FRANCESCO FILOMUSI GUELFI Note per una ricerca biografica 2005 L'autrice ha tratto e riscritto per noi il saggio da: | |
Copyleft © Emilioweb maggio 2005 |
Francesco Maria Filomusi Guelfi, giurista abruzzese, nacque a Tocco Casauria, piccolo centro a pochi chilometri da Pescara, il 21 novembre 1842. Il padre Michele era della famiglia dei baroni Filomusi, originaria di Atri e tra le più in vista in tutto l'Abruzzo. Lo stesso Filomusi lo ricordava cone un "liberale del tipo antico" da cui ebbe una prima educazione nella quale si reflettevano le tradizioni del regno napoletano e le aperture ai nuovi orientamenti liberali dell'Italia risorgimentale.
Sua madre, Eufrosina Scamolla, apparteneva ad una di quelle famiglie tradizionaliste vicine ai Borboni. Gli Scamolla avevano unito al proprio casato quello dei Guelfi, antica e nobile famiglia toscana. L'energico temperamento della madre non fu di poco conto nell'impostare la vita e la crescita familiare: ella infatti ebbe su Francesco un forte ascendente, ma dimostrò per i suoi altri figli, Lorenzo e Gioele, lo stesso affetto austero e all'occorrenza indulgente. Seguì passo passo gli anni della loro infanzia, continuando poi ad essere per loro saldo riferimento durante tutta la sua lunga vita.
La sua famiglia, specialmente dal lato materno, contava giuristi e personalità di rilievo nelle magistrature civili e militari, a partire già dal secolo XVI. Anche a ciò si deve la sua singolare collocazione nella tradizione giuridica meridionale: “… fu l’ultimo degli enciclopedici del diritto del quale tutti noi coltiviamo e professiamo un singolo ramo…”(Salandra, p. 223) e ”… il primo dei civilisti sistematici…” (Irti, Sull'opera di..., p. 56).
Trascorsa la prima infanzia a Tocco Casauria si recò a L’Aquila ove fu accolto come alunno esterno nel collegio dei gesuiti anche se il padre ben presto ritenne opportuno trasferirlo, iscrivendolo tra gli alunni esterni del Seminario della stessa città, allora fiorente. Qui ebbe maestri di latino e di letteratura tra i quali il Vicentini, in seguito Arcivescovo de L’Aquila. Avvicinò lo studio della fisica della filosofia e della matematica. Studiò invece per proprio conto il greco, una materia non prevista nei programmi dei corsi.
Intanto le agitazioni e i fermenti che avrebbero portato all’Unità si facevano più compatti e, come studente, egli ne cominciava a cogliere l’entità, anche attraverso gli insegnanti medesimi: egli stesso ricorda quando un suo ”maestro, un dotto prete, don Domenico Perelli matematico, fisico, filosofo, artigliere… nel 1860… diresse il tiro di un vecchio e arrugginito cannone contro una banda brigantesca che minacciò L’Aquila” (Scialoja, Ricordo..., p. 10).
Erano anni, questi, di profondo cambiamento per l’Italia che voleva riconoscersi nell’orizzonte dell’unica nazionalità. Anche la legge Casati – L. 13 nov. 1859 n. 3725 – veniva collocarsi tra i tentativi di rinnovamento e nell’ottica di una soluzione unitaria, la prima, enunciava un organico ed uniforme impianto per tutto il settore dell’istruzione.
Nel pieno regime di queste novità, Filomusi proseguì la sua formazione nello studio della matematica mostrando per essa una grande attitudine e ottenendo la relativa licenza nel 1861. Nel 1863 cominciò a frequentare anche i corsi giuridici presso le scuole di Giurisprudenza annesse al Liceo. Seguì le lezioni di Filosofia del diritto e di diritto Penale tenute dal De Caris “… un distinto poeta e penalista, ed elegante avvocato…”, nonché quelle di diritto romano del Tatozzi “… un libero insegnante, dotto giurista di scuola antica e purista, scolaro del Puoti…”(Scialoja, op. cit., p. 10-11). Ma appena l’anno dopo - come racconta egli stesso - fu costretto a tornare a Tocco non potendo, per motivi di salute, continuare a studiare. E proprio in questi anni di discontinuità scrisse Prime linee di una Enciclopedia e Metodologia del diritto, ritenuto come concepimento e primo abbozzo della Enciclopedia Giuridica, la sua opera più importante.
Nel 1868 si trasferì a Napoli per laurearsi in matematica ma decise poi di studiare Giurisprudenza nello stesso Ateneo.
A Napoli, come in tutte le Università, si cominciavano a percepire i primi segni di rinascita degli studi giuridici dopo una fase di decadenza che aveva caratterizzato la prima metà del secolo. Ma detta ripresa si dipanava tra grandi difficoltà, tanto che dopo diversi anni dall’unificazione la nostra scienza giuridica sembrava ancora incapace di una elaborazione autonoma e originale. Intanto proseguiva l’opera di traduzione e diffusione delle opere dei giuristi francesi, studiate ed imitate nelle forme e nei contenuti. Esse esprimevano gli orientamenti della scuola dell’esegesi i cui postulati divennero per la dottrina italiana i canoni prevalenti di riferimento nella attività ermeneutica e didattica. C’è da dire che l’Ateneo napoletano conservava una singolarità non avendo mai reciso il legame con la tradizione anzi, facendo di questa una solida seppur sottile fonte di nutrimento. A Napoli infatti era ormai consuetudine considerare lo studio delle discipline filosofiche e letterarie una necessità comune ad ogni curriculum di studi. Così tutti gli studenti dell’Università frequentavano gli insegnamenti della facoltà di Lettere nonché i corsi dei filosofi della scuola napoletana.
Filomusi, tra le cattedre delle opposte dottrine, scelse quella di Bertrando Spaventa seguendo, per due anni, i corsi di logica e di psicologia del filosofo napoletano: “… lezioni dense di profonda e difficile dottrina, dalle quali usciva meditabondo per rinfrancarsi all’onda oratoria di Enrico Pessina” suo professore di diritto penale (Polacco, Francesco Filomusi Guelfi..., p. 6). Ma quella stima che ebbe verso tutti i suoi insegnanti fu quasi riverenza per Bertrando Spaventa nel quale riconobbe il maestro per eccellenza. Alla sua scuola infatti, orientò costantemente gli anni della formazione e poi, come filosofo del diritto, si raccordò sempre alle sue idee.
Sul problema di una rifondazione della nostra scienza giuridica si fermò l’attenzione dei professori e della loro cultura. Essi – come il Conticini, il Bellavite, il Polignani – e i loro scritti furono l’esito incipiente di una rinascita che apriva gli studi giuridici a novità di compiti e di indagini: primo fra tutti un rinnovato studio del diritto romano così come era stato elaborato dalla scienza giuridica tedesca. Da essa – informata ad uno spirito critico ignoto alla dottrina francese – bisognava mutuare i metodi di ricerca e la passione dell’indagine scientifica.
E Filomusi ne assimilò i contenuti e gli orizzonti dal Polignani, suo professore di Pandette all’Università. Alle sue lezioni, quasi in forma di sintesi, egli raccordò quelle ricevute privatamente da De Crescenzio, titolare di una scuola di diritto romano a Napoli, dovendo così al loro insegnamento quella formazione romanistica reputata indispensabile per il giurista.
Essa riposava sulla esigenza di investigare l’aspetto esegetico, storico, dogmatico delle fonti del diritto romano anche in vista della cognizione del nuovo diritto civile. L’interpretazione della legislazione giustineanea doveva superare l’accezione testuale propria dell’analisi esegetica: i suoi principi e fondamenti andavano ricercati e svolti nell’organismo complessivo di tutto il sistema. Ma ciò senza attardarsi sulle “minutezze dogmatiche poco accessibili” bensì conformando gli apporti della moderna dogmatica alla esegesi viva della fonti (Polignani, prefaz.). De Crescenzio, in occasione della commemorazione di Polignani, dichiarava l’importanza di tale orientamento di disciplina e di metodo, idoneo a formare il giureconsulto moderno, calato nella “vivente legislazione”, attento allo scopo pratico che le disposizione giuridiche sono chiamate ad assolvere (De Crescenzio, p. 59).
Guardare dunque alle elaborazioni dei ‘dotti e pazienti tedeschi’, anche per quanto riguarda i nuovi moduli stilistici – quello del trattato e quello del manuale di istituzioni – che i professori adottavano nelle Università della Germania. Ma la possibilità di una recezione era ostacolata ancora dalla scarsa diffusione della lingua tedesca: a ciò pose rimedio una paziente opera di traduzione avviata nell’Università.
Filomusi stesso curò per incarico di De Crescenzio la traduzione de Il processo civile romano di Keller, un compendio sintetico ma completo di diritto processuale romano giunto, nel 1863, alla sua terza edizione e ritenuto indispensabile anche per una completa conoscenza del diritto pubblico. Un’opera di singolare utilità che pur nella fedeltà alla trattazione elementare e didattica faceva del processo una via di intuizione per la conoscenza del diritto romano, dei suoi principi nonché del suo ordine espositivo: “… l’interna connessione tra il pensiero e la forma, tra l’idea e il corso esteriore” (Keller, prefaz.). Filomusi riconosce la valenza di questa intuizione e meglio la ricerca attraverso una sua riflessione ancora incentrata sulle opere straniere. Degno di nota a proposito è una ricerca condotta su un’opera di Scheurl, Guida allo studio del processo civile romano di cui Filomusi curò sempre la traduzione completandola con un complesso di annotazioni. Questa attività di traduzione interessò gli anni che seguirono immediatamente la sua laurea conseguita il 25 agosto 1869. Anni di impegno anche in vista degli esami di procuratore che due anni dopo superò a L’Aquila. Qui e poi a Napoli iniziò a tenere come libero docente i corsi di Enciclopedia, Storia del diritto e Storia speciale del diritto romano. E romanistico sarà un suo nuovo contributo, questa volta originale, Il processo civile contumaciale nel diritto romano, che segnava l’inizio effettivo della sua produzione. L’opera di carattere scolastico seguiva il sistema dei nuovi manuali tedeschi raggiungendo in pieno una delle sue finalità: dare nuovo impulso alla storia del diritto romano. “Senza la storia – egli scriveva nella prefazione – la legislazione romana non può essere che a mezzo compresa”. L’indagine storica delle esigenze e dei contesti convive con l’assetto delle teorie. Anzi la storia – del diritto romano come anche di ogni legislazione – diventa un elemento propulsore e costruttivo del diritto poiché apre lo schema dei concetti alla realtà vivente dei rapporti giuridici.
La vicenda culturale di Filomusi Guelfi doveva il suo vigore speculativo ai contatti con l’ambiente napoletano.
Qui tutta la tradizione giuridica meridionale tardo-secentesca tornava ad essere pienamente operante con la Scuola storica napoletana. Lo storicismo che fu di Francesco D’Andrea, poi alimentato dall’opera e dall’insegnamento di Gian Battista Vico, si poneva ora come necessario richiamo contro il certo del positivismo e delle dottrine deterministiche. Noto è infatti quanto la cultura giuridica napoletana dell’ Ottocento – memore del passato e attenta ai problemi che la vita del Regno poneva – fosse viva ed operante, in grado di aprirsi alle dottrine straniere con una propria autonomia di critica e di analisi. Infatti l’insegnamento di Vico che aveva elevato la storia ad oggetto di meditazione filosofica, fu più che mai efficace nell’interpretazione dell’hegelismo e , ancor meglio, nel tentativo di un suo contemperamento.
Filomusi Guelfi, discepolo di Bertrando Spaventa, idealista principalmente per il richiamo a quell’ordine morale che tale definizione implicava, non poteva che essere lontano dalle sintesi positivistiche che l’ultimo Ottocento contrassegnava negli orientamenti dei filosofi e dei professori. Il diritto – osservava – può essere studiato come puro fenomeno ma il problema della sua genesi è problema filosofico. Ecco allora il doppio lato del diritto: il lato ideale, principio e causa della realtà, ed il lato storico, positivo che cade nel mondo delle cose, dei fatti e dei fenomeni. Il diritto dunque si alimenta continuamente della necessità etica senza la quale non è pensabile una comune organizzazione come famiglia, società, Stato e sistema di Stati. Solo l’esigenza di una ragione più elevata può sostenere l’avvicendarsi della norme e sospingere sempre più al progresso giuridico ma non nei termini di un modello ideale da tradurre in forma positiva bensì come un momento costitutivo dell’attività giuridica. Al vecchio concetto di uno ius naturae astratto, immutabile, perfetto, direttamente formulato dalla ragione come modello da tradurre nella realtà, subentra un insieme di ragioni ideali destinate a trovare soddisfazione nel diritto concreto. Fondate sulla ‘idea’ da essa vengono dedotte in conformità alle condizioni naturali e storiche di un corpo sociale, per trovare ‘forma’ e riconoscimento in una norma giuridica. Ma per restare al concetto da cui muoveva Filomusi, quello cioè della distinzione tra ‘diritto in se’ e la sua ‘realtà’ o ‘forma’ ciò che bisognava spiegare era come l’idea del diritto si fa diritto positivo, come il volere si determina all’azione. E a riguardo egli si richiamava ad Aristotele o, più precisamente, al concetto aristotelico del ‘movimento’ senza il quale il divario tra la materia e la forma non può esser colmato. Attraverso il principio del ‘movimento’ dunque, si può comporre l’antitesi – riconosciuta da Hegel ma lasciata indeterminata nel suo svolgimento – tra l’idea e la forma: solo nel dinamismo che le muove nonché nella ‘energia’ e nella ‘spinta’ che le mette in relazione si trova la genesi del diritto e la sua realizzazione positiva. Alla luce di ciò si spiegano anche le posizioni che Filomusi avrà nei confronti della Scuola Storica: è indubbio il contributo da essa reso alla ricerca sulle fonti storiche e sulla natura del diritto positivo ma resta l’obiezione alla concezione di un diritto inteso ‘come puro prodotto spontaneo della coscienza giuridica di un popolo’. Definendolo come tale si cade in una tautologia: bisogna spiegare cos’è il ‘diritto’ per saper il valore del predicato ‘giuridico’. E poi non spiegata è la nozione della ‘coscienza del popolo’, alla quale poi si aggiunge il predicato di ‘giuridica’. Solo alla filosofia - egli affermava – può essere dato il compito di chiarire il predicato ‘giuridico’ derivandolo da un più alto principio. Essa riconosce questo ‘eterno ideale’ e presiede al suo svolgimento. Perciò una prospettiva che abbraccia in sè la filosofia e la storia è la sola che può riconoscere, senza immedesimarle, la manifestazione storica del diritto e la sua origine ideale. Dunque il diritto positivo quale ‘forma concreta e reale del diritto ideale’ non può che essere energia attuosa, ‘movimento’, forza: se non fosse forza sarebbe impotenza. Ma il diritto come forza – quello che lotta e vince – non è il risultato di una vis maior impositiva bensì l’effetto della potenza etica che lo costituisce. La sua attuazione cioè, non poggerebbe sulla coazione – comunque possibile come determinazione essenziale del concetto del diritto in sé – ma sui sentimenti doverosi che si affermano nella coscienza di un popolo, sull’ossequio fiducioso alla legge, non per paura della coazione ma per i motivi etici su cui si fonda.