pubblicazioni di Eugenio Marino OP

 

 

 

 

 

 

   

Eugenio Marino

La spiritualità nell'arte


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 LA SPIRITUALITÀ NELL’ARTE

 Controambiente della tradizionale arte del minio

e dell’arte contemporanea

nelle miniature di G. Guarducci

«Rivista di Ascetica e mistica» 31 (2006) 501-509.


          La mostra delle ‘miniature’ di Giuliana Guarducci – tenuta dal 20 aprile al 13 maggio 2006 nel Museo Nazionale di Palazzo Reale in Pisa - è da considerare un evento, che sveglia dal sonno i cultori odierni dell’arte.

                Il ‘miniare’, creduto fatto storico esaurito dopo l’invenzione della stampa e dell’incisione (metà Quattrocento-primo Cinquecento), riappare come un fiume carsico, e quale modo di intuire sentire ed esprimere che ha una propria ‘necessità’, immanente alla ‘curiositas’ creativa dell’artista contemporaneo di “mettere sub luce’ (direbbe L. B. Alberti), e quindi di far vedere e gustare con apparente paradosso la grandiosità del ‘macrocosmo’ fisico, storico e religioso nel ‘microcosmo’ miniaturale, contemplabile col semplice cadere del raggio visivo sulla superficie, che occupa ben  pochi centimetri di spazio.

            La opere ‘miniate’ della Guarducci rimandano dunque ad una consuetudine pittorica antica, che tuttavia nella Miniaturista fiorentina subisce una ‘modificazione’ che si pone quasi ‘contro-ambiente’ (per stare a un lemma chiave di McLuhan per descrivere la dinamica dei mutamenti storici) alla ‘tradizione’’ ed alla ‘contemporaneità’.

            La Guarducci, di fatti, non trasforma in immagini visive le immagini acustiche  (quelle espresse dal suono della ‘parola’ e del ‘sermo’) dei Libri, a cominciare dai lontani esemplari dei papiri egiziani, fino ai codici bizantini, islamici e degli ‘scriptores’ delle abbazie, delle corti e delle università europee, che hanno ‘alluminato’ il Libro per eccellenza (la Bibbia), e i fogli di cartapecora degli scritti della letteratura, della scienza, della filosofia, del culto e della teologia, vale a dire del ‘tesoro’ culturale dell’umanità, facendoli splendere e metaforicamente ridere per dirla con Dante, il quale, quando accenna il giudizio estetico sui miniatori del suo tempo (Oderisi da Gubbio e Franco da Bologna), afferma che “più ridono le carte / che pennelleggia Franco bolognese” (Purgatorio XI, 79-83).

            Le carte – meglio (nel nostro caso)  gli avori -, che la Guarducci, ‘pennelleggia’, sono in funzione della visione diretta della natura, così che la miniatura dell’Artista si connota ‘figliola della natura’ e non ‘nipote’ – si ricordi  il verso dantesco: “vostr’arte a Dio quasi è nepote” (Inferno XI, 107) -, come voleva Leonardo, critico quant’altri dei  pedissequi imitatori di Giotto, vale a dire degli imitatori delle “fatte pitture”, che non sapevano risalire come il loro Maestro alla diretta imitazione della madre-natura, “maestra dei maestri” (cfr. Leonardo da Vinci, Il Libro della pittura, a c. di A. M. Brizio,  UTET, Torino 1966, p. 239).

            Il ‘microcosmo’ delle miniature della Guarducci è ‘straniamento’ (nella forma) quasi ‘visio breviata’ del reale. La Pittrice, infatti, intende salvaguardare nella rappresentazione microcosmica la ‘‘per-fectio’ o ‘integritas’ (come teorizzato da Tommaso d’Aquino) o globalità del ‘tutto’ (come ricercato dalla cultura odierna), così che viene a crearsi la magia di fare intuire in una visione espressa in uno ‘spazio breve-micro’ una visione dello ‘immenso-macro cosmo’, Lorenzo Ghiberti spiegava la possibilità (e la validità) di tale ‘reductio’ nel concetto della ‘quantità’ divisibile all’infinito, così che “Tante parti sono in un granello di miglio quante ne sono nel diametro della terra” (L. Ghiberti, I Commentari, a c. di O. Molisani, R. Ricciardi ed., Napoli 1947,  Comm. III [11], p. 84).

            La miniaturista Giuliana ottiene tale risultato mediante una personale ‘ratio artis’ della prospettiva del primo Umanesimo.

            Nella composizione della ‘forma’ Guarducci sottende un dialogo con gli ‘inventori’ ed i primi protagonisti nell’applicazione della scienza della visione. Per gustare la ‘cosa messa in vista’ in lunghezza, altezza e profondità, e strutturate con misura geometricamente esatta, non occorre (come ‘trovato’ e praticato da Brunelleschi) guardare con un solo occhio e da un predeterminato punto di stazione, né basta costruire la prospettiva che fa tenere aperti tutti e due gli occhi in conformità al modo naturale di guardare (come osservava Ghiberti, criticando apertamente l’Architetto delle chiese fiorentine di San Lorenzo e di Santo Spirito), perché se è vero che “in due occhi si fanno due diversi giudizi” è altrettanto corretto che “la vera  comprensione è quella la quale è la verità della cosa visa in tutta l’amplitudine della distanza di tale quantità”.

            In realtà è sufficiente  mettere a fuoco lo spazio spartendolo con il raggio visivo (che è linea perpendicolare che cade dall’occhio sul piano di proiezione) in quattro angoli retti, che non si dilatano però in aree che vanno oltre ‘la vis videndi o perspicuità dello sguardo’, perché le ridotte dimensioni del supporto pittorico rendono possibile l’adeguata intuizione dell’angolo giro, in cui la composizione si distende nella direzione dei quattro punti cardinali, senza evanescenze di parti della forma-tutto / tutto-parti, e senza ‘modificare’ l’intuizione delle linee di terra e di quelle della superficie superiore nell’altalena del loro salire e scendere, a seconda del punto di vista ravvicinato o allontanato. In tal modo  lo spettatore “tutto scruta dal centro al centro”, cioè dell’“uno nei molti e dei molti nell’uno”, direbbe Pico della Mirandola (Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, Studio Tesi ed., Pordenone 1994, p. 21).

            Siffatta ‘ratio artis’ della Guarducci è la guida della visione nella ‘certezza del vedere’, sia degli schemi formali, quantitativi e qualitativi, sia dell’iconografia ed iconologia.

            Si osservi anzitutto  la ‘circoscrizione’, descritta da L. B. Alberti come ‘orlo’ delimitante la ‘cosa-res’, che occupa spazio, avvolgendola con il ‘segno’ della linea, di cui si può dividere la lunghezza ma non la larghezza (L. B. Alberti, De pictura, a c. di C. Grayson, Laterza ed., Roma-Bari, n. 2, p. 12). Ora, l’orlo (o limite, o contorno) delle miniature della Guarducci non appartiene alla superficie pittorica. La Miniatrice, infatti, ha circoscritto le sue opere con materiale ‘altro’ da quello che ride sull’avorio: un lucido filo di ottone (la c. d. ‘bastina’), privo di fregi ed ornamenti, con funzione di ausilio didattico per lo spettatore, affinché questi stia sicuro nella ‘bastìa’ strutturata intorno al raggio visivo-punto centrico della miniatura, forte di tanta potenzialità da far trascendere qualsiasi ‘confine’. Lo spazio pittorico, misurato con l’angolo giro (di cui s’è detto) fa vedere il dilatarsi dell’opera nelle direzioni della rosa dei venti ed è adeguato a far ‘com-prendere’ simultaneamente nelle parti il tutto. Si ricordi l’esperienza di Leopardi; la siepe, “…che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, non impedisce al poeta di fantasticare e di sprofondare negli “interminati / spazi al di là di quella” (cfr. L’infinito).

            La ‘composizione’ delle miniature della Guarducci è costruita così che il piano della proiezione appare trasparente a guisa di ‘vetro’ o di ‘finestra aperta’, che permette allo sguardo di ammirare una vasta superficie composita (sferica, concava, convessa, ecc.), che abbraccia cielo e terra, e di coniugare il gioco dei raggi visivi (estremi, medi e centrico) che, determinando le tre dimensioni dello spazio: altezza-larghezza-profondità, “al vedere fanno triangolo” e conformano la “piramide radiosa, puntualizzata da L. B. Alberti.

            Non basta però rimanere fermi ai soli segni formali. Questi non sono il ‘tutto’ di quanto noi intuiamo guardando una pittura. Essi non sono nella ‘volontà d’arte’ del creatore dell’opera soltanto ‘segni funzionali’ – chiamati da Panofsky preiconografici  –, ‘ministri’ (il lemma è di L. B. Alberti) o ‘modalità’ dello stile, che servono a farci “notare in che modo le cose si veggano” (L. B. Alberti, De pictura, a c. di C. Grayson, Laterza ed., Roma-Bari, n. 2, p. 12). Pertanto il ‘come’ del circoscrivere e del comporre è in relazione necessaria al ‘che cosa’, cioè al ‘soggetto’, che è di pertinenza della iconografia-, e del ‘contenuto’ studiato dall’iconologia, che coglie nell’opera pittorica il sentire e l’interpretare dell’artista, e giudica se ed in quale misura la sua cultura concorda o meno con il ‘vedere’ sensibile e concettuale dei propri contemporanei. Perciò “si può concludere” (alla maniera di Vasari) che i ‘segni’ lineari e qualitativi, vale a dire “esso disegno altro non sia che un’apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello che altri si è nella mente immaginato e fabbricato nell’idea” (cfr. G. Milanesi , a c., Le opere di Giorgio Vasari, Sansoni ed., Firenze 1973, vol. I, Introduzione, Della pittura, cap. I, p. 109).

            Ora la ‘cosa: res’ - monema caro sia ai metafisici medievali che ai retori umanisti -, posta dinanzi al nostro sguardo nelle miniature di G. Guarducci, è allo stesso tempo semplice ed arduo passare al vaglio.

            Certamente la Miniatrice si confronta con la ‘natura’, ma non per rimanere nella visione di un suo specifico stato (del minerale o della pianta o dell’animale o dell’uomo), quasi un assoluto. La Guarducci ‘mette-su’ e ci ‘pone-dinanzi’ una ‘natura naturans’ (per così dire), perché nei paesaggio che contempliamo tutto è vita, ed il ‘tutto’ è ‘visto’ come gradi dell’essere che fanno l’uomo-camaleonte,- “animale che piglia d’ogni a sé prossima cosa colore” -, perché in lui “il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita” (cfr. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, Ed. Studio Tesi, Pordenone 1994, p. 9).

            Di più. Guarducci “disputa” con la natura – come espressamente voleva Leonardo (cfr. Il Libro della pittura, cit., p. 238) -, la interpreta e la eleva metaforicamente e poeticamente a ‘simbolo’ dell’uomo, che Pico stimava ”legame di tutta la natura  e quasi connubio” (G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate, cit., p. 33).

            Senza dipingere alcuna figura umana nel vasto spazio delle miniature, Guarducci  ha posto il sigillo dell’uomo in ogni tratto della composizione; difatti, lo ha reso visibilmente presente nell’opera delle sue mani ‘intelligenti’, che hanno con ‘arte’ messo ordine e bellezza nella coltura dei campi o dei giardini o delle aiuole.

             Nei paesaggi la Guarducci fa risplendere il campo: “Il vigneto dietro i cipressi” e “Il campo di papaveri”; i sentieri: “Sentieri erbosi” e  “Fiori nel sentiero”; le piante: “I primi fiori gialli”, “Tulipani rossi” e “Il roveto”; i fiori: “Le stagioni di un fiore”, “Le cinque stelle”, “Dal boccio al seme” e “Fiore di prato”; gli alberi: “Alberi in collina”, “I tre amici”, “L’albero spezzato”, Presenza”, “Fuga du cipressi”, Intreccio” e “Il protagonista”. Inoltre, la Miniaturista ci fa trascorrere i giorni e le stagioni: “Mattinata”, “Inverno”,“Contrasto”, “Le quattro stagioni”, “Alberi in festa”, “L’attesa” e “L’autunno nel bosco”. E poi, quasi a render chiaro il refferente del tutto, fa intravedere nel verde della vegetazione “La Villa”, indorata dalla luce calda del sole, e “La casa [colonica] del Bianchi”, che sono le abitazioni di chi è padre, custode e fruitore della ‘bellezza’ dei campi, dei fiori, degli alberi (cf. il Catalogo: Le miniature di Giuliana Guarducci, Edizione ETS, Pisa 2006).

            Le miniature, dunque, ‘parlano di noi’: di quegli uomini che vivono (per dirla con una metafora platonico-pichiana) “negli orti di Giove”, perché in essi “sono piantate le Idee, non altrimenti che li arbori in un orto” (cf- G. Pico della Mirandola, Commento sopra una canzone d’amore, Novecento ed., Palermo 1994, lib. II, cap. 11, p. 48.). Dunque, gli uomini “si debbono coltivare come gli alberi quando sono teneri e dirizzare a produrre i frutti” (cf. Marsilio Ficino, Sopra lo amore, ES ed., Milano 1992, Oraz. VII, cap. 16, p. 158).

            Chi poi si lascia guidare dal ‘Cielo’ – che “non circoscritto e tutto circoscrive” (Paradiso XIV, 30) -, che Guarducci apre al nostro sguardo dirizzandolo con il punto di fuga verso l’orizzonte vicino-lontano (allo stesso tempo), e distende come un mantello splendido sul nostro capo (‘cima’ degli alberi) con “la luce onde s’infiora / vostra sostanza” (Paradiso XIV, 13), gusta lo ‘spettacolo’ che la Pittrice fa recitare in un solo accordo alla natura e agli alberi-uomini, che è spettacolo – proclamava Paul Cézanne -, che il Padre Onnipotente Eterno Dio diffonde davanti ai nostri occhi” (cf. citazione in L.Venturi, Come si comprende la pittura, Einaudi ed., Torino 1975, p. 135).

            Sffatta impressione estetico-iconologica del ‘Cielo’ trascende quella della circoscrizione e della composizione delle figure, perché in esso ammiriamo le ‘álterazioni’– la terminologia è ancora di L. B. Alberti -, provocate dalla luce, dal colore, dallo sfumato e dalle ombre, che qualificano il disegno limitativo e lo ‘ricamano’ con materia ottica variegata, trasformandolo in ‘visione radiosa’. Così la primigenia forma-luce’ del ‘Sole’ - che nelle  miniature non è mai visibile in se stesso -, quando invade e pervade l’atmosfera si moltiplica in ‘forme luminose’, che specificano il ‘paesaggio’ creato dalla Guarducci: il Cielo (orizzonte e volta) è soffuso di chiarore spessito,, e l’ambiente degli Alberi-uomini è reso variopinto (in senso letterale) da colori  camaleontici.

            Tra il lume ed il colore, vale a dire tra il ‘Cielo’ e gli ‘Alberi’, tra la bianchezza diffusa e chiara del primo e la viriditas dei secondi, si sviluppano relazioni, che  implicano l’uno nell’altro: il macrocosmo celeste si dischiude alla luce che proviene come da propria fonte dal ‘’corpo lucido’ (come lo chiama il Ghiberti) o ‘luminare maius’ del creato (come lo descrive la Bibbia), ed il microcosmo degli uomini  che hanno radici sulla Terrra e tuttavia  si ergono verso gli spazi infiniti che li circondano e sovrastano.

            In questo giuoco di ‘forme-luce’ e di ‘forme luminose-colorate’ colpisce la sensazione gentile della ‘forma verde’ – colore composto dal giallo (il ‘Sole’) e dall’azzurro (il ‘Cielo’) -, che simbolizza aspirazioni intime e profonde: quelle della speranza, perché “la speranza ha fior del verde” (Purgatorio III, \35), e quella della ‘verde giovinezza’; la quale, se è vero “che si fugge tuttavia”, non è altrettantp vero  (stando allo ‘spettacolo’ offerto dalla Miniaturista)  che “di doman non c’è certezza”, come cantava con profonda melanconia Lorenzo il Magnifico, perché la visione del ‘Cielo-Sole’, immaginato in pienezza di luce e come donatore di lume,  verso cui le verdi cime dgli alberi si levano come archi gotici, assicura che il ‘lume denso-lux nebulosa’ della Fede, che sostiene la speranza, diverrà ‘luce diafana-lux splendida’, disvelatrice del  Cielo nuovo e della Terra nuova (Apocalisse 21, 1).

            La ‘riuscita’ di siffatte ‘forme disegno-forme alteranti è l’apparizione-Erscheinung o aura (uso termini di W. Benjamin) della ‘Bellezza’, che Ficino chiamava  fior di bontà: “Le erbe e gli arbori per la interiore fecondità sono vestiti di fiori e di foglie. […] La perfezione di dentro produce la perfezione di fuori, e quella chiamiamo Bontà, questa Bellezza. […] Tanta differenza essere tra la Bontà e Bellezza quanta è tra il seme e i fiori […] Per gli allettamenti di questo fiore, quasi per una certa esca, la Bontà ch’è dentro nascosa, alletta i circumstanti” (cf. M. Ficino, Sopra lo amore, cit., Oraz. V, cap. 1, pp. 67-68).

            La ‘vista’ dunque delle miniature di G. Guarducci è elevata a ‘contemplazione’ feconda. Nel microcosmo degli ‘Alberi-uomini’ noi ammiriamo, ed ‘in una sola battuta di ciglia: uno ictu’, sia “l’arte di pensare nella bellezza: ars pulchre cogitandi” – come si esprimeva A. G. Baummgarten, che per primo propugnò l’attività autonoma dell’estetica (cf. L. Amoroso ( a cura), Immanuel Kant. Il battesimo dell’estetica, ETS ed., Pisa 1993, p. 42), sia (ed esplicito) l’arte di dipingere nella bellezza: ars pulchre pingend’, sia (ovviamente) l’arte di vedere nella bellezza: ars pulchre videndi.

            La Guarducci, insomma, espone ed interpreta un’esperienza del mondo: quella del ‘bello-che-chiama’ –  e’ bello’ in greco (‘kállos’) vuol dire ‘richiamo’ ed ‘invito a sé’ –, e che ‘ride’ nella natura, nell’animo dell’artista e nelle sue opere, e provoca coloro che hanno occhi e vedono: - “Beati gli ochi che vedono ciò che voi vedete” (Matteo 13, 16) - ad ascendere dallo ‘splendore’ del di qua alla ‘claritas’ dell’al di là.

             Un ‘mondo’ siffatto fu vagheggiato dagli artisti all’inizio della nuova età, quella dell’Umanesimo del XV secolo. Le miniature guarducciane me lo hanno suggerito, così che mi hanno indotto ad interpretarle con la scienza del De pictura di L. B. Alberti, e con la speculazione della Oratio de hominis dignitate di G. Pico della Mirandola e del De amore di Marsilio Ficino.

            Il mondo "umanistico,, però, non è nelle miniature della Guarducci citazione cólta delle ‘fatte pitture’ di un periodo storico glorioso, ma è un ‘contro-ambiente’ a correnti artistiche contemporanee, che assolutizzano la pittura dai segni astratti, ‘senza figura’ e ‘senza ‘contenuto’, e che mortificano le opere riportandole a sola tecnica o ‘artisticità’ indipendente dalla ‘intetntio auctoris’ e non curante della loro ‘bellezza’ (Eugenio Marino, O.P., Estetica, ermeneutica, critica d'arte ed iconografia-iconoteologia. Discorso dul metodo, Centro Riviste, Pistoia 2005, pp. 45-90). A questo cosmo, che a Wassily Kandisky appariva come un “incubo” – un ‘tremendum’, si potrebbe dire -, perché  mancante “di una fede, di uno scopo, di una meta” (cf. W. Kandisky, Lo spirituale nell’arte, SEI ed., Torino 1989, p. 17), Guarducci oppone-propone il ‘fascinans’ del ‘nascimento’ di un mondo bello e fiore di bontà come lo ammiriamo con stupore sull’orizzonte e nel cielo pieni di luce, prospettati nelle sue ‘miniature’.

 Eugenio Marino, OP