo.

Il nostro è dunque un parlar quieto,

un canto che declina

dal suo fronte di sole,

qualche svista, o frammento,

magari un calendario aperto

già all’inverno, un tempo che non vedi,

un miserere, poi tornerà la neve

a ricoprire il foglio.


g Se poi il nostro è un rito,

conviene fare taglia e incolla,

così il file modifica la finestra,

visualizza il formato e gli strumenti.

Tutto avviene all’incrocio,

di soppiatto. Tu salva col nome,

un giorno come tanti, carte, ipotesi,

la neve che rimanda ad altre latitudini,

ai suoi mattini di freddo sulla spianata.

Tra distanze minime apparirà

il turbinio lento delle ore,

segnàte da una vita sempre in forse,

le minime radici saranno

eutanasie di cose perse.

 

...aprile è così, sfila veloce,

si attacca alla pelle, accorcia le distanze.

Si va, si viene, luci accese,

passi che ticchettano su strade

e non sanno i sentieri per restare,

quelli per andare... Difficile è capire

il senso, accalcarsi come mattini

che non tornano, senza fedeltà

al mondo, senza strade che uniscono.

E poi sarà come se tutto fosse accaduto

in fretta, un porre fine al tempo,

all’incenso delle stanze vuote.


g Ora i passi sfrangiati temono

le strade, si fermano al confine

che separa il mondo dal balcone.

È nel sole terso o nelle stanze vuote

che restano margini sottili,

l’odore acre della polvere sopravvissuta

al respiro delle case, dei viali.

 

Tu mi parli di una vita in forse,

d’un seme migrato altrove,

un fuoco che non scalda.

Fuori l’ora fugge, l’attimo breve

ha voce chiara, quando la notte tace

e il mondo è assenza di vento.

 

Non cede quella luce di settembre,

muove a folate e presenta

un retroattivo tempo di bilanci.


g Milano sotto la neve

Milano nei suoi giorni grevi

è senza voce, scie di nomi

nelle piazze poco illuminate,

nelle strade battute dalla polvere

e dal gelo, viandante stanco

in preda alla bufera.

È come un luogo senza direzioni,

una mappa cancellata dalla neve

che copre le case e i balconi,

resta pulsante sotto manti illividiti

una sua vita sotterranea,

un cielo cancellato,

mentre acerba la stagione

si ripete sempre in corsa,

fuori da te, quasi altrove,

distante dall’asfalto,

tra maschere e avventure

tutto tiene come una nostalgia,

un silenzio di cose andate,

di altre che verranno, qualche ruga.

- Milano, 12 febbraio 2013


g Tutto già copre una vita assente,

gli sguardi che accompagnano

la sera, la fatica che rincorre

le stagioni, le foglie che le seguono,

già chiamano ai giorni di confine.

È tutto in questa folla di nubi,

che ci sottrae al sole, e cattura qualche volto.

Poi un’altra voce chiama, è il tempo

che ci assegna qualche volto familiare,

pigramente ci spoglia, ci parla

di un copioso andare, tra ginestre

e volti senza rughe, il fondo della strada

consumato dà spazio a innumeri silenzi,

solo un sorriso si attacca alla vita.

 

Se resta è un filo sottile,

uno scampolo di cose malandate,

un punto e a capo, un altro tempo

che non sai se separa

i tuoi ritardi, cancella i tuoi respiri.

Lo smalto poi si scrosta, invecchia

in altro modo, si smaglia dalla pelle,

e non c’è iato, qui dove svampa,

tra il buio e il mondo, tra la notte

e il cuore.


g Senza gioia il mattino,

tra sguardi che ritardano

e un sole avaro, un luogo condiviso,

qualche nube.

La scopri da una strada polverosa

l’altra verità che s’attarda

a tentare un cielo terso,

un vento che sosta ad ogni porta,

come un passante senza nome,

lo vedi andare piano,

quando il canto è breve

e l’ombra fugge e il mondo

è solo un suono dimenticato.

 

Un viaggio senza ritorno,

una storia che porta due parentesi

tra un poco e l’altro della vita,

una distanza tra asintoti e tangenze

sempre più lontani, linee d’ombra.

Qui – dove ogni giorno è muto,

e manca sempre un punto

di congiunzione che ti stringa, –

e torni indietro per cercare

un codice segreto che lo acquieti

ne scopra l’ordine, una rotta condivisa.

Qui è terra consumata, senza più elegia:

terra di rami spogli, di malinconia.


g Il tempo appena di guardarle le cose,

e già sfuggono, e il mondo ha uccelli

di passo, ozi, cose di breve conto,

appena un foglio bianco

e neppure un’odissea da raccontare,

un’elegia da vendere o incrociare

coi suoi morti, un’anemia di versi,

di suoni, di tinte accavallate.

Qui – dove le parole hanno solo l’ombra

a farle già diverse –

Qui – dove il verso scorre per cercarsi,

come se niente fosse e manca

la voce che lo stringe, lo conserva.


g Sembrano prendersi gioco dell’ora

le sciabolate di luci imminenti.

Ti corre un brivido fragrante di felicità,

quello che s’insinua tra le tamerici e il nulla,

il frutto acerbo era la giovinezza.

Così spalmo l’ineguagliabile acqua serena

sulla fronte del dio, profetizzo altri templi

e sentieri con la stagione del miele,

mentre le salmastre acque

si fanno opalescenti e sorridono al cielo.


g Nel grido del sole c’è lo splendore

autunnale, stupiscimi col tuo nettare acerbo,

declina i tuoi lembi azzurri

sul portale di memoria

che ci è appartenuta come emozione,

ora radice dilapidata e sofferto dolore.

M’incanta l’ebbrezza, un lungo brivido di pioggia,

le ombre nei riflessi dorati della giovinezza.

Con te ritrovo quel doloroso miele dell’abbraccio.

 

Momenti d’erba scioglie la sera,

un desiderio che stringe il mondo

nel suo oscuro moto,

e respira venti di tempesta il suo stupore,

perdendosi nel folto della siepe,

tra ali di ortiche e aquiloni.


g Un sentiero di luce costeggia

il sereno dei tuoi occhi.

Vi è il respiro frale del giorno,

la salsedine delle marine assolate,

le mareggiate notturne, nel gioco delle trasparenze.

Noi siamo lì con la spietata illusione:

le palpebre chiuse e quella poca argilla

tatuata in seno – ombre celate tra la resina e la pelle –.

 

Raggiungere il confine,

misurarne il suo perimetro di pietra,

il tempo che trasmuta in appunti

di diario necessari a immunizzarsi:

ai silenzi, ai tempi, ai luoghi

che si travestono di passato

per escluderci.


g Può venire solo dal labbro

la parola amata, a piegarci,

senza l’ombra di peccato,

oppure volgere lo sguardo al bene prezioso,

alla tenera notte che artiglia la tenebra,

a custodire quel tuo sorriso

come un sole sbucato dall’inverno,

o regalare la neve come un giorno felice

che arrossisce alla luce.

Di ogni cosa resta la fitta malinconia

sul filo del tempo, a riparo dalla sorte.

 

La notte ha occhi seducenti,

dal sogno evoca l’oro di memorie,

si fanno lente come clessidre vuote

all’ombra delle attese le ore,

alzano vessilli d’alba, reti di dolore,

sfilano come lame sul velluto

le giostre colorate dalla luce,

preparano il giorno al sangue già versato,

agl’immemori presagi della resa.

Sarà ancora dubbio questa disarmonia

di canti? Artiglio delle favole incompiute

scioglie la nera uniformità notturna.

Ogni silenzio è guado in mare alto,

vena di attracco lungo il bordo scuro,

riarso dei ricordi.

E non vorremmo migrare in altri luoghi

che quelli di un cielo di cobalto.

Uccelli migratori ora smarriti

non sappiamo chi ci salverà.

 

Come acque chete

che accarezzano scafi, accelera

l’aprile lungo il litorale, fiati di brezza

promesse di equinozi attendono

il sogno dell’estate, ignara

dentro la trafittura di ferite, anela

l’erba a rinfoltire il verde sui muretti,

sui dossi e sugli anfratti.

E ci spingiamo al largo dalla secca,

dai canali melmosi, al lampo azzurro,

al porto più sicuro come velieri

salpati al vento di bolina.

Terra che si sfalda ereditammo

e oro che la ciurma inabissa

al suo naufragio. E giungemmo

al lampo delle stelle con audaci pensieri,

a sfogliare giorni lievi, parole

che precedono il canto dell’addio,

forse il perdono o la dimenticanza,

senza voltarsi indietro.

 

Un labirinto di franta luce,

un sogno raggrumato, precipitato

dal lungo sonno, lasciato a fiammeggiare

dentro il suo tormento, ossidato

come lanterna abbandonata

all’irrisolto abbraccio della luna.

Eppure inventeremo un nuovo giorno,

un’alba di rinnovato stupore

al sole d’innocenza.

La luce è incorruttibile stasera,

inventa nuove favole, sgrana rosari

e fiori abbandonati.


g E vi sostammo

tra il dolore e il silenzio,

senza tregua, imbrigliati

alle guglie dei giorni,

come germogli al ramo,

trafitti da stagioni senza appiglio,

sorseggiando il coraggio

come uccelli le nuvole,

o il seme trascinato dal vento.

Tra le felci ombrose,

l’ultima mietitura intona

già il presagio.

 

La notte ha ossidato il tempo

delle semine, disseccato grani di rosario,

il sogno delle favole-bambine

più non cresce tra le nostre braccia,

si fa pietoso e stanco il vento

che incide sulle note dell’addio,

come profumo di sandalo.

Non è tempo di prodigi

che inondano di luce la città dei vinti.

Si cercano parole da incolmabili distanze.


g Lasciati andare, anima,

so che si può precipitare

e ritornare a galla come nuovi.

Un concetto di energia ci chiama

ad un prima e un dopo.

Lasciami incrociare il precipizio

e poi la pace,

respirare i silenzi dopo fragile gioia.

Qualcosa mantiene

labbra rosse che sfumano in violetto,

l’asperità o il flagello delle unghiate.

Potrei innamorarmi della morte,

e avere affinità alla vita,

presagire lucente e trascorrente

la dolcezza che innamora.

 

Forse spalanca all’erba un nuovo giorno,

mostra un riflesso tenue della luce

che irrompe e scompagina

l’umana irrequietezza,

il grido che non rinuncia ad aprirsi

come il cielo alle rondini.


g Il luogo delle attese –

è questo il mondo,

stridìo di pietra pomice sul cuore,

sussulti di vento.

 

Tempo di stupore e meraviglia, il nostro,

contorni d’ombra in cima ai tuoi pensieri.

Di tanti affanni il cuore si ricolma,

di vele che solcano il disgelo,

oltre quel mare fondo,

o l’azzurrità di un petalo che balza

dall’orlo della terra al sole di domani.

 

Vorrei ravvivare i fuochi della sera,

la fatica umana col seme della vita,

scoprire radici nuove e sciogliermi

dentro alveari di miele col silenzio in bocca.


g La vita taglia i fiati dell’inverno,

straziata dalla sete

di qualche istante infiammato,

come falena all’ultimo fuoco.

 

E vi rosseggia il dolore che ritorna,

come il sangue di anemoni di mare

pronti a snidare il lampo,

il buio o la tenuta di una storia minore.


g


g  fine!

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