Introduzione

I saggi qui raccolti sono apparsi per la prima volta tra il 1973 e il 1988 sulla rivista «Memorie Domenicane»: pubblicazione annuale a carattere storiografico (nuova serie con gli anni Settanta).

Essi sono
Da Lorenzo Valla a Tommaso Moro. Lo statuto umanistico della teologia, MD 4 (1973) 9-102.
Lorenzo Valla tra Medioevo e Rinascimento. Encomion S. Thomae (1457), MD 7 (1976) 11-194.
Giovanmaria dei Tolosani o.p.: 1530-1546. Umanesimo, Riforma e Teologia controversista, MD 17 (1986) 145-252.
Lorenzo Valla e il De falso credita donatione. Retorica, libertà ed ecclesiologia nel '400, MD 19 (1988) 191-293.

Il titolo dato al volume penso indichi chiaramente il tema centrale e l'ambito di ricerca dei quattro saggi. Questi erano stati programmati sin dagl'inizi della mia ricerca come studi per un medesimo volume sull'umanesimo filologíco di Lorenzo Valla (1407-1457) e l'incidenza dell'opera sua sia in Italia che Oltralpe dai primi del Quattrocento all'avvento della Riforma e Controríforma. Percorso di ricerca, questo, circa temi e testi già occorsi, ma non svolti in modo adeguato, in molte pagine del mio primo Lorenzo Valla. Umanesimo e teologia del 1972. Pubblicazione del medesimo Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, cui debbo la presente raccolta.

I quattro saggi ripetono l'ordine cronologico della loro prima pubblicazione, mantenendone la sequenza, poiché essi erano allora, e tali permangono, strettamente datati dal duplice contesto della ricerca personale e della situazione storico-bibliografica, sia dei temi trattati che dei testi (editi o inediti) presi in esame. Ciò ha determinato il tipo di revisione possibile per questi saggi: revisione puramente formale, nella quale si è lasciato intatto, volutamente, il loro contenuto e discorso storiografico. Con un'unica eccezione: sono state segnalate, quando ritenuto opportuno, le edizioni critiche dei testi in esame, senza tuttavia mutarne l'originaria versione (inedita o a stampa) da me sottoposta a lettura ed analisi.

1. Unítà tematica e prospettíve storiografíche.

Unítà tematica dei saggi è data dalla ricerca sulle origini dell'umanesimo filologico nell'opera del Valla, sugl'ínflussi e sviluppi ulteriori di quell'umanesimo, ed infine sulla recezione critica, di rígetto o di dissenso, del medesimo.

L'opera del Valla è da specificare come umanesimo filologíco in quanto l'indagine messa in atto si dispiega tutta ed in modo costante sulle litterae, sia humanae (letteratura classica greca e latina, filosofica e poetica) che divinae (letteratura biblica greca e latina: scrítturística, liturgica e teologica). Il metodo d'indagine è l'analisi storíco-linguistica della letteratura classica e della letteratura biblica. Analisi quindi propriamente filologica, che viene messa in atto dal Valla come grammatica (morfologica e semantica) della parola e della lingua di quelle litterae: delle humanae prima, e poi, per estensione pertinente, delle divínae. La trasposízione di quel medesimo metodo d'indagine dalle litterae humanae a quelle divinae era fondata sul presupposto seguente: la Rivelazione ebraico-crístiana in quanto linguaggio e scrittura aveva assunto storicamente forma letteraria; per conseguenza, come ogni altra letteratura anche quella biblica (in tutte le sue lingue e scritture) cadeva di natura sua sotto le medesime leggi diacroniche e sincroniche di ogni altro linguaggio e scrittura.

Le Scritture Sacre erano quindi da sottoporre ad un unico e medesimo metodo d'analisi storico-linguistica - pur assumendo, all'interno stesso del medesimo metodo d'indagine, la diversità oggettíva e specifica dell'opera letteraria, da quella classica a quella biblica. Sì che per Valla - il quale in tal modo si collocava nella tradizione ellenistíco-ebraica prima e poi cristiana - le humanae litterae venivano quasi ad inverarsi nelle divinae lítterae e queste, a loro volta, derivavano il proprio statuto scientifico e metodo d'indagíne dal seno stesso della cultura umanistica.

La critica del Valla al sistema aristotelico-scolastico è tutta fondata sull'analisi grammaticale delle parole costituenti il linguaggio-base dell`"enorme sovrastruttura" logica, etica, fisica e metafisica della Scolastica. Lanalisi linguistica dei trascendentali, dei predicamenti e dei predicabili (l'íntero libro I della Repastínatío díalectícae et pbilosophiae) è indagine della loro grammatica: etimologia e morfologia, semantica ed uso di quelle parole nella «consuetudo loquendi» del «sermo communis». Ed è indagine grammaticale che porta a dimostrare la falsità d'uso di quelle parole e di quella língua, la non-verítà di quel linguaggio filosofico, la privazione di senso sia verbale che concettuale del pensiero aristotelico-scolastico, dalla logica alla metafisica.

In breve. L'índagine del sistema linguistico della speculazione scolastica attraverso la falsificazione del suo linguaggio categoriale conduce sia a rivelarne la privazione di senso e le contraddizioni insíte nell'«uso perverso» (come scrive il Valla) di quel linguaggio sia a provocarne l'implosíone della sovrastruttura teorica.

Una citazione emblematica della critica antimetafisica dal libro I della Repastínatio - da privilegiarsi senz'altro quale istanza per antonomasia dell'argomentazione vallíana - è la seguente: l'assunzione non grammaticale di ens, participio dal verbo esse, come sostantivo e quindi come entítas, prima, e poi come substantía delle singole realtà e dell'universale fenomenico, ínficia le fondamenta stesse del linguaggio e della speculazione dell'ontologia metafisica. La critica grammaticale della parola ens nel discorso filosofico della Scolastica approda necessariamente alla negazione stessa dell'ontologia metafisica: quella critica infatti dimostra come l'ontología metafisica è linguaggio senza senso e speculazione priva di fondamento (cfr. Lorenzo Valla, cit., pp. 153-162).

Si è voluto citare l'analisi grammaticale del trascendentale ens non solo come emblematica, ma anche e soprattuttuo come punto di partenza della critica antímetafisica del Valla. Con essa infatti l'Umanísta è poi condotto alla radicale negazione dell'ontologia aristotelico-scolastíca.

Dalla Patristica in poi, e però in modo specifico per la Scolastica classica, il linguaggio categoriale teologico, che è il linguaggio-base della scientia fidei (la theología propriamente detta), è dato dalle divínae litterae: queste sono le Scritture Sacre, secondo il canone biblico vetero e neotestamentario della Vulgata. t quindi su questo linguaggio-base che viene ad ergersi come suo proprio fondamento la sovrastruttura della speculazione teologica. Per la Scolastica classica, ed in particolare per quella di Tommaso, le premesse (maggiore e minore sillogistiche) dell'argomentazione teologica, i suoi princìpí primi e postulatí indimostrabili, erano pur sempre, né poteva essere altrimenti, gli enunziati (lingua/parola) del testo Vulgata. Alla teologia di Tommaso il Valla prestò sempre ed in modo costante massima attenzione, sì che possiamo senz'altro affermare: come il Valla ogni volta che si richiama alla «philosophia» intende di fatto la filosofia classica antica e quella scolastica, così quando si riferisce alla «theologia» intende sempre quella della Scolastica in genere e tomasiana in particolare.

In realtà, il Valla trasferisce la stessa metodologia d'analisi linguistica della filosofia aristotelico-scolastica al linguaggio-base della teologia scolastica e tomasiana: qui, la critica grammaticale (morfologica e semantica) è dislocata al linguaggio biblíco, lingua e parola del testo scritturístico e fondamento della speculazione teologica. Ma per tale dislocazíone si richiedeva un preliminare: collazionare il linguaggio traslato della Vulgata con quello originale del testo scritturístico - da Girolamo felicemente denominato «verítas hebraica» e «verítas graeca». E Valla, che non conosce l'ebraico e se ne rammarica, deve limitarsi alla «collatio noví testamenti». La collazione neotestamentaria comporterà la riduzione della lingua/parola traslata della Vulgata alla «veritas graeca»: soltano quest'ultima infatti è la «scrittura sacra», primaria e valida in assoluto, della «verità rivelata».

La grammatica della lingua/parola sacra - compiuta l'indagine previa del processo di traduzione - è messa in atto con lo studio analitico del rapporto storíco-semantico tra testo traslato e «verítas graeca». Verificare quindi il testo traslato della Vulgata (il fondamento scritturistico della teologia scolastica) sul testimone scritturistico originario della «veritas graeca», equivaleva per il Valla a sottoporre ad analisi critica grammaticale il linguaggio-base della speculazione teologica latina e occidentale.

Ad esempio. Qualora «poenitentia» della Vulgata sia intesa nel senso di pentimento (e penitenza), e su questa specifica semantica venga elaborata una teologia sacramentaria della Confessione quasi fosse "processo giuridico" - com'è appunto quella della Scolastica da Pietro Lombardo in poi -, si compie una speculazione teologica senza fondamento scritturístíco. La versione «poenitentia» della Vulgata neotestamentaria è da ricondurre alla «metánoia» della «veritas graeca» che ha il senso di conversione. Nella lingua greca infatti, ed in particolare nella Koiné biblica, «metánoia» vuol dire «mentis emendatio» - mentre «poenitentia» significa propriamente «tristitia commissi». Risolvere quindi l'enunziato neotestamentario circa la «poenitentia» in una prassi sacramentaria della Confessione che comporti la contrítío (interiore e morale), la confessìo (auricolare e comunitaria) e la satisfactío (privata e pubblica) quasi fossero tre momenti costitutívi di un processo giuridico, è fondare la speculazione teologica sul fraintendimento linguistico-semantico della Scrittura. In tal modo la teologia sacramentaria scolastica della Confessione è messa in crisi dal Valla alle sue radici: i principi primi della riflessione teologica infatti, come si è detto, sono e possono essere soltanto gli enunziati scrítturístici dell'Evangelo, intesi nel loro sensus lítteralis. Così scrive il Valla nell'esegesi di Paolo 2 Cor. 7. 10, ove l'Umanísta critica l'interpretazione, testualmente citata, di Tommaso nel proprio commento della pericope paolina (cfr. Lorenzo Valla, cit., p. 442). Ma la divergenza «poenitentia/metánoia» (e conseguente critica della teologia sacramentaria della Confessione) non saranno oggetto della prima delle 95 Tesi che nell'ottobre 1517 dettero l'abbrívio all'azione riformatrice di Lutero? Questi avrebbe potuto leggere il brano valliano nella stampa edita da Erasmo, nel 1505, delle Adnotationes in Novum Testamentum dell'umanísta romano.

La critica valliana alla tradizione filosofica e teologica sembra quasi falsificazione sistematica del linguaggio-base sia del pensiero logico-metafisico sia della riflessione scritturistico-teologica della Scolastica. Lo strumento della critica valliana non è analitico-concettuale, come poteva essere ad esempio quello occamista, ma unicamente e propriamente linguistico-semantico.

Tale strumento critico, però, occorreva strutturarlo di una concezione del linguaggio nella quale fosse radicalmente riconsiderato il rapporto di lingua, parola e realtà. Una concezione del linguaggio, che il Valla rielabora rifacendosi alla tradizione sofistica della retorica e, in modo diretto, alla Institutío oratoría di Quintíliano. è questo il momento positivo della riflessione valliana, conseguente al momento negativo della sua critica nei confronti della «philosophia» e della «theologia» della Scolastica.

Riconsiderare dai fondamenti il rapporto di lingua, parola e realtà, comportava dunque una riflessione sulla natura stessa del linguaggio. Nella nuova cultura umanistica (da Petrarca in poi), senz'altro differenziata quale riproposta specifica del linguaggio in sé e per sé come problema centrale in assoluto (sia in teoria che nella prassi di critica letteraria), il Valla venne indubbiamente ad assumere posizione preminente. Egli raggiunse questa posizione in base alla sua costante ricerca, e conseguenti risultati, circa la natura del linguaggio nella duplice dimensione di diacronia e sincronía.

Valla infatti, una volta assurto a coscienza critica di quella ríproposta teorica sul linguaggio, mise in atto un'analisi morfologica e semantíca il cui approdo doveva essere di necessità una radicale de-ontologizzazione del linguaggio. Nell'usus di lingua, parola e referente, conclude il Valla, verba et res non rimandano in alcun modo ad ulteriore (presunta come sottesa) dimensione ontica del linguaggio. Di conseguenza, verba et res non possono essere accettate in alcun modo in senso metafisico senza pervertire il «sermo communis» - come di fatto è stato perpetrato dalla «depravatrix nativarum significationum peripatetica natio». Questo è l'approdo ultimo della messa in atto di quell'analisi valliana che attraversa l'intera opera sua sulla natura del linguaggio. In tal modo egli potrà definire il linguaggio semplicemente come «sermo communis», fondato su quel «hominum usus qui verborum est auctor».

La soluzione valliana circa la natura e i fondamenti del linguaggio prende l'abbrivio da una pagina della Instítutio oratoria 6.1-3; pagina che, come ho ípotízzato sin dai miei primi scritti, credo si debba collocare alle origini di quello che ho chiamato il quintilianesimo radicale del Valla.

Il brano di Quintilíano inizia con l'affermazione seguente: «Sermo constat ratione vel vetustate, auctorítate, consuetudine». E dopo aver dato il significato di «ratio», di «vetustas» e di «auctoritas», conclude:

«Consuetudo vero certissima loquendi magistra, utendumque plane sermone ut nummo, cui publica forma est».

Per Quintiliano le basi costitutíve del linguaggio sono quattro: la ratio, la vetustas, l'auctoritas, la consuetudo. L'enumerazione delle basi costítutive del linguaggio è data in successione ascendente: secondo il valore d'importanza che esse assumono quali fondamenta del linguaggio. Nelle brevissime definizioni (descrittive) che vengono date di ciascuna qui e immediatamente, soltanto la «consuetudo» è detta «certissíma loquendi magistra». La «consuetudo», in altri termini, è il fondamento ultimo del linguaggio sia dal punto di vista storico («historice») che dal punto di vista formale («methodice», cfr. ivi I, 9). Essa è la fonte primaria della consistenza e validità degli altri (tre) criteri normativi del linguaggio: «ratio», «vetustas» e «auctoritas».

Con questa concezione del linguaggio in generale, direttamente desunta dalla pagina indicata della Instítutío e poi via via profondamente rielaborata, il Valla mette in atto nelle Elegantiae la sua analisi linguistíco-semantica della lingua latina, colta in tutta l'ampiezza diacronica e síncronica di quel sermo romanus che per l'Umanista assurge a magnum sacramentum. Le Elegantiae línguae latinae sono di conseguenza opera preminente e costitutiva dell'umanesimo filologico del Valla; ogni altra ricerca e scrittura dell'Umanísta dev'essere ricondotta a quest'opera. Nel proemium primum, posto come premessa d'intenti formali e materiali dell'intera opera, il Valla ha dato in modo quanto mai incisivo le coordinate ed il senso globale delle Elegantiae: questo risulta ormai con evidenza meridiana dalla lettura critica ed interpretatíva, senz'altro definitiva, di M. Regoliosi, Nel cantiere del Valla: elaborazione e montaggio delle Elegantiae, Roma 1993.

Il Valla mette in atto le sue analisi filologiche concentrandosi sulla lingua latina, appunto perché - come egli stesso afferma più volte - il sermo romanus è da ritenersi linguaggio storico (non disgiunto dalla lingua greca) alle origini e fondamento della cultura occidentale. Ma ciò non porta il Valla - ed anche questo viene affermato più volte, pur in contesti diversi - a ritenere la lingua latina come egemonica in assoluto, né tanto meno come «ímperium romanum» su altre lingue e culture. Al contrario, egli considera la molteplicità storica di lingue e culture come contesto privilegiato della lingua latina. Di qui la sua costante problematica del rapporto lingua greca/lingua latina, la sua prassi e teorizzazione della traduzione in generale, e quella dalla lingua greca alla latina in particolare.

Il problema del rapporto lingua greca/lingua latina - topos linguístico e culturale nella tradizione romana ed ellenistica da Catone Censore in poi - il Valla lo desume direttamente dalla Institutio di Quintíliano (cfr. Lorenzo Valla, cit., cap. 11: «Língua greca e lingua latina», pp. 173ss). La messa in atto della sua analisi linguistica e semantica si svolge lungo le correlazioni tra le due lingue e i testi letterari corrispondenti. Di qui le motivazioni originarie (prima ancora di quelle filosofiche e/o teologiche) sia delle molte traduzioni (come di Omero, Demostene, Tucidide, ed altri) sia delle «collationes» neotestamentarie tra Vulgata e «veritas graeca», sia infine del confronto tra teologia trinitaria latina e greca, patrística e bizantina.

La ricerca linguistico-semantica sul testo neotestamentario è per il Valla luogo particolare di raffronto tra le due lingue dal punto di vista storico: si trattava, infatti, da un lato del latino ecclesiastico della Vetus Itala prima, e della Vulgata poi, e dall'altro del greco della Koiné. E testo neotestamentario inoltre assurge a luogo privilegiato di quella medesima ricerca dal punto di vista cristiano, in quanto si trattava di Scrittura della Rivelazione e il testo bilingue era sempre stato, sia per l'Occidente latino che per l'Oriente greco, alla base del linguaggio liturgico, dogmatico e teologíco, oltre che ecclesiale e pastorale.

Di qui la Collatio e le Adnotationes alla Scrittura neotestamentaria di cui più sopra si è detto. Ma di qui anche la trattazione della questione trinitaría (in concomitanza del Concilio Fiorentino, 1438/39) nelle varie redazioni (in specie la prima) della Repastinatio.

La controversia sul Filioque tra Chiesa Latina e Chiesa Greca offriva al Valla un luogo eccezionale ove mettere a confronto una duplice riflessione, teologica prima e poi dogmatica, sul Mistero centrale della fede cristiana. Una duplice riflessione, la cui diversità era stata teorizzata e sempre dibattuta (sin da Agostino e Girolamo in Occidente) proprio in forza delle differenze linguistico-semantiche tra lingua latina e lingua greca. Il Valla va oltre la tradizione patrística di Agostino e Girolamo in quanto si porta decisamente al livello metalinguistico. Egli affronta il problema, antico quanto la cristianità stessa, di come poter parlare del Mistero trinitario, di come poter dire e formulare in termini dogmatici quel Mistero. Una problematica, del resto, che riguardava ogni altra verità della Rívelazione nella transizione da una lingua (la greca, quella originaria nella fattispecie) ad un'altra come quella latina (contemponarea alla Koíné). Il Valla sostiene che, nella transizione da una lingua all'altra, sono propriamente le strutture linguistico-semantiche quelle che determinano le variazioni e le specificità della speculazione teologica e formulazione dogmatica: così come aveva ritenuto per le strutture linguistiche all'origine della diversità e molteplicità dei sistemi di pensiero, nefl'ambito sia filosofico che culturale in genere.

è in forza di tale assunto che il Valla percepisce il senso autentico del dibattito al Concilio di Firenze, così che egli con intuito di fondo approda alle ragioni ultime della Laetentur coeli - il decreto conclusivo emanato dal Concilio - ove si affermava quanto segue. Le due formulazioni dogmatiche (greca e latina) delle processioni trinitarie, pur differenziate per lingua e concezione, erano al medesimo tempo reciprocamente compossibili, anzi complementari, in rapporto ad una stessa verità di fede. Nessuno scisma di fede quindi tra Chiesa Greca e Chiesa Latina sul mistero trinitario, ma complementaríetà di convergenza nella fede pur nella diversità di formulazione dogmatica. Ciò che veniva ad essere - la Laetentur coeli del Concilio fiorentino - un caso assolutamente unico nella storia della cristianità: diversità (díacronica) di formulazione dogmatica e identità (sincronica) di senso del mistero, complementaríetà e apporto d'approfondimennto circa una stessa verità di fede nella transizione da una lingua ad un'altra. Si veda, ora, su questo aspetto della trattazione valliana, il saggio di Ch. Trinkaus, Lorenzo Valla on the Problem of Speaking about the Trinity, «Journal of the History of Ideas», LVII, 1996, pp. 27-53.

In questo medesimo ambito di riflessioni metalinguistiche occore collocare la concezione vallíana della translatio.

La concezione della traduzione alla quale il Valla perviene deriva dalla símdítudine sermo/nummus, proposta da Quíntíliano nella sua definizione della «consuetudo loquendi». Il passaggio valliano dalla similitudine quintilianea alla propria concezione della traduzione avviene mediante un procedimento d'analogía, o meglio (in termini retorici) mediante un processo di «comparatio». Vale a dire: come il «sermo communis» è paragonabile al «nummus, cui publica forma est», così la traduzione o «translatío sermonum» èassimflabile allo scambio di merci: «mercatura rerum». La transizione, in altri termini, da una lingua ad un'altra (orale o scritta), la comunicazione tra lingue e culture diverse, l'interscambio di prodotti letterari attraverso la «translatio» da una versione linguistica ad un'altra: sono, queste, operazioni tutte assimilabili agli «scambi mercantili». Essi infatti hanno sempre informato di sé, ed anzi creato in prima istanza, i rapporti multiformi tra città, nazioni e popoli diversi per lingua e cultura. Questa concezione della traduzione viene proposta dal Valla particolarmente nelle pagine introduttive alla traduzione latina delle Historiae di Tucidíde. Ma già altrove era stata accennata. Rimando al mio più recente scritto sull'argomento: lnstitutio oratoria, lib. I, cap. 6, 3 e le variazioní su tema di Lorenzo Valla: «sermo» e «interpretatio», «Rhetoríca. A Journal of the History of Rhetoric», XIII, 1995, pp. 285-300.

Con le Elegantiae ed il resto della sua opera il Valla pervase la cultura umanistica dell'Europa. Questa risonanza della sua riflessione linguistica e metalinguistica, purtroppo sfuggita alla storiografia moderna sul Valla sino alle prime decadi dell'ultimo dopoguerra, si riscontra in molti scrittori del '400 e del '500. Qui mi limito a riportare un brano dalla Dedicatoria del Cortegíano (1528). Scrive Castiglione a proposito della Iingua":

«[...] perché la forza e vera regula del parlar bene consiste più nell'uso che in altro e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. [...] Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d'oggidì; perché il commerzío tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall'una all'altra, quasi come mercanzie, così ancor nuovi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobatí: [...] dei vocabuli che [...] parlando s'usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli che hanno in sé grazia ed eleganzia nella pronunzia e son tenuti comunemente per boní e significativi [...]».