Il Liber dierum lucensium mette a nudo la crisi contemporanea dell'ordinamento religioso monastico, ed in particolare nella sua forma mendicante. Mentre la polemica antimonastica, prevalente tra gli umanisti, era quasi sempre motivata da intenti morali - talvolta condotta anzi su toni piuttosto moralistici: la grande "Ipocrisia" fratesca! -, la presa di coscienza del Caroli e la sua riflessione critica si collocano su altri livelli.
La sua analisi è tutta centrata sulla perdita di funzione storica della Comunità mendicante, con il trapasso dalla società comunale fiorentina a quella della città-stato, ora in pieno sviluppo. La riflessione e l'autocritica del Domenicano sull'ordinamento mendicante è quindi di carattere decisamente storico: l'istituzione religiosa sorta nel secolo XIII è ora in pieno decadimento poiché, come può avverarsi per qualsiasi altra istituzione, essa sembra aver perso, per l'avvento della società rinascimentale, mansione e validità storiche sia nell'ambito civile che in quello ecclesiale.
Con questa presa di coscienza, al Carofi, di ritorno a Firenze dopo gli anni d'esilio e di nuovo reintegrato nella comunità di Santa Maria Novella, non restava che rivivere, nel presente, la storia del passato. E precisamente quella "mernoria" storica che, sottesa all'intero Liber dierum, era stata messa in evidenza con tratti incisivi nella "seconda giornata" del Dialogo. E cosi, agli inizi degli anni '70, allo scadere di appena un decennio dalla sua prima stesura il Liber dierum dell'esilio lucchese viene totalmente rielaborato nelle Vitae nonnullorum fratrum beate Marie Novelle.
In questa seconda opera, ben più consistente e voluminosa del Dialogo, l'antica Cronica fratrum del convento fiorentino assurge a fonte diretta e privilegiata del ripensamento storiografico del Caroli. Vi aveva già fatto riferimento nel Liber dierum "seconda giornata", ricordandone la serie ininterrotta degli obitus (ORLANDI, Necrologio di Santa Maria Novella, cit.; E. PANELLA, Un convento nella città, MD 11 (1980) 5-13; Cronica fratrum dei conventi domenicani umbro-toscani (secoli XIII-XV), AFP 68 (1998) 223-94).
Le Vitae fratrum sono una silloge di sette biografie di uomini illustri nella storia del convento fiorentino dalla sua fondazione, nella prima metà del '200, sino al primi decenni del '400. La serie biografica coincide con la successione cronologica delle vite dei singoli personaggi. Le prime due biografie concernono Giovanni da Salerno e Aldobrandino Cavalcanti, i "fondatori" di Santa Maria Novella, morti rispettivamente il primo nel 1242 e il secondo nel 1279. Seguono le vite di Simone Salterelli, vescovo di Pisa, e di Angelo Acciaioli, vescovo di Firenze, deceduti il primo nel 1342 e il secondo nel 1357. La quinta e la sesta delle biografie riguardano Alessio Strozzi, il "maestro di teologia" morto nel 1383, e Guido da Raggiolo, il "maestro di grammatica" morto nel 1394. La settima ed ultima è la vita di Giovanni Dominici (1355/6-1419). L'intera raccolta è preceduta da una epistola dedicatoria a Cristoforo Landino; le singole biografie sono introdotte da prefazioni, alcune di dedica ad umanisti fiorentini amici o familiari del Caroli: Giorgio Antonio Vespucci, Donato Acciaioli, Roberto Buoninsegni e Francesco dei Berlinghieri. Infine, un'ampia laudatio domus di Santa Maria Novella - nelle cui pagine conclusive si parla della Congiura dei Pazzi - è premessa che introduce all'intera raccolta delle Vitae. La laudatio domus si apre con il medesimo verso virgiliano che ricorre nella visione onirica, ma questa volta riportato senza mutamenti di senso, nel testo originario: "O fortunati, quorum iam menia surgunt, / Eneas ait, ci fastigia suspicit urbis" (VIRGILIO, Eneide 1.437-38). Siamo agli inizi storici della costruenda comunità di Santa Maria Novella, di cui nel sogno era apparsa la caduta rovinosa, il suo crollo finale al termine della durata plurisecolare.
L'intera composizione dell'opera, sia per prove interne che esterne, occorre collocarla entro il quinquennio 1474/75-1480/81 (G. Caroli (1981), cit., pp. 161-78).
Questa, in breve, la struttura redazionale e la composizione generale dell'opera del Caroli. Già da queste sommarle indicazioni, è facilmente intuibile che le Vitae fratrum costituiscono nel loro insieme una storia di Santa Maria Novella dal XIII al XV secolo. Ciò appare evidente qualora si osservino i tratti seguenti, che sottendono alla composizione dell'opera: le interconnessioni dei periodi nel quali i sette domenicani operarono nella vita religiosa, civile e culturale di Firenze; la descrizione del complesso monumentale di Santa Maria Novella, cui via via i medesimi frati dettero contributi determinanti, patrocinandone lo sviluppo architettonico.
Per meglio comprendere il senso della raccolta biografica del Caroli occorre aggiungere - e in termini forse più adeguati alla dimensione storiografica dell'opera - che le Vitae fratrum costituiscono una vera e propria storia della Firenze comunale, ripercorsa e narrata dall'interno della tradizione o "memoria storica" della comunità mendicante di Santa Maria Novella. Ed è in quest'ottica del passato, via via assunto come età mitica delle origini e delle forme autentiche, che il Caroli elabora le proprie riflessioni sulla crisi, nel presente, della vita monastica e della vita civile della Firenze di fine '400. Quest'ultimo aspetto delle Vitae fratrum acquista rilievo nettissimo nelle pagine introduttive e/o dedicatorie dell'opera: l'epistola al Landino, la laudatio domus, e soprattutto le praefationes alle singole biografie (ed. in G. Caroli (1981), cit., pp. 236-67).
Tra la Firenze contemporanea della seconda metà del '400 e quella comunale, esiste per il Caroli una profonda diversità culturale, civile e politica. La vita civile e religiosa del presente è come l'esatto rovescio del passato. Le singole narrazioni biografiche sono sottese da questo confronto, tra la realtà della Firenze medicca e di quella del passato comunale: un passato irrecuperabile ormai, ma appunto per questo altrettanto mitizzato dal Caroli. La frattura storica del presente con il passato è collocata tra la fine del '300 e gli inizi del '400: precisamente, con l'avvento della Peste-Nera. La devastazione mortale che la grande epidemia getta sulle citta medievali della seconda metà del secolo XIV è anche la morte di un periodo storico. In termini quanto mai incisivi e pregnanti, il Caroli specifica: con la Peste Nera si ha quella universale "dissolutio morum et religionum" che provoca l'implosione di un'epoca intera - per noi, l'età medievale -, tutta intenta a "erigere domus et componere mores" (G. Caroli (1981), cit., pp. 191-97).
Quali sono le ragioni addotte dal Caroli di questo declino, che per noi è la fine del Medio Evo? Le motivazioni del Caroli vanno dalla destinazione alla morte intrinseca ad ogni realtà naturale e alla storia umana (secondo la concezione "provvidenziale" di Agostino), allo scisma ecclesiale verificatosi ai vertici della gerarchia, scisma trasversale, nella visione del Caroli, di tutta la Cristianità occidentale ed incrinatura profonda dell'intero assetto ecclesiastico. Ma è soprattutto la devastazione demografica della Peste nel 1348 ed i consistenti ritorni dell'epidemia nel 1363, nel '74, ed ultimo nel 1400 (altrettanto diffuso e disastroso come il primo del '48), ad essere ritenuta dal Caroli causa principale e determinante della fine storica di un'epoca. L'alto indice di mortalità viene a rompere irrimediabilmente la normale successione generazionale, e di conseguenza la continuità culturale e spirituale della società civile e religiosa. E come l'interruzione generazionele, violenta ed imprevista, poneva in crisi la sopravvivenza fisica della vita conventuale e di quella, ben più ampia, cittadina, così la rottura nella trasmissione dei contenuti proprii delle rispettive tradizioni portava alla perdita d'identità di una civiltà e di un'epoca: quella "medievale".
Il Caroli proietta così sulla memoria storica del passato la sua esperienza di morte nel presente: esperienza emersa dalla crisi personale e di quella collettiva. Di qui la ripresa con le Vitae fratrum della medesima concezione della storia come processo ciclico ed organico di vita e di morte, cui era approdato il Liber dierum.
L'evolversi e il decadere di istituzioni anche secolari, così come il processo di eventi con incidenze storiche determinanti, sono sempre diacronizzati dal Caroli secondo le fasi alterne di un organismo. Gli estremi di minima e massima nella curva tracciata dal processo storico - e non soltanto di quello propriamente biografico - sono quasi sempre concepiti ed espressi dal Caroli in termini di nascita e di crescita, di vita e di morte. Oggetto e materia della narrazione storica non sono tanto l'insediamento, la formazione e il deperimento dell'istituzione quale complesso di strutture giuridiche e organizzative, quanto piuttosto l'avvento e l'operare in espansione dell'istituzione come comunità o gruppo sociale: il suo crescere a maturazione nel tempo, l'incrinarsi al culmine della sua grandezza, ed infine il suo frantumarsi in un crollo improvviso. La morte è presenza costante che attenta perennemente alla vita del singolo essere umano come dell'istituzione collettiva, civile o religiosa.
Questa concezione del processo storico come "caduta organica perenne", come continua presenza di morte risolutiva in ultima istanza dell'antutorina "grandezza / declino" sottesa al processi umani, costituisce indubbianiente uno dei nuclei storiografici più significativi del Caroli, dal Liber dierum alle Vitae fratrum:
Equidem ita se habet rerum ipsa natura, ut quicquid oritur occidat nihilque sub sole perpetuum vel sub lune globo eternum. Proinde equa pene conditio est et ineuntis etatis et in senectutem vergentis ut morbis plurimis sint referte, quasi iam in finem suum metipse asciscant; solum id interest: quod infantiles ad purgationem morbi, seniles autem tendunt ad mortem, nature virtute, que in infantibus augescit, in senibus decrescente (G. Caroli (1981), cit., p. 193).
In virtù della stessa composizione e successione generazionale dei suoi membri, la comunità di Santa Maria Novella svolge un ruolo singolare lungo le coordinate politiche e sociali di una città comunale di prestigio e grandezza eccezionali come Firenze. L'individuazione di alcune personalità di rilievo nella storia della comunità domenicana fiorentina assume particolare importanza. Di qui la scelta di metodo e tessuto narrativi: l'evento-persona assurge a motivo dominante da un lato, e dall'altro l'antinomia "grandezza / declino" è riproposta attraverso un elaborato storiografico per riquadri biografici.
Il Caroli considera gli estremi del trapasso dalle origini alla decadenza via via lungo l'iter biografico del singolo personaggio, il quale a sua volta viene collocato entro l'arco temporale della Comunità conventuale dalla fondazione alla crisi istituzionale. In tal modo, la visione della "caduta organica della storia" determina in ultima istanza sia le motivazioni che hanno spinto il Caroli a scrivere le Vitae fratrum sia, anche, la metodologia narrativa come storia strutturalmente "biografica". Il Caroli ha posto quindi problematica storica e metodologia storiografica in funzione una dell'altra: in un rapporto di reciproca determinazione.
Le Vitae fratrum risultano, in ultima istanza, tentativo estremo di recupero e di ricostruzione sul piano storiografico del complesso culturale e architettonico plurisecolare che, per il Caroli, era il Convento di Santa Maria Novella. Recupero delle origini e ricostruzione del passato messi in atto quando il Caroli ha presa di coscienza e visione onirica di quel medesimo complesso come in pieno decadimento e ridotto ormai ad un insieme di ruderi. è lo stesso Caroli a formulare in modo esplicito le proprie motivazioni ed intendimenti del lavoro letterario intrapreso, sotteso per di più da tensione interiore, al limiti dell'insonnia, per l'intera stesura dell'opera, e dalla compulsione morale a mettere per iscritto gli eventi degni di memoria. Era necessario e perentorio rendere manifeste le gesta degli antichi membri della Comunità, scrive il Caroli:
ut domus nostra religioque Florentie nata sit; deinde, ut enutrita exereverit; postremo, ut labentibus annis pene ad occasum devenerit: sicque principio finis videbitur probe fuisse cominissus (G. Caroli (1981), cit., pp. 198-99).
Nella presentazione data sin qui del Liber dierum e delle Vitae fratrum, pur in forma abbreviata e per tratti essenziali, ho posto in risalto come i punti nevralgici dei due scritti siano riferimenti particolarmente significativi all'Eneide.
Il Caroli, cultore assiduo del poema virgiliano ed in rapporti strettissimi con l'amico e "maestro" suo coetaneo, Cristoforo Landino, assume l'Eneide quale campo etico-semantico ove collocare la crisi dell'ordinamento monastico-mendicante e la presa di coscienza di quella crisi.
Quella crisi, che è destinazione alla morte della propria identità come religioso donienicano di Santa Maria Novella, viene assunta entro il paradigma virgiliano del mito Enea: "mito tragico", per la perdita fatale della città-patria della stirpe troiana, e "mito di trasformazione" (in senso junghiano), per la ricerca eroica di nuovi lidi ove porre le fondamenta e ricostruire la città futura.
Il Caroli dà inizio alla riflessione sugli avvenimenti occorsi al primi anni '60 con il "prologo" al Liber dierum (Liber dierum lucensium, cod. cit., ff. 1r-4v). Due sono i temi di fondo: la "fuga dalla grande distruzione" della comunità fiorentina verso l'esilio lucchese, e 'l'angoscia mortale" per la mancanza di ogni speranza circa la salvezza dell'istituto monastico e la propria scelta di vita.
Qui il richiamo ad Eneide, lib. II, vs. 268~298, è diretto ed esplicito (Liber dierum lucensium, cod. cit., f. 1v). E drammaticamente motivato, in forza di similitudini contestuali a livello reale, e di analogie significative a livello letterario:
In somnis ecce ante oculos maestissimus Hector
visus adesse mihi largosque effundere fletus,
Eì mihi qualis erat, quantus mutatus ab illo
...
"Heu fuge, nate dea, teque his" ait "eripe flammis.
Hostis babet muros, ruit alto a culmine Troia.
...
Sacra suosque tibi commendat Troia penatis:
hos cape fatorum comites, his moenia quaere,
magna, pererrato statues quae denique ponto".
Enea racconta come gli fosse apparso in sogno Ettore a dirgli dell'imminente distruzione di Troia ad opera degli Achei, ed ammonirlo ad abbandonare la città per sfuggire all'eccidio. Enea dovrà trasmigrare verso lidi lontani, oltre i mari, e ricostruire una nuova patria per i troiani scampati insieme a lui e per i loro discendenti. Più oltre, sempre nel lib. Il del poema, vs. 773-780, la "infelix... umbra" di Creusa ripeterà ad Enea, ormai disfatto, il destino che lo attende, quasi nelle stesse parole di Ettore in sogno:
Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum.
La congiuntura che il Caroli attraversa sembra illuminarsi alla lettura virgiliana, sì che questi è portato a commentare:
Adeo illa priscorum patrum sanctimonia destituti concidere plerique, ut recte familie nostre ruinas eisdem versibus qui<bu>s poeta noster Troiana excidia in hectorea similitudine flebat, deplorare possimus (ibidem).
Il Caroli postilla al margine destro del manoscritto, esattamente all'altezza dei versi riportati: "metaphorice intelligenda sunt hic". E più altre, con la "terza parte" del Liber dierum, nella visione onirica della "grande distruzione" di Santa Maria Novella, al Caroli si presenteranno personaggi d'oltre-tomba a parlargli dei tempi passati e di possibile ripresa in futuro dell'istituto mendicante - a similitudine delle figure d'oltre-tomba apparse ad Enea con il vaticinio del destino che lo attende.
In realtà, nella scrittura del Caroli, e precisamente da questo momento del prologo al Liber dierum: - la fuga di Enea dalla città paterna la cui grandezza è ormai crollata con le sue mura; l'andare smarrito alla ricerca di nuovi lidi e nuove città; la discesa nell'Ade per conversare con gli antichi eroi e ricordarne le gesta che avevano reso illustre la patria ormai distrutta -; insomma, tutta la "metafora-Enea" viene ad assumere funzione interpretativa e forma letteraria. Il Caroli sembra come rivivere, sia a livello di presa di coscienza che di produzione letteraria, l'epos virgiliano, dando forma e significato alla propria esperienza di vita. Il mito-Enea - paradigma emerso dal profondo della propria riflessione sul poema virgiliano - viene assunto e messo in atto dal Caroli ai fini di comprendere nel modo più adeguato ed esprimere nella maniera più conforme la crisi storica ed esistenziale dell'ordinamento monastico-mendicante con l'avvento della civiltà rinascimentale.
La coscienza del declino dell'ordinamento monastico e mendicante e sua funzione storica, portano il Caroli a ripercorrere in retrospettiva la durata plurisecolare di quel complesso culturale e politico, religioso ed artistico, che era stata la comunità fiorentina del suo Ordine.
L'indagine storiografica messa in atto si svela al Caroli via via come cammino a ritroso che penetra nelle oscurità di tempi lontani ove risiedono, quasi prigioni nel carcere dell'oblio, i personaggi illustri del passato. Questi gli appaiono - è detto in una delle 'prefazioni' alle Vitae fratrum - come in attesa di essere liberati da quel carcere, e riportati alla luce (G. Caroli (1981), cit., p. 213). L'indagine biografica diventa così discesa nell'Ade: rivivere le gesta eroiche ed i personaggi storici di quelle gesta, attraverso la narrazione storiografica delle loro vite: "in has describendas vitas descendi---, scrive il Caroli in apertura delle Vitae fratrum (G. Caroli (1981), cit., pp. 177 e 190).
La metafora mitica dell'Enea virgiliano, assunta dal Caroli in funzione di presa di coscienza esistenziale e di produzione letteraria, raggiunge qui densità massima di significato. Il "descendi" del Caroli nella "scrittura" delle Vitae, ricalca, lungo il duplice livello esistenziale e letterario, il triste ed arduo "descensus Averni". Egli si assimila ad Enea:
ad genitorem imas Erebi descendit ad umbras (Eneide, VI. 126, 404).
Il Caroli assurge a piena coscienza del crepuscolo storico dell'ordinamento monastico e mendicante. Questa presa di coscienza riemerge prima in visione onirica e monologo drammatico nel Liber dierum, e poi diventa memoria storica e opera storiografica con le Vitae fratrum. Se il decadimento del presente ed il declino di un'epoca spingono il Caroli alla memoria storica, egli non può fare altrimenti che discorrere sul passato per redimere in qualche modo il presente. Così non sembrerà - egli scrive - che io abbia trascorso invano questi tempi di conflitti e decadimenti e senza operare, come in negligenza (G. Caroli (1981), cit., p. 191).
La destinazione alla morte della storia umana, la presa di coscienza di decadimenti, la memoria storica e riflessione storiografica, sono assunte e collocate dal Caroli, con la scrittura del Liber dierum e delle Vitae fratrum, lungo molteplici percorsi: rinascita del passato, quasi recupero delle origini sulle rovine del presente; ricerca di soluzioni che comportino trasformazioni possibili a livello personale e collettivo; infine, quale estremo tentativo per sopravvivere e, possibilmente, trasmutare la propria angoscia mortale - il "tedium vitae" del prologo al Liber dierum - in esistenza e scelta di vita.
In tutto questo il Caroli si dimostra discepolo del Landino, "suo maestro", come egli lo chiama nell'epistola dedicatoria delle Vitae fratrum. Come il Landino e secondo criteri interpretativi del Landino, il Caroli è cultore di Virgilio e lettore assiduo dell'Eneide. Il Caroli aveva appreso la lezione di lettura del poema virgiliano data dal Landino nel 1462: "Hoc in primis sibi proposuisset P. Vergilius, ut generi humano quam plurimum prodesse, eo potissimum consillo in uno Aenea absolutum omnino atque ex omni parte perfectum virum finxit atque expressit, ut omnes illum nobis tanquam unicum exemplar ad vitam degendam proponeremus" (CRISTOFORo LANDINO, Scritti critici e teorici, a cura di Roberto Cardini, vol. I, Roma 1974, pp. 215-16 "Proemio al commento virgiliano"; per la datazione: ibidem, p. 20 ss).
SALVATORE I. CAMPOREALE
Harvard University Center
Villa I Tatti, Firenze