7. La dedica del Compendium de divina proportione |
L'Epistola dedicatoria della Divina proportione presenta un programma di matematizzazione del sapere analogo a quello di quattro anni prima. Da una parte Pacioli insiste sull'utilità che le matematiche recano ad ogni campo dello scibile umano; dall'altra legittima la loro applicabilità universale con ragioni metafisiche concernenti la struttura geometrica del mondo. Circa l'utilità delle matematiche Pacioli ritiene che essa sia un riflesso della verità,
e però magiormente le cose vere sirano a noi utili e proficue, perché di queste se non vero ne pervene. Ma de le vere, commo afferma Aristotele e Averrois, le nostre mathematici sono verissime e nel primo grado de la certezza e quelle sequitano ogni altre naturali.
Senza la certezza della matematica ogni altra scienza si ridurrebbe ad un coacervo di opinioni infondate, inutili per risolvere le necessità pratiche. Pertanto - conclude frate Luca – le discipline matematiche, che in passato consentirono agli antichi egizi di scoprire le cause degli eclissi, meritano in futuro “più magnanima” e ampia considerazione:
Conciosia che dicte mathematici sieno fondamento e scala de pervenire a la notitia de ciascun altra scientia per esser loro nel primo grado de la certeza affermandolo el philosopo; così dicendo: Mathematice enim scientie sunt in primo gradu certitudinis et naturales sequuntur eas. Sonno commo è dicto le scientie mathematici discipline nel primo grado dela certezza e loro sequitano tutte le naturali. E senza lor notitia fia impossibile alcun altra bene intender.
Alla certezza delle matematiche si aggiunge una ragione più profonda che rende lo studio di queste scienze meritevole di essere perseguito. La matematica, infatti, non è soltanto la madre delle scienze e delle arti ma costituisce anche il linguaggio con il quale Dio ha scritto il libro del mondo,
e nella Sapientia ancora è scripto quod omnia consistunt in numero pondere et mensura, cioé che tutto ciò che per lo universo inferiore e superiore si squaterna quello de necesità al numero, peso e mensura fia sottoposto. E in queste tre cose l’Aurelio Augustino in De Civitate Dei, dici el summo opefice summamente esser laudato, perché in quelle fecit stare ea que non erant. Per la cui amorevole exhortatione comprendo molti de tal fructo suavissimo de utilità ignari doversi dal torpore e mental sonno exveghiare e con ogni studio e solicitudine ad inquirere quelle al tutto darse. E sia cagione in esse el seculo al suo tempo renovarse. E con più realtà e prestezza in cadun loro studio de qualunche scientia ala perfection venire.
Nelle ultime due righe di questo passo si legge la motivazione profonda che spinge Pacioli ad impegnarsi in questa apologia delle matematiche: “E sia cagione in esse el secolo al suo tempo renovarse. E con più realtà e prestezza in cadun loro studio de qualunche scientia ala perfection venire”. Il rinascimento della civiltà risiede per frate Luca nella rinascita delle matematiche. Le arti e le scienze infatti si basano sulla certezza e la verità di queste discipline. Dalla loro verità deriva, poi, l’utilità pratica e il miglioramento della civiltà; diventa perciò necessario impegnarsi seriamente nello studio delle matematiche in modo che “sia cagione in esse, el seculo al suo tempo renovarse”.
Per mostrare come dalle scienze matematiche derivi il miglioramento e la rinascita della società Pacioli si dilunga a specificare il loro uso nella costruzione di ordigni militari, di fortificazioni, di ponti, di strumenti di difesa, che “sempre con forza de numeri, mensura e lor proportioni se trovaranno fabricati e formati”. L’ingegneria militare, argomento particolarmente caro sia Ludovico il Moro che a Galeazzo Sanseverino, occupa un posto di primo piano nelle considerazioni di frate Luca. L’arte della guerra, infatti, “non è possibile senza la notitia de Geometria, Arithmetrica e proportione, egregiamente poterse con honore e utile exercitare. E mai niun degno exercito finalmente a obsidione o defensione deputato de tutto proveduto se pò dire, se in quella non se trovi ingegnieri e novo machinatore particular ordinato”.
I casi storici che corroborano la tesi di Pacioli sono molteplici e spaziano dall'uso degli specchi ustori di Archimede fino alla rocca di Urbino di Federico da Montefeltro, le decorazioni della quale contengono formelle in cui si raffigurano gli strumenti bellici, costruiti mediante l’applicazione della matematica all’arte della guerra. Tra le macchine da guerra frate Luca annovera “bombarde, briccole, trabochi, mangani, rohonfee, baliste, catapulte, arieti, testudini, grelli, gatti, con tutte altre innumerabili machine, ingegni e istrumenti” descritti nei trattati di Jacopo Fontana, Marino Taccola, Aristotele Fioravanti, Francesco di Giorgio Martini e Roberto Valturio (Sulle conoscenze degli ingegneri durante il Medioevo e il Rinascimento cfr. B. Gille, Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento, tr. it., Milano, Feltrinelli 1972; P. Galluzzi (a cura di), Gli ingegneri del Rinascimento. Da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, Firenze, Giunti 1996). Tra le armi di “offensione” compare anche la “bombarda”, che costituì una delle applicazioni più rilevanti della polvere da sparo e produsse una vera e propria rivoluzione nell’arte della guerra. La conseguenza più immediata dell’introduzione della polvere da sparo fu, oltre al cambiamento delle strategie militari, la necessità di modificare la costruzione delle fortezze difensive, cioè di “roche, torri, revelini, muri, antemuri, fossi, ponti, turrioni, merli, matelletti e altre fortezze nelle terri, città e castelli”. Anche le strutture difensive – rileva Pacioli - al pari delle macchine offensive necessitano di “geometria e proportioni”. Pertanto la vittoria nelle guerre e la conservazione del benessere “de le grande e picole republiche” dipende dalla preparazione matematica degli ingegneri che accompagnano gli eserciti.
Non peraltro sì vittoriosi furon li antichi Romani, commo Vegezio, Frontino e altri egregii autori scrivano, se non per la gran cura e la diligente preparatione de ingiegneri e altri armiragli da terra e da mare, quali senza le mathematici discipline, cioè Arithmetica, Geometria e proportioni, non è possibile lor sufficientia.
Alla citazione di due classici dell’arte militare, come Vegezio e Frontino, frate Luca affianca, com’è sua consuetudine, un autore moderno dell’arte militare come Roberto Valturio, che “in la degna opera sua de instrumentis bellicis intitulata”, descrive in dettaglio queste macchine da guerra.
Valturio, la cui opera De re militari fu stampata a Verona nel 1472, viene considerato da Pacioli come un diretto continuatore dell’ingegneria militare dei romani. Dalle opere storiche di Livio, Plinio e dello stesso Cesare, il “peritissimo ariminese” – secondo Frate Luca – trasse la descrizione delle macchine belliche contenute nell’opera dedicata a Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e condottiero tra i più valenti del Quattrocento.
Il desiderio di riallacciare direttamente il rapporto con la civiltà classica induce Pacioli a ricondurre l’opera di Valturio, che comunque non è un tecnico ma un uomo di lettere che compila in latino un trattato sull’arte militare, a quella di Frontino e Vegezio. Occorre tuttavia rilevare che gran parte delle macchine descritte nel libro De re militari, derivano da quelle di Mariano Taccola e quindi dalla tradizione medievale dei tecnici militari. Rispetto ai trattati degli ingegneri si aggiunge però una novità, costituita dalle reminiscenze antiche che affiorano spesso nell’opera di Valturio. I disegni di macchine sono, infatti, corredati dal testo e non si limitano a lasciare tutta la spiegazione alla figura. É proprio la commistione tra la cultura “dotta” dell’umanista e la tradizione tecnica degli ingegneri a sollecitare l’interesse di Pacioli verso l’opera del riminese. Il libro De re militari, terminato nel 1455 conobbe, soprattutto dopo la stampa, una diffusione notevole e costituì uno dei punti di riferimento della stessa ingegneria militare di Leonardo. Frate Luca, inoltre, ritiene che proprio all’opera di Valturio, si ispiri il programma decorativo dei fregi del palazzo di un altro grande condottiero dell’epoca, Federico da Montefeltro:
E de ditte machine e instrumenti – scrive – ad litteram, commo in suo libro ditto ariminese pone, e de molte altre più assai, la felicissima memoria del congionto e stretto affine de Vostra Celsitudine Federigo Feltrense, Illustrissimo Duca de Urbino, tutto el stupendo hedificio del suo nobile admirando palazzo in Urbino circumcirca da piede in un frixio de viva e bella pietra, per man de dignissimi lapicidi e sculptori ordinatamente feci disporre.
Il programma iconografico di Federico, ispirato al De re militari di Valturio, fu poi completato da Francesco di Giorgio Martini, che della tradizione degli ingegneri militari del Rinascimento è un diretto ed eccellente continuatore.
I Trattati di architettura civile e militare dell’architetto non sono menzionati da Pacioli, ma l’opera, che insieme a quella di Valturio ispira la zoccolatura del Palazzo di Urbino, è senza dubbio da annoverare tra le maggiori di ingegneria militare del Quattrocento. Qui si trovano descritte, come nei codici di Taccola, le macchine da guerra citate in rapida rassegna da Pacioli, e riprodotte, insieme alle macchine usate nell’ingegneria e nell’architettura civile (alzacolonne, argani, mulini idraulici, ecc), nelle 72 formelle di Urbino.
La conclusione della dedica a Ludovico il Moro è un lapidario bilancio della cultura matematica e scientifica del tempo. Frate Luca denuncia la penuria dei buoni matematici, dovuta, a suo avviso, alla “rarità dei buoni precettori”. Del resto la scarsa diffusione del sapere matematico – rileva Pacioli - è causata anche dalla difficoltà della disciplina. Come afferma, infatti, il proverbio: “aurum probatur igni et ingenium mathematicis”,
che in sentenza vol dire chel bono ingegno ale mathematici fia attissimo a cadauna scientia, conciosiacosaché le sienno de grandissima astrazione e sutigliezza, perché sempre fuora de la materia sensibile se hano a considerare e veramente son quelle, commo per tusco proverbio se costuma, che spaccano el pelo in l’aire. Per la qual cosa l’anticho divin philosopho Platone non immeritamente l’à ditto dil suo celeberrimo gymnasio ali de geometria inexperti denegava quando un breve al sommo dela sua principal porta, a lettere magne, intellegibile pose de queste formali parolle videlicet: Nemo huc geometrie expers ingrediatur; cioè chi non era buon geometra li non entrasse.
Dopo aver ricordato l’aneddoto platonico e aver aggiunto la leggenda raccontata da Vitruvio del sacrificio di 100 buoi compiuto da Pitagora “per la invenctione de l’angolo retto”, a Pacioli non resta che ringraziare il Moro che, istituendo la “lectura publica” di matematica a Milano, consente ai suoi sudditi di accrescere la loro conoscenza della geometria e dell’aritmetica e favorire la rinascita delle scienze. L’insegnamento di matematica, naturalmente tenuto da Pacioli, si basa sul “sublime volume del prefato Euclide”, e a quanto riferisce il frate
E’ già ali suoi X libri dignissimo fine imposto, interponendo sempre a sua theorica anchora la praticha nostra, a più utilità e ampla intelligentia de quelli. E ala presente expedition di questo el residuo del tempo deputando.
Il Compendium de divina proportione, si pone pertanto in linea di continuità con la Summa. Se l’opera pubblicata nel 1494 costituisce il testo di riferimento per la volgarizzazione dei primi dieci libri degli Elementi, le ultime fatiche di Pacioli consentono di completare la volgarizzazione di Euclide, tramite la trattazione degli ultimi libri della sua maggiore opera. L’estensione della matematica alle arti e alle scienze presuppone, infatti, lo studio degli Elementi e in particolare la teoria delle proporzioni contenuta nel V libro.