⌂ Queste le istanze avanzate da un secolo di risveglio di studi islamici, distribuiti nel tempo e complementari sia per provenienza che per disciplina. È principalmente il contributo dei pionieri della ricerca sistematica del pensiero filosofico in terra d’islâm. Vanno ricordati:
F. Dieterici, Die Philosophie der Araber im X. Jahrbundert, Leipzig 1876.
L. Gauthier, La philosophie musulmane, Paris 1900; Introduction à l’étude de la philosophie musulmane, Paris 1923.
T.J. De Boer, Geschichte der Philosophie ím Islam, Stuttgart 1901; ed. inglese London 1903.
I. Goldziher, Die islamische und die judische Philosophie des Mittelalters, Leipzig 1913.
M. Horten, Die Philosophie des Islam in ihren Beziehungen zu den philosophischen Weltanschauungen des westlichen Orients, München 1924. Cf. Id. art. Falsafa in «Encycl. of Islam», 1a ed., t. 2 (1927); e recentemente in «Islamic Studies» 12 (1973) 1-36; 231-60.
L’opera fondamentale dell’Horten stabilisce un nuovo programma dal titolo stesso. L’A. rigetta le appellazioni “filosofia araba, filosofia presso gli arabi”, e colloca i falâsifa sotto la rubrica: «La filosofia nel dominio culturale musulmano». De Boer ha cura di precisare che si tratta di filosofia in islâm, non dell’islâm. E gli studiosi più recenti si muovono entro tale prospettiva, benché valutazioni e preferenze ideologiche diano occasione - come vedremo or ora - a divergenze interpretative di non poco conto. Del testo - si fa notare - i pensatori dell’islâm medievale come chiamarono se stessi? o come furono chiamati dagli scrittori contemporanei arabi? Né “filosofi arabi” né “filosofi presso gli arabi”; bensì falâsifa (= philosophoi), al-falâsifa al-islâmiyyîn, falâsifa al-islâm; o semplicemente hukamâ (= sapienti).
Riprendiamo ora l’inchiesta promossa da p. Anawati e le risposte al questionario. Non senza premettere categorie e dati di base recuperati al problema; di essi il dibattito fra specialisti fa uso, non di rado li sottintende. Potremmo raggrupparli sotto i due lemmi della contestata “filosofia araba”.
1. In senso etnico? Ma pressoché tutti i falâsifa sono non-arabi (persiani, turchi, andalusi... ). Le grandi osmosi culturali cavalcano solitamente su conflitti etníco-politici. Come cancellare dentro un indifferenziato “pensiero arabo” i contrastanti momenti dello spirito innestati sui conflitti di potere all’interno della terra d’islâm? - cui non è estranea la rivalsa dei neofiti contro il predominante elemento arabo. Conflitti che in oriente (dall’Egitto al Khurâsân al Khwârizm) dinastie turche e persiane consumano sul califfato abbaside in declino (sec. X-XIII, fino alla presa e saccheggio di Baghdâd 1258 da parte dei Mongoli). E in occidente (Maghrib e al-Andalus) come ignorare la molteplicità delle forze in gioco (elemento indigeno iberico, arabo della prima penetrazione, berbero delle successive ondate almoravide e almohade) se si vuole intendere la radice di talune politiche culturali e fatti dottrinali? O continueremo a rappresentarci il problema fede-ragione in termini di idee pure? Al-Ghazâlî e Ibn Rushd - per non fare che due nomi illustri e su opposte sponde - furono ambedue stretti tra pesantissime pressioni politiche. Né il Fasl al-Maqâl («Trattato decisivo» sull’armonia filosofia-fede) di Averroè né il servizio di al-Ghazâlî alla restaurazione ortodossa sono comprensibili senza stabilire le tensioni sociali create e dalle alterne politiche religiose degli almohadi in occidente e dalla restaurazione teologica di Nizâam al-Mulk in oriente a favore della potenza selgiuqida in ascesa.
2. In senso linguistico? Certamente l’islâm medievale, specie quello del blocco centrale e maghrebino, andaluso compreso, si è espresso in lingua araba. Ma si può sorvolare il fatto che molti degli stessi falâsifa erano bilingui e scrissero, oltreché in arabo, in persiano o altre lingue nazionali? E soprattutto, non si verrebbe a escludere dal pensiero filosofico in islâm quei pensatori non direttamente riallacciabili alla corrente falsafa che nel più dei casi s’espressero in lingua nazionale? H. Corbin ha buone ragioni per rivendicare un posto nel pensiero islamico a nomi quali Nâsir Khusrow, Afzal Kâshâni, ‘Azîz Nasafî (sec. XI-XIII) che scrissero solo in persiano. Come per l’inverso, opere dalla medesima ispirazione e tecniche della falsafa esistono in lingua siriaca ebraica ecc.
3. In senso teologico-confessionale? arabo quasi islamico? Vi si oppongono due ovvie costatazioni: a) tra i falâsifa (ma anche in altre aree della civilizzazione islamica) si annoverano grandi nomi di non-musulmani, ebrei, cristiani, sabei. Come non ricordare il ruolo determinante in Baghdâd, per il costituirsi della falsafa, di Hunayn († 877 ca.), Ishâq († 910), Hubaysh, Abû Bishar Mattâ († 949) nestoriani; Qustâ b. Lûqâ († 912) melkita; Yahyâ Ibn ‘Adî († 974) giacobita, detto al-faylasûf e al-mantiqî (= il filosofo, il logico), discepolo di al-Fârâbi († 950)?
In Tommaso d’Aquino, De spiritualibus creaturis a. 3, ob. 9; ib. ad. 9 si cita il De differentia spiritus et animae; ne è autore Qustâ b. Lûqâ († 912), arabo melkita di Baalbek, che occupa un posto onorevole nella storia della falsafa. Per gli scrittori cristiani in arabo, cf. G. Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur, 5 voll., Vaticano (Studi e Testi) 1944-53; P. Khoury - R. Caspar, Auteurs chrétiens de langue arabe (sec. VII-X), «Islamochristiana» 1 (1975) (1975) 152-69. Vale la pena ricordare che Maimonide riallaccia al cristiano Ibn ‘Adî l’attitudine apologetica del kalâm (Gardet-Anawati, Introduction... o. c., p. 287, n. 3). E Tommaso d’Aquino nel riportare le opinioni dei loquentes-mutakallimûn usa come fonte principale proprio Maimoníde.
b) Non è contraddittorio definire una filosofia in islâm in base a criteri d’ortodossia islamica? Come trovare un posto per i molti “líberi pensatori”, da Ibn Zakarîya al-Râzî († 932) allo stesso Ibn Rushd († 1198)? E tutto il pensiero sufico e shi‘ita? (Alcune risposte del questionario paventano, a buona ragione, l’insorgere della vexata quaestio d’una “filosofia islamica” parallela a quella d’una “filosofia cristiana”).
La falsafa (philosophia), pensiero filosofico medievale d’espressione araba e ispirazione ellenistica, è solo una corrente della riflessione filosofica in terra d’islâm. Essa deve integrarsi e confrontarsi, per la sua stessa intelligenza, con le altre forme (specifiche della civilizzazione islamica) in cui il pensiero filosofico si è espresso con uguale vigore e spesso con più varietà tematica. Gl’islamologi ricordano a questo proposito:
1. ‘Ilm al-kalâm (= scienza della parola, discorso, logos). Indica la teologia musulmana. Ma - precisano Gardet e Anawati - non quasi una controparte islamica della teologia cristíana. Piuttosto una “teologia apologetica”, dalla funzione quasi esclusivamente difensiva, mentre rifugge - in forza delle sue stesse premesse - dalla riflessione conoscitiva e fruitiva del mistero di Dio. Al servizio apologetico del domma islamico, i teologi-mutakallimûn attingono alla sapienza profana e spesso ne assumono gli strumenti intellettuali in funzione ancillare alla fede.
Mutakallimûn, teologi apogoletici, da kalām (parola); i «loquentes in lege Maurorum, Saracenorum»: cf. Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles III, 65, 69, 97; De Verit. q. 5, a. 9, ad 4. Conosciuti tramite Maimonide
Le fonti occidentali latine conoscono il più grande e il più autorevole mutakallim, al-Ghazâlî (Algazel), persiano del Khurâsân, morto nel 1111. Di lui gli storici dicono volentieri che abbia svolto analogicamente in islâm la stessa funzione mediatrice di Tommaso d’Aquino in teologia cristiana. Ma la sua sorte, nelle fonti occidentali, sfiora l’ironia. Compose il Maqâsid al-falâsifa (Intentiones philosophorum) in cui sono esposte con rigore e obiettività la dottrina dei falâsifa, soprattutto di al-Fârâbi e Ibn Sînâ. L’opera fu tradotta (Metaphysica) in latino ma senza l’introduzione e la conclusione dove si apprendeva il proposito dell’autore di far seguire una seconda opera di confutazione delle tesi discordi dalla fede islamica. Cosa che fece in Tahâfut al-falâsifa (1095) (Incoerenza dei filosofi) sconosciuto in occidente. Così al-Ghazâlî fu inserito, suo malgrado, tra i falâsifa quasi professasse le dottrine filosofiche da lui accuratamente esposte in Maqâsid. Ibn Rushd († 1198), più informato, si accinse a controbattere il Tahâfut di al-Ghazâlî col Tahâfut al-tahâfut (Destructio destructionis). Fu il più drammatico scontro, in terra d'islâm, tra falsafa e kalâm.
Tommaso d’Aquino: «Alii dixerunt, scil. Avicenna et Algazel et seguaces corum, quod Deus cognoscit singularia universalíter» (In I Sent. d. 36, q. 1, a. 1 c). «Quorundam philosophorum fuit positio quod Deus creavit creaturas inferiores mediantibus superioribus, ut patet in Liber de causis et in Metaphysica Avicennae et Algazelis» (De Pot. q. 3, a. 4 c.). Cf. C. Vansteenskiste, Autori Arabi e Giudei nell’opera di San Tommaso, «Angelicum» 37 (1960) 336-401. Al-Ghazâlî aveva denunciato nel Tahâfut venti tesi filosofiche inconciliabili col domma islamico; tra di esse, eternità del mondo, emanazione delle intelligenze e anime delle sfere celesti, delimitazione della conoscenza divina agli universali, negazione della resurrezione corporale... Trad. inglese del Tahâfut: Incoherence of Philosophers, tr. S.H. Kamali, Lahore 1958. Anche della risposta (Tahâfut al-tahâfut) di Averroè si ha una trad. completa: The Incoherence ol the Incoherence, tr. S. Van Den Bergh, 2 voll., London 1954.
Avicenna (Ibn Sînâ, † 1037), Opera philosophica, ed. Venezia 1508, reimpressione Louvain 1961 (Bibl. SMN - Campo 61.85).
2. Tasawwuf: mistica musulmana, o sufismo. Immensa la letteratura, così come varia, spesso sofisticata, la filosofia che sottende.
3. Scienze religiose in senso stretto: comprendono corano e sua esegesi (tafsîr), tradizione (sunna, hadîth), diritto (fiqh). L’importanza sociale e istituzionale di quest’ultimo e la sua organizzazione epistemologica (usûl al-fiqh: fonti del diritto) sono spesso luoghi privilegiati per seguire sviluppi e tendenze del pensiero filosofico introdottosi tramite le scienze ausiliarie (grammatica, retorica, aritmetica... ).
4. Shi‘ismo: troncone “separato” dall’islâm sunnita, che marcherà tutta la storia e il pensiero dell’islâm persiano e orientale in genere. Sarà il terreno in cui si sviluppa la filosofia «orientale» (ishrâqî). Gli elementi ne saranno, di volta in volta, esoterismo, esegesi «interiore» (bâtin), millenarismo, profetismo, sufismo eterodosso, speculazione teosofica. H. Corbin ne è il più illustre studioso. Le stesse categorie di base si ergono, per la loro alterità culturale, contro la falsafa ellenizzante: Hikmat al-Ishrâq [sapienza dell’Oriente], Hikmat ilâhiya [sapienza divina], théosophie, philosophie prophétique... «La philosophíe prend alors la forme d’une philosophie prophétique» (H. Corbin, Histoire de la philosophie islamique, Paris 1964, 8). Un islâm, in breve, non più lievitato dalla cultura araba ma dal genio perso-íranico. E Corbin ha posto proprio questa intuizione a fondo della sua proposta storiografica in Histoire de la philosophie islamique, orientando l’interpretazione del pensiero filosofico non solo a favore della componente non-araba della civilizzazione islamica (cf. Avant-propos, p. 5), ma privilegiando addirittura la corrente teosofica dello shi‘smo persiano, dall’esegesi esoterica (bâtin) al sufismo “eterodosso”.
L’opera del Corbin apre con «Lo shi‘smo e la Filosofia profetica» (pp. 41-151); prosegue col «kalâm sunnita» e altre correnti spirituali dell’islâm. Il pensiero di Suhrawardî al-Maqtûl (l’«assassinato», perché presumibilmente messo a morte per eresia nel 1191) sta al centro dell’interpretazione corbiniana dell’islâm mistico-profetico, anti-aristotelico. Mentre Suhrawardî è intenzionalmente escluso da Badawi (q.v. infra) nella sua Histoire. Di Suhrawardî (Oeuvres philosophques et mystiques, Paris-Téhéran 1970) Corbin è anche editore e traduttore.
Questi gli elementi del problema. Come riconcíliarli? Come riconciliare i medievisti occidentali con gl’islamologi? E per quanto possa sembrare ironico, come riconciliare opposte soluzioni tra gli stessi islamologi?
Ecco in breve gli schieramenti emersi dalle risposte al questionario. Evidentemente le motivazioni dei singoli autori possono variare a seconda delle scelte pregiudiziali e della diversa subalternazione degli elementi suesposti.
a) Un primo gruppo ritiene che sia ancora utile mantenere la denominazione “filosofia araba”. È costituito per lo più da studiosi del medioevo latino ma anche da taluni islamologi: Chenu («Quoi qu’il en soit objectivement, je pense que pratiquement “Philosophie arabe” prévaut», p. 30), Van Steenberghen, Gilson, Wilpert, Rosenthal, Kutsch, Cerulli, Kraemer, Kritzeck, Taha Hussein, El-Khodeiri (gli ultimi due egiziani).
b) Un secondo gruppo preferisce la denominazione “filosofia musulmana” (“musulmana” denotante primariamente area della matrice culturale anziché comunità confessionale): A. Asghar Hekmat, A. Moin, M. Achena (iraniani), A. Bausani <† 1988; ne ricordo con gratitudine la cortese accoglienza a casa, Roma 1970, e la letteratura fornitami per l’area culturale dell’islâm iraniano e indo-pakistano>, T. Gregory, Arberry, Von Grunebaum, Van Den Bergh, Théry, I. Madkour (egiziano), G. Makdisi (filosofia “arabo-musulmana”).
c) Un terzo gruppo è per “filosofia islamica”. El-Ahwani (egiziano), Tara Chand (indiano), Corbin. La vivace reazione di quest’ultimo serve a illustrare la questione con le parole degli stessi protagonisti:
Le concept “arabe” a aujourd’hui un contenu politique, national, racial... Cest parce que je refuse de lier un concept religieux à une race ou une nation, que je soutiens que la seule dénomination véridique et correspondant aux faits est celle de “philosophie en Islam” ou de “philosophie islamique”... “ Philosophie islamique” peut englober toute philosophie, toute spiritualité se rattachant au fait religieux “Islam”. Et si l’on veut y englober chrétiens et juifs, disons “philosophie en Islam”. Cest ce qu’avait fait de Boer jadis (p. 80).
Stando così le cose, non pare si sia fatta molta luce. La domanda sulla delimitazione della filosofia in islâm dà più respiro alla prima questione. Non che l’unanimità sia di colpo raggiunta (ché anzi le divergenze si replicano qui sulla falsariga della prima questione); ma il precedente problema di denominazione si approfondisce man mano in questione di categorie conoscitive.
Gli occidentalisti riconfermano l’interesse per la falsafa così come conosciuta nelle fonti latine. Ma già Chenu nota che documenti filosofici arabi potrebbero avere “due vite”, una nella trasmissione latina, l’altra omogenea al loro mílíeu (35). Annotazione precorsa dagli stessi arabisti, persuasi dalla collazione dei testi arabo-latini a tener distinte le edizioni - quasi due “persone” letterarie - un Avicenna latinus [Opera philosophica, ed. Venezia 1508: Bibl. SMN - Campo 61.85] e un Ibn Sînâ arabo, un Averroes latinus e un Ibn Rushd arabo... Gli studi sulle vicende delle traduzioni e loro tecniche (Walzer, Peters, Alonso, Badawi, D’Alverny) hanno legittimato la scelta; ma hanno recuperato nel contempo l’urgenza di restituire un testo e un pensiero al suo habitat naturale, pena il fraintendimento del messaggio. Registriamo, comunque, a titolo di cronaca l’argomentazione di Wilpert a favore della filosofia musulmana ristretta alla falsafa:
Hier stehe ich auf dem Standpunkt, dass man den Begriff am besten in der Form nimmt wie er durch das Griechentum und durch die abendländische Tradition festgelegt ist... (35).
L’istanza di Corbin e l’ardore con cui è proposta va aldilà, mi sembra, della tutela d’una competenza; rivendica, in definitiva, la varietà con cui l’uomo in culture diverse compone e separa le unità conoscitive nell’improgrammata libertà del linguaggio. Negata la funzione ermeneutica d'una cultura A su una cultura B, neppure le precedenze onorarie sono credibilmente rivendicate.
Est-ce que l’on propose de créer une simple section “arabe” des études de philosophie médiévale?... Si l’on conçoit une entreprise de philosophie islamique dans un ensemble, ce sont les médiévistes qui deviennent les invités. Pourquoi exclure le tasawwuf ? Pourquoi et comment exclure nos philosophies shi‘ites... Et pourquoi restreindre falsafa à une philosophie soi-disant rationaliste, alors que la conception de l'hellénisme chez tous nos “philosophes” est celle des “prophètes et sages” grecs, non pas des rationalistes. Tout cela ne me semble pas reposer sur des textes mais sue les catégories limitatives orientalistes (Corbin, 80-81).
Il seguito dell’inchiesta rafforza la tendenza a superare le categorie “greca” e “occidentale” come criteri dell’esserci o no d’una filosofia; e a lasciar parlare invece testi e forme letterarie - nella loro originalità e intonazione peculiare - in cui la ricerca umana ha preso corpo in civilizzazione islamica. Scrutinare le ricchezze d’una civilizzazione, registrarne le forme costítutive ed espressive, prendere atto delle irrepetíbili unità significative che una lingua partisce sul continuum delle cose - tutto questo precede il catalogo. Non viceversa.
Je me demande s’il est toujours facile de tracer une ligne de démarcation entre la mystique, la théologie et la philosophie, quand il s’agit de la philosophie du moyen âge du monde musulman. Et notamment la chose me parait impossible quand il s’agit de définir par exemple le contour précis de ces concepts dans la pensée de cette Ecole philosophique qui s’est fait bonne fortune, surtout en Iran, sous le titre de “philosophie illuminative” (hikmat al-ishrâq) (Achena, 37-38).
Così, pur con diverse accentuazioni, i luoghi specifici d’espressione della cultura lievitata dall’islâm e la loro originale subalternanza sono riconosciuti come legíttime fonti del pensiero filosofico: le “scienze religiose” (Gardet, Rosenthal, De Menasce), al-kalâm (Guillaume, Hourani, Kutsh), tasawwuf (Achena, Schacht, Van den Bergh), usûl al-fiqh (Bausani, Cerulli, de Gandillac, Khodeiri, Kritzeck, Tara Chand...) e persino le scienze e altri aspetti della civilizzazione islamica (D’Alverny, Madkour, Arnaldez, Gilson). Si preferisce, in ultima analisi, che le occasioni specifiche d’una qualsivoglia riflessione critica siano definite dallo storico di volta in volta, nella loro ispirazione, nelle loro componenti (dalle linguistiche alle politiche), nelle loro aggregazíoni, nella loro direzione, all’interno di quei dati base che fanno storicamente la civilizzazione íslamica. E allora una convergenza verso la formulazione categoriale filosofia in civilizzazione islamica, filosofia medievale in terra d’islâm, filosofia in islâm (42, 77, 85) non risulta una stretta di mano sulla ricomposizione d’una lite; quasi un diplomatico compromesso per salvaguardare «à la fois les objects formels [delle diverse discipline], et, pourquoi ne pas le dire, les susceptilités nationales ou religieuses» (Anawati, 85).
Il che rimetterebbe l’arbitraggio della lite alle regole della cortesia. Mentre il dibattito mirava a trarre una lezione di non poco peso; e cioè che le forme sociali del sapere e della comunicazione sono specifiche d’una data società e delle sue vicende. In questa prospettiva si supera anche la perplessità della sottigliezza nascosta tra filosofia “musulmana” (muslim, musulmân: soggetto umano credente) e filosofia “islamica” (islâmî aggettivo astratto connotante adeguazione dottrinale, dommatica, eventualmente confessionale; ma Corbin l’usa - mi sembra - in senso di “contesto storico‑culturale d’islâm”). Difatti la nuova proposta storiografica porta quasi automaticamente a riallacciare frammenti parziali o periferici al fenomeno islâm nel suo insieme per trarre illuminazione (e quindi possibilità d’ermeneutica) sulle relazioni proprie che le singole parti ottengono nel tutto. In tal caso una convergenza di massima può delinearsi proprio alla luce dell’intuizione di de Boer all’inizio del secolo: “in islâm”.
… la formule trouvée jadis par de Boer (est) pratiquement la moins sujette à caution: Philosophie en Islam. Nous‑même, avec M. Gardet, en essayant de trouver une expression synthétique, “ouverte” à tous les aspects du problème, avíons fini par nous arréter à la formule “Philosophie médiévale en Terre d’Islam ”... A partir de là les subdivisions s’établissent d’une façon aisée: soit à partir de la langue... soit à partir de la religion... (Anawati, 85).
Conclusione. Raccomandiamo agli studiosi l’opera di p. Anawati come íntroduzione rigorosa e stimolante al pensiero filosofico in islâm. Strumento indispensabile per islamologi di professione e per medievisti occidentali.
Ma c’è anche posto per alcuni rammarichi. Il volume non è provvisto d’indice dei nomi, che pure era indispensabile in un’opera di consultazione come la presente. I saggi sono ristampati dall’editore tal quali nelle pubblicazione originarie, inclusa la diversità dei caratteri e i non pochi errori tipografici delle pagine stampate originariamente al Cairo. L’A. non ha aggiornato bibliograficamente i contributi qui presentati. Eppure la semplice lista della letteratura più recente avrebbe reso un grande servigio a chi non è familiare con le fonti degli studi orientalistici. Per restare nel campo della storia della filosofia in islâm, ad esempio, il lettore avrebbe potuto già tracciare gli orientamenti storiografici affermatisi dopo il dibattito surriferito e il congresso di Louvain (1958). Se ne tenta un abbozzo nel paragrafo successivo, con attenzione ai contributi più significativi.
Per il congresso in questione ed il séguito avuto, cf. «Rev. Philos. Louvain» 56 (1958) 681-83; 57 (1959) 637-65; «Riv. Filos. Neo-Scolast.» 51 (1959) 338-44; Madkour, La commission de la philosophie arabe, «Mélanges de l’Institut Dominicain d’Études orientales du Caire» 10 (1970) 291-300.