Premessa

Il presente contributo riprende tematiche dell'indagine già ampiamente esposta nei saggi (con appendici di testi inediti): S.I. CAMPOREALE, Giovanni Caroli e le Vitae Fratrum ..., MD 12 (1981) 141-268; Giovanni Caroli. Dal Liber dierum alle Vitae fratrum, MD 16 (1985) 199-234; Giovanni Caroli, 1460~1480: Death, Memory, and Transformation... (1989); Humanism and the Religious... ( 1990). Citeremo da ora in poi i primi due saggi come: G. Caroli (1981) e G. Caroli (1985).

Fondamentale per lo studio della vita e delle opere (edite e inedite) del Caroli rimane a tutt'oggi: S. ORLANDI, Necrologio di Santa Maria Novella  (L.S. Olschki: Firenze 1955) vol. I,  203-205, vol. II, 353-80. Si aggiungano: G. POMARO, Censimento dei Manoscritti della Biblioteca di S. M. Novella. Parte L Origini e Trecento, MD 1 (1980) pp. 325-470; Parte II: sec. XV-XVI in., MD 13 (1982) pp. 203-353; A.F. VERDE, Lo Studio Fiorentino: 1473-1503. Ricerche e Documenti, voi. IV (L.S. Olschki: Firenze 1985) pp. 1288-91, 1348-61; L. POLIZZOTTO, The Elect Nation: tbe Savonarolan Movement 1494-1545 (Clarendon Press:Oxford 1994); E. PANELLA, Libri di Ricordanze di Santa Maria Novella in Firenze (XIV-XV sec), MD 26 (1995) pp. 348-9.

Fra Giovanni di Carlo dei Berlinghieri, più noto come Giovanni Caroli, visse tra il 1429 ed il 1503. Fiorentino e domenicano di Santa Maria Novella, ebbe ruolo preminente nella vita conventuale e religiosa del suo Ordine. Partecipò attivamente come concittadino e scrittore alla vita intellettuale e politica degli umanisti fiorentini, suoi contemporanei.

La sua produzione letteraria, piuttosto complessa e a tutt'oggi per la maggior parte inedita, comprende tematiche politiche e civili, filosofiche e teologiche: una scrittura, in latino e in volgare, quasi sempre provocata da avvenimenti politici e culturali, e da congiunture sia civili che religiose. Gli stessi inizi della sua produzione letteraria sono determinati dalla consapevolezza della crisi che investe la propria vita monastica e mendicante. Ed è appunto da questa crisi, subìta in piena maturità, che provengono i primi scritti maggiori del Caroli: il Liber dierum lucensìum e le Vite nonnullorum fratrum beate Marie Novelle, redatti tra il 1460 il 1480.

Del Liber dierum lucensium si ha il ms della Biblioteca Nazionale di Firenze, proveniente dal Convento di Santa Maria Novella: Conv. Soppr. C.8.279, ff. 1r-56v. Delle Vite nonnullorum fratrum beate Marie Novelle si ha il ms della Biblioteca Laurenziana di Firenze: Plut. 89 inf. 21. Nel ms laurenziano mancano due delle sette biografie che compongono l'opera completa delle Vitae fratrum; e precisamente: Vita Angeli Acciaioli e Vita Johannis Dominici. Le due biografie mancanti nel ms laurenziano, si possono leggere nel Cod. Vat. Lat. 8808 del sec. XV (Vita Angeli Acciaioli) ff. 95ss, e nel Cod. Vat. Lat. 6329 del sec. XV (Vita Johannis Dominici) ff. 280ss. Sulla tradizione manoscritta e cronologia redazionale dei Liber dierum e delle Vitae fratrum, si vedano G. Caroli (1981), pp. 148ss, 161ss, e POMARO, Censimento II, pp. 239s, 307s, 309s.

Il primo, il Liber dierum lucensium, o "Scritto dei giorni di Lucca", è densamente autobiografico; il secondo, le Vitae fratrum, è un'ampia rielaborazione del primo, approdo ed epilogo della riflessione del Caroli sulla propria situazione di vita. L'uno e l'altro dei due scritti trattano di problematiche che investono sia l'ordinamento "religioso" dell'Ordine dei Frati Predicatori, cui il Caroli appartiene per scelta di vita, che la realtà stessa dell'istituto monastico-mendicante, presente e passato.

1. <Libertà obbedienza e tirannia nella vita religiosa>

Il Liber dierum lucensìum, la cui concezione e stesura coprono il biennio 1461/2, è scritto dal Caroli nel convento di San Romano a Lucca. L'opera è redatta sotto forma di dramma in tre atti, con unità di tempo (tre giornate consecutive) ed unità di luogo (il convento di San Romano). Le tre parti che lo compongono hanno forma dialogica; ed i personaggi in dialogo, tutti di "religione" mendicante, rappresentano le diverse posizioni assunte nei confronti della crisi contemporanea dell'istituto monastico. In realtà, sono le voci contrastanti del Caroli medesimo, in un monologo traumatico con se stesso. Il tutto è introdotto da un prologo nel quale viene come dispiegata in ampiezza e profondità, quasi scenario del dramma, la congiuntura della crisi e la correlativa presa di coscienza.

Nell'aprile 1460, tra la comunità di Santa Maria Novella, di cui il Caroli è priore, e Marziale Auribelli, superiore generale dell'Ordine, emergono dissensi e conflitti circa l'azione di riforma monastica e mendicante. Il contrasto tra la comunità fiorentina e l'autorità superiore dell'Ordine non è altro che un caso particolare di quello più generale circa le divergenti e talvolta contrapposte attitudini nel mettere in atto quella "riforrna" che, iniziata dal Dominici ai primi del '400, sarà determinante per lo sviluppo degli ordini mendicanti in Italia (ed in Europa) durante il secolo XV.

Le divergenti attitudini circa il rinnovamento mendicante vengono ora ad incarnarsi nell'Auribelli e la sua curia generalizia da un lato, e nel Caroli, priore conventuale, e comunità fiorentina dall'altro. Il Caroli e la sua comunità reclamano un'opera di riforma che rispetti l'autonomia giuridica e la specifica tradizione conventuali; l'Auribelli intende invece operare in forza della propria giurisdizione di superiore generale, e quindi secondo criteri alieni a quella specifica tradizione conventuale. Pertanto, nonostante l'appoggio e gli interventi della Signoria, all'unisono con gl'intenti del convento fiorentino, il Caroli è deposto dal priorato ed esiliato a Lucca nel settembre 1460. Ma l'opposizione della comunità fiorentina è tale che l'Auribelli è portato al fallimento totale della sua azione di riforma, con la deposizione da superiore generale dello stesso Auribelli per volere di Pio II. La deposizione da Maestro Generale dell'Ordine è "confermata", sotto la pressione papale, dal Capitolo Generale dei domenicani convenuto a Siena il 15 agosto 1462, e cioè circa due anni dopo l'inizio dell'esilio lucchese del Caroli, come questi annota con puntiglio in margine al prologo dei Liber dierum. Da alcuni storici si è ritenuto che l'intervento di Pio Il nel confronti dell'avignonese Auribelli ~ intervento, occorre sottolineare, senza precendenti nella storia dell'Ordine domenicano - fosse conseguente alla politica antifrancese del Piccolomini. Certo è che, alla morte del Piccolomini, il medesimo organo supremo dell'Ordine rieleggerà l'Auribelli a Maestro Generale, motivando la rielezione dell'Avignonese con lettera enciclica di protesta contro le ingerenze papali (G. Caroli (1985), passim).

Nel trascorrere "dei giorni di Lucca" il Caroli rifletterà a lungo su questi avvenimenti. L'effettiva congiuntura e le implicazioni di quegli avvenimenti, a livello sia istituzionale che morale, acquisteranno il senso di un dramma personale: di conflitto tra esistenza e scelta di vita. Per mettere in atto la riforma egli, il Caroli, ha dovuto opporsi con la sua comunità al superiore maggiore dell'Ordine, come alcuni decenni più tardi faranno Savonarola e il convento di San Marco. Il Caroli ha creduto doveroso venire meno all'obbedienza monastica nei confronti dell'autorità costituita. In tal senso, per salvare l'istituto mendicante, egli ha dovuto operare in piena disobbedienza monastica, come avrebbe dovuto chiunque si fosse trovato nella medesima situazione, è detto in modo esplicito nel Liber dierum. L'Auribelli era il "tyrannus", cui occorreva senz'altro ribellarsi per difendere la libertas conventus.

Il raffronto tra libertas e conventus elaborato nel prologo al Liber dierum, portava il Caroli a considerare l'antinomia obbedienza/disobbedienza, in cui egli era incorso, quale contraddizione massima della vita religiosa conventuale. Quella contraddizione, infatti, intaccava le radici stesse dell'ordinamento monastico e mendicante, concepito sempre e storicamente vissuto sul fondamento del voto di "obbedienza». Quel medesimo ordinamento monastico e mendicante sembrava ora potersi salvare soltanto mediante la rimozione di quel fondamento: opponendo, cioè, "disobbedienza" ad "obbedienza". Ma ciò comportava la crisi più profonda e la trasformazione più radicale, nel senso che l'istituzione monastica e mendicante approdava di fatto alla totale negazione di se stessa, venendo meno la sua stessa ragion d'essere, passata e presente.

L'intera questione è ampiamente discussa nella "prima giornata" del Liber dierum da un Francescano e un Agostimano, ospiti, per l'occasione, della comunità di San Romano, e qui assunti a dramatis personae.

L' "obbedienza eroica", sostenuta dal Francescano come il fondamento evangelico dell'ordinamento monastico, viene rovesciata dall'Agostimano in "disobbedienza" altrettanto "eroica" ed "evangelica", quale testimonianza della libertà cristiana. La testimonianza della libertà cristiana in determinate congiunture storiche, argomenta l'Agostinìano, s'impone al cristiano di fronte ai mutamenti più o meno profondi, sottesi ad ogni processo storico. Ed in tal senso, la trasformazione radicale di un qualsiasi ordinamento civile ed ecclesiale implica di necessità la messa in atto di rotture altrettanto radicali nei confronti di una particolare tradizione sia civile che ecclesiale. La storia umana infatti, così come i processi naturali, si snoda lungo il rapporto di "corruptio / generatio"; e come nell'ambito fisico ed organico ogni generazione comporta un'antecedente corruzione, così il processo storico risulta dall'annullamento, o meglio, dal superamento del passato. "Vetustas et mors", il declino e la morte, sono presupposti includibili di ogni rinascita, di una qualsiasi "renovatio".

Quest'alternarsi di vita e di morte nella riflessione sulle vicende umane, spinge il Caroli ad una tensione interiore. Di fronte alla realtà del presente, sentita nel profondo come presenza di morte, il Domenicano si rifugia nella "memoria" del passato. Di qui l'oggetto del dialogo tra sé e il suo confratello Giacomo di Pietro [OP 1448 ca., mgr 1468, † 1479; Cr SMN n° 692] - altra "persona" del Liber dierum, e, prima ancora, compartecipe dell'espulsione da Santa Maria Novella per l'esilio lucchese, insieme al Caroli. La tematica del dialogo di questa seconda giornata è la lunga serie degli obitus che compongono la Cronica fratrum di Santa Maria Novella. Alla riflessione del Caroli, la Cronica si dispiega come linea ininterrotta d'una storia plurisecolare: la storia di una comunità che dagli inizi del '200 si sviluppa come organismo pieno di vitalità ed operosità, giunge poi con i primi dei '400 all'apice della sua grandezza, ed infine, giunta a maturità, declina rapidamente verso la morte. Il Carolí cerca di individuare in quel processo le periodizzazioni storiche, e però con procedimento a ritroso: quasi volesse arrestare se stesso e la sua comunità sull'orlo del precipizio, d'impedirne il crollo finale gettando uno sguardo retrospettivo sul proprio passato:

cum superiorum virorum gloriam atque virtutem [... ] ad memoriam refero [... ] pudet me [... ] hoc tempore esse natum, quo video tantorum virorum labores atque sudores una etate ut in pelagi profundo demergi (Liber dierum, cod. cit. f. 39v).

Al termine di questa "seconda giornata", il Caroli si raccoglie nel silenzio della propria cella. Le sue riflessioni si prolungano in voci ed immagini che emergono dal profondo dell'anima: la presa di coscienza, di un passato ormai compiuto e del presente privo di speranza, si trasforma in angoscia.

Il Caroli si sente ormai pervaso da quel taedium vitae, che sin dalle prime righe del prologo egli aveva individuato come lo sfondo più vero della propria crisi mortale: "tedet itaque hominum, tedet et morum, et, si verum fateri velim, nonnunquam tedet et vite... " (Liber dierum, cod. cit. f. 1v). Ora, quell'angoscia che il Domenicano vorrebbe alleviare con il sonno, riemerge nei sogni.

La parte terza del Liber dierum, concepita "ad modum Sompnij Scipionis", è visione onirica che emerge dal profondo; è sguardo retrospettivo sul passato, e ad un tempo premonizione di eventi futuri: la distruzione del complesso architettonico di Santa Maria Novella e il dissolvimento della comunità fiorentina. Per il Caroli, la distruzione di quel complesso architettonico e il dissolvimento di quella comunità assurgono ad eventi emblematici della fine dell'Ordine domenicano e dell'intero ordinamento mendicante (G. Caroli (1985), cit., pp. 217-33).

Allo sguardo di fra Giovanni appare in sogno una vasta pianura che s'illumina di sinistro chiarore lunare, mentre scompaiono gli ultimi radenti raggi di sole. Lungo la costa della montagna che si erge nel mezzo della pianura, si stende l'ampio complesso architettonico del convento, raccolto intorno al tempio di Santa Maria Novella. Al chiarore lunare risaltano in luce ed ombre le linee architettoniche della multiforme costruzione. Mentre il frate contempla, affascinato, lo splendido scenario crepuscolare, una moltitudine ingente circonda e assale da ogni parte il complesso monumentale. Gli edifici, così armoniosamente disposti e congiunti, crollano gli uni dopo gli altri come smantellati pietra per pietra: altro non rimane che una vasta distesa di sassi e di muri cadenti, dispiegata sotto la volta del cielo. Il frate guarda ora, pervaso da profonda mestizia, la grande rovina di ciò che un tempo era stato un insigne monumento d'arte, eretto ed ingrandito lungo i secoli. Torna alla sua mente l'esclamazione di Enea alla vista della costruenda Cartagine, ma in termini e in senso rovesciati:

O infortunati, quorum iam menia ruunt (VIRGILIO, Eneide 1.437).

La visione onirica della «grande distruzione" rievoca presenze del passato, remoto e recente. Giovanni Dominici e Antonino Pierozzi - dal Caroli ritenuti "gli ultimi dei grandi" - appaiono nel sogno: e sono voci che del sogno ne interpretano il senso.

La storia delle istituzioni - parla così il Dominici - si dispiega tutta lungo le dimensioni del volere e della libertà degli esseri umani: è in quell'ambito che le istituzioni nascono e periscono, giungono a maturazione e decadono. Sì che la ciclicità della storia, nelle sue molteplici manifestazioni, è pur sempre organica all'avventura umana su questa terra. Se l'ordinamento religioso mendicante, e in particolare l'Ordine domenicano e la comunità fiorentina, sono in declino, ciò è dovuto alla scomparsa dello spirito che aveva animato un tempo i fondatori dell'istituto monastico. Come l'antico regno di Priamo - continua il Dominici -cadde in rovina perché abbandonato da Pallade, la dea della sapienza, così la comunità domenicana è ora in piena decadenza perché sono venuti a mancare lo studio e l'amore delle verità divine.

Il Caroli non poteva meglio attribuire siffatte considerazioni sul processo storico delle istituzioni che al Dominici: questi era stato tra i più attivi nella riforma religiosa-mendicante tra la fine del '300 e gli inizi del '400. L'autore del Liber dierum sembra cogliere tutta la presa di coscienza da cui era scaturita quell'azione di riforma, quando racchiude il discorso del Cardinale fiorentino nelle parole:

Et quis allud in rebus humanis umquam vidit, nisi finern et obliquitatem [... ]. Sic et regum et urbium et populoruin ac familiarum clara atque lata imperia incurvata ac tandem extincta. Nusquam stabilitas esse potest, nusquam firmitas, nusquam rectum sine obliquo vidisti. Ubi lune imperium, ibì mobilia et desinentia ornnia (G. Caroli (1985), cit., p. 224).

Il Pierozzi, l'altra presenza nel sogno, va al di là delle considerazioni sulla ciclicità storica delle istituzioni. Questi porta le sue riflessioni sulle prospettive di possibili trasformazioni negli ambiti culturale e soprattutto istituzionale.

Il disgregarsi e lo smantellamento del complesso architettonico di Santa Maria Novella, nella visione del Caroli, sono linguaggio onirico di discordia intestina e di sfaldamento collettivo; e si noti come quella distruzione gli appare mentre tramontano gli ultimi raggi di sole ed incombe il globo lunare, con i segni infausti di Marte e Saturno:

... solis [... ] fulgor [... ] subrubens et obliqus, ut cum ad occasum flectit exiles radios fundens; lunaris autern globus cum infestis orbium signis, que Saturni ac Martis dicimus, domui incumbebant (G. Caroli (1985), cit., p. 219).

Con similitudini e metafore correlate ai contenuti di quella visione, il Pierozzi discorre sulle possibilità di un recupero dello origini e sulla ripresa della carìtas, perché la Comunità religiosa riacquisti il calore e la luce solare dello spirito. Le linee architettoniche e l'armonia dell' "edificio spirituale" non potevano essere altrimenti riprese e ricostruite, ammonisce il Vescovo fiorentino, che sul fondamento delle "pietre vive", quali un tempo erano stati i personaggi più rappresentativi nella storia dell'istituto monastico. In questi termini, il Pierozzi manifesta istanze di riordinamenti istituzionali e prospettive alternative di vita spirituale e di ricerca culturale, più adeguate e corrispondenti alla contemporanea rinascita degli "studia humanitatis".

L'esplicito riferimento agli "studia humanitatis" ricorre qui per la seconda volta; il primo si legge in apertura (nel prologo) del Liber dierum. Nelle pagine che intercorrono tra la prima e la seconda affermazione circa gli "studia humanitatis", il Caroli elabora tutta la sua analisi del decadimento dell'ordinamento monastico e mendicante. Appare evidende che, per l'autore del Liber dierum, la crisi della Comunità fiorentina era approdo simultaneo sia della decadenza storica dei fondamenti istituzionali, da un lato, che, dall'altro, della frattura altrettanto storica tra gli studia divinitatis della tradizione domenicana e gli studia bumanitatis della cultura umanistica contemporanea.