Percorrevano distanze enormi in vagoni merce piombati e sigillati senza alcun vitto, persino dieci giorni.
Durante questi interminabili viaggi verso la morte, tanti, i più deboli morivano fortunatamente prima di arrivare a conoscere il limite alla credibilità dell’orrore; i rimanenti si trovavano in uno stato di estremo esaurimento.
Quest’orrore nella nostra penisola prese il via il 1° dicembre del 1943 con L’Ordinanza antisemita Buffarini-Guidi, meglio conosciuto come Ordine di Polizia N°.5, che prevedeva la confisca immediata di tutti i beni, non ammessa opposizione né in via amministrativa né in via giudiziaria. A queste persone veniva negato non solo il diritto di avere, ma anche di essere. I provvedimenti della Repubblica Sociale toglievano loro anche la tutela giuridica del diritto alla vita.
Ma questo stesso orrore era iniziato già un anno prima in altri paesi. In Ungheria e Grecia i nazisti ingannarono gli ebrei portandogli via tutto, vendendogli inesistenti terreni edilizi, fattorie, negozi e offrendo loro ottimi posti di lavoro in fabbriche inesistenti. Anche per questo motivo spesso portavano con sé al campo di concentramento le cose più preziose che possedevano. Mettevano tutto ciò che avevano in enormi valigioni di cartone, ora ammassati in un padiglione. Scheletri senz’anima di cui rimane un nome soltanto. Il più evidente: Anna Frank.
A Roma, il maggiore Kappler fece una proposta agli ebrei: se gli avessero consegnato cinquanta chili d’oro li avrebbe lasciati liberi, ovviamente prese l’oro e anche loro. Il 16 ottobre 1943, 1.022 furono i deportati. Solo 14 sono tornati.
Questa povera gente veniva presa in giro, anche i loro sogni, una delle cose più vere, venivano bruciati, in un inferno alimentato dalla loro carne, placato dal sangue. Le loro ossa la cenere che restava.
Il campo di Auschwitz fu fondato nel 1940, il comandante era Rudolf Hoss e, lui in persona scelse il posto lontano dalle città e dagli occhi indiscreti, nonché per il fatto che era ben collegato con le linee ferroviarie.
Il campo nacque per i prigionieri politici polacchi ma diventò anche il maggior centro di sterminio degli ebrei europei (ne morirono un milione e cinquecento) oltre agli zingari, gli omosessuali, i testimoni di Geova e un milione di prigionieri russi.
Il tutto fu progettato per sterminare con cinica intelligenza ed efficienza.
Il cielo è terso su di noi, gonfio, sta per esplodere. Il grigiore dell’aria incupisce l’anima.
"ARBEIT MACHT FREI"
Vengono i brividi. E’ l’efferata frase che domina l’entrata all’inferno.
Queste parole lasciano trasparire la ferocia devastante, la crudele brutalità di ignobili esseri che hanno fatto dei campi di concentramento uno dei più infami e vergognosi mezzi di terrore usati contro l'umanità.
Di per sé "il lavoro rende liberi" è una frase positiva sotto il più naturale punto di vista. Il lavoro ci gratifica, ci rende indipendenti e quindi liberi, ma il lavoro che ognuno svolge perché vuole, perché gli piace o anche perché è necessario per il sostentamento, benché non piaccia, è differente dal lavoro forzato. Lavorare senza vedere un soldo è già degradante, figuriamoci in condizioni miserevoli con l’incombente minaccia di morte.
Ad Auschwitz il lavoro fa mantenere la vita sopravvivendo, ma nulla ha a che vedere con la libertà individuale, rende solo liberi, momentaneamente dalla fine.
Ma probabilmente sarebbe meglio la morte a vigliacche torture, meschini soprusi, ignobili ordini.
Percorro i diversi padiglioni ognuno dedicato ad una nazione, il tutto circondato da filo ad alta tensione per evitare che i prigionieri scappassero. Il cielo è di un grigio spettrale. Il debole occhio del giorno viene scosso da un gelido lamento di morte, troppo freddo per questo periodo. Si alza un canto, che è ben lontano dall’essere il canto dell’allodola che si staglia in volo sul Campo di Grano. E il verso di un tordo che vola via.
Tanta gente anziana esce con lo sguardo a terra, piangendo lacrime amare. Sono probabilmente persone miracolosamente scampate ad un enorme tragedia della storia, lo sterminio di milioni di anime innocenti, la cui unica colpa era di essere ebrei. A testa bassa obbedivano ai loro carnefici, a testa bassa continuano a vivere per la vergogna di ciò che hanno subito. Perché sono loro a vergognarsi.
Noi, inizialmente allegri e felici, come chiunque in vacanza, ci ricomponiamo immediatamente vedendo una simile processione di anime sopraffatte dal dolore.
Ricordo che sul muro di una cella, nella quale si verificavano casi di soffocamento per mancanza d’aria, c'erano dei disegni fatti con le unghie dei detenuti. Una croce sovrastata da un uomo e poi tutto sangue intorno, sangue umano, questa è la fine che ha fatto anche colei o colui che l'ha disegnato. In questi buchi, novanta per novanta, morivano soffocate tante persone, costrette a stare accovacciate e raggomitolate fino all’ultimo sospiro di liberazione.
Girando per le stradine che collegano i padiglioni respiro un'aria di morte, di miserie, di incubo.
Ad un tratto ci siamo ritrovati in un immenso piazzale.
"Papà, qui si riposavano e giocavano i prigionieri?" Chiede ingenuamente mia cugina di appena quattro anni.
"Si papà, qui si riposavano finalmente. Per sempre".
Alzando lo sguardo, proprio davanti avevamo il Muro della Morte dove migliaia di prigionieri politici venivano fucilati con pallottole alla nuca, o impiccati. Su questo muro sporgono dei ganci impiegati per legare barbaramente i deportati con le mani dietro e appesi come prosciutti messi ad essiccare in oscure cantine.
Intorno al muro della morte due soli palazzi, le cui finestre sono coperte da grate per non permettere alle persone di vedere e rendersi conto di ciò che sarebbe successo ad ognuno di loro.
L’efficiente macchina bellica tedesca non sprecava nulla.
Anche dopo la morte, tutto veniva riciclato e usato. Addirittura nella ricerca del guadagno non si risparmiavano nemmeno i cadaveri: l'oro dei denti veniva rifuso, i capelli tagliati alle donne venivano trasformati in tessuto e le ceneri utilizzate come fertilizzanti, il grasso per fare saponi. Che esseri ignobili e schifosi. No, non si può usare la parola ‘persone’, non avevano nulla di umano.
Le persone più deboli, non considerate adatte a sopportare grosse fatiche venivano subito condotte nello spogliatoio sotterraneo.
Sono tutti tranquilli, dopo la selezione i nazisti li assicurano che lì potranno lavarsi. Gli viene ordinato di togliersi gli abiti e di passare in un altro locale sotterraneo simile ad un bagno. Dopo la chiusura della porta della camera a gas viene esalato nel locale da fessure installate nel soffitto come docce, ma per le quali non è mai passata acqua, il gas ‘Ziklon B’. Nel giro di una quindicina di minuti le vittime muoiono soffocate.
Ai cadaveri vengono estratti i denti d’oro, tagliati i capelli, sfilati gli anelli e gli orecchini, poi i corpi sono trasportati ai forni crematori, o, quando questi non sono sufficienti, bruciati sui roghi.
Parte degli internati dei convogli che arrivavano era portata direttamente al campo senza essere sottoposta a selezione. Morivano in seguito alla fame, alle esecuzioni, al lavoro sovrumano, alle punizioni, alle micidiali condizioni igieniche, agli stenti, alle malattie e alle epidemie.
Il valore dell’alimentazione quotidiana era di circa 1300- 1700 calorie. A colazione i detenuti ricevevano mezzo litro di caffè, che in realtà era un decotto di erbe, a pranzo circa un litro di minestra, spesso cotta con verdure avariate. La cena consisteva in 300 grammi di pane nero duro come pietra e 20/30 grammi di margarina o formaggio e un liquido d’erbe. Non è difficile capire che il pesante lavoro e la fame causavano l’esaurimento totale dell’organismo, in altri casi, la morte.
Il dirigente del campo comunicava loro, fin dal primo giorno, di essere giunti ad un campo di concentramento in cui l’unica uscita è quella dei camini dei forni crematori.
E intanto vanno, i cani bastonati continuano la lotta per la vita con la testa bassa, il muso che mangia terra e le orecchie scorticate.
I detenuti più forti erano utilizzati nei diversi settori lavorativi: inizialmente lavorarono all’ampliamento del campo livellando il terreno, costruendo nuovi blocchi e baracche, strade, canali di prosciugamento. Successivamente cominciò a far uso dei detenuti, l’industria del III Reich.
I medici delle SS eseguirono molti esperimenti criminali sui prigionieri. Al fine di elaborare un metodo per lo sterminio biologico dei popoli praticavano sulle donne ebree esperimenti di sterilizzazione. Sottoponevano i bambini a criminose ricerche genetiche. Ad Auschwitz sono state condotte pure prove di applicazione di nuovi farmaci e preparati: venivano sfregate sostanze tossiche sull’epidermide dei detenuti, venivano effettuati innesti di pelle. Centinaia di uomini e donne perirono durante gli esperimenti e coloro che sopravvissero riportarono danni seri alla salute e mutilazioni permanenti.
Il detenuto poteva essere punito per tutto: per aver colto una mela, per un bisogno fisiologico durante il lavoro, per essersi estratto un dente d’oro per barattarlo con un tozzo di pane, o perché si riteneva che lavorasse troppo lentamente.
Nelle celle degli scantinati erano rinchiusi i prigionieri condannati alla morte per fame per la fuga del loro compagno, coloro che erano ritenuti colpevoli di trasgressione del regolamento del campo e nei confronti dei quali si conducevano delle indagini, i prigionieri del campo e la popolazione civile sospettati di avere contatti con i detenuti e di averli aiutati nelle evasioni. E chissà, probabilmente il mio orologio era appartenuto ad uno di questi deportati e le sue lancette scandivano impietosamente e monotamente il tempo che restava da vivere al detenuto. Dal gong della mattina a quello della sera, da una scodella di minestra marcia all’altra, dal primo appello fino a quello in cui le sue spoglie erano contate per l’ultima volta.
Sembra inconcepibile che sia potuto accadere un tale massacro di persone innocenti e per che cosa poi? Questa è una delle tante cose che succedono nel mondo, fatti che sembrano assurdi.
Mentre cammino mi calo in una di quelle povere persone, e mi chiedo perché, perché tutto questo?
Uomini di tutte le regioni d’Europa, che erano figli, sorelle, padri, madri, tutti con una propria vita, tutti dovevano morire.
Auschwitz era il posto dove chi sopravviveva veniva privato di ogni diritto. Non poteva avere ricordi, anche il ricordo dei famigliari, il senso della famiglia veniva schiacciato dall’esigenza di sopravvivere.
Ma Auschwitz non fu solo una colpa della Germania e di Hitler che considerava tutte le razze inferiori. Anche altri governi furono attivi carnefici. In Danimarca, come in molti paesi questo non accadde perché il re si oppose alla deportazione degli ebrei danesi. In Bulgaria un governo fascista salvò gli ebrei. Perché questo non accadde anche in Italia? Perché qualcuno che poteva non si è opposto?
Mussolini attestava che l’antisemitismo non esisteva in Italia, che “gli ebrei si sono sempre comportati bene come cittadini e, come soldati si sono battuti coraggiosamente, occupando posti eminenti nelle banche, nell’esercito, nelle università.”
Per lui gli ebrei erano come gli altri, anzi, sotto certi aspetti migliori, e in un telegramma a degli studenti ebrei americani scrive: “non esiste in Italia una differenza tra ebrei e non ebrei, sia nel rapporto politico sia in senso sociale, gli ideali italiani e ebraici sono fusi in uno solo.”
Perché Mussolini che si riteneva un sionista asserendo che non c’erano razze superiori e razze inferiori, ha lasciato che tutto ciò accadesse? E perché in seguito ha affermato che gli ebrei erano privi di scrupoli e scatenavano guerre sanguinose per impadronirsi delle ricchezze degli altri popoli e per aumentare la loro potenza?
Perché le leggi razziali del 1938 che contenevano gli elenchi degli ebrei ancora esistevano durante le deportazioni? Allora era già tutto deciso da tempo e tutto premeditato? Era forse accaduto tutto questo solo per derubare gli ebrei dei loro averi ricavandone denaro per affrontare la guerra?
Un altro dubbio mi assale. Ho letto, dalle testimonianze di alcune persone scampate, che la chiesa poteva avere un ruolo determinante riguardo all’olocausto. Se solo Pio XII fosse andato davanti al collegio militare dove gli ebrei stettero fermi due giorni, e avesse allargato le braccia, e avesse detto qualcosa, gli ebrei non avrebbero subito nulla. Non l’ ha fatto. E ancora, secondo la storia Kappler fece partire il convoglio solo dopo aver comunicato che non ci fu nessuna reazione. Ma nessuno saprà mai.
La realtà è che in Europa vivevano nove milioni di ebrei, dopo la guerra ce ne erano tre milioni, dove sono andati gli altri? Un milione di prigionieri politici morirono, senza contare i testimoni di Geova, gli zingari e tutte le persone uccise nelle camere a gas prima ancora che venissero registrate. È difficile quindi, stabilire il numero esatto delle vittime, ma più o meno furono sette milioni e mezzo. Un numero assurdo di innocenti, un numero, che sembra non dirci nulla, che non fa giustizia al più grande crimine contro l’umanità che ha annientato nella maniera più atroce e vigliacca una nazione grande come l’ intera Austria.
Quella stessa sera, al ritorno dalla visita al campo abbiamo alloggiato in un albergo poco distante. L’edificio era stato da poco ristrutturato, anticamente però era una fortezza che ancora conservava le adeguate precauzioni, infatti le finestre avevano una forma particolare, a mo’ d’imbuto. La parete che faceva accedere alla finestra era larga alla base, per poi restringersi, e, la parte che dava all’esterno era piccolissima, per ragioni di sicurezza. Quest’edificio mi metteva addosso tanta malinconia e, sebbene accogliente, la fredda meticolosità che forniva ogni comfort, mi creava uno strano senso di disagio; ma probabilmente ero solo stanca fisicamente e mentalmente per la giornata appena trascorsa. Eravamo tutti di poche parole, tanto ci aveva sconvolto ciò che avevamo appena visto.
È stato proprio qui, che mio padre mi ha picchiata per la prima e, finora ultima volta.
Una sberla data in pieno viso e quanto mi ha fatto male. Il dolore è rimasto ancora.
Il fatto stesso di aver spinto papà, una persona così calma e pacifica, ad alzare le mani mi ha ferito e ancora mi ferisce. Una sciocchezza, uno schiaffo da nulla, eppure ancora mi rimbomba quel ceffone. Lo avevo portato all’esasperazione, non ricordo bene il motivo esatto del gesto, comunque la causa fu qualcosa da me detta o fatta in modo sconsiderato, e questo era bastato a scatenare l’ira di papà. Sì, perché la cosa che lui odia maggiormente è la maleducazione e, io lo ero stata.
Un uomo di poche parole, una cosa o gli va bene, oppure no, non vede un colore intermedio, non c’è attenuante che regga.
Io lo capisco al volo, mi basta guardarlo per sapere se è aria o meno. Quella volta successe così all’improvviso che non ebbi il tempo di capire lì per lì dove avevo sbagliato, cosa avevo fatto da meritare la sua indifferenza.
Lui non parla, non mi fa capire ciò che sarebbe meglio, o quello che è sbagliato, dobbiamo essere tutti maghi e indovinare, immaginare perfino ciò che vuole intendere.
E’ sbagliato, ma se non l’ ha capito finora temo proprio che ormai non ci sia verso.
E’ salito nella mia stanza e, senza dire una parola, però parlava bene il suo volto rosso dalla rabbia, mi ha mollato una ‘bella cinquina’ ed è andato via.
Sono stata zitta, piangevo solamente.
C’era anche mia cugina nella stanza, e lei era là, è rimasta immobile senza dire una parola. Quando mio padre è andato via, lei ha cercato di calmarmi e inutilmente di consolarmi. Poi ha capito e mi ha lasciata sola.
Ho iniziato a gridare, perché non c’era bisogno di quel gesto, non mi spiegavo come per una banalità avesse reagito in quel modo, e pensare che mi ero sempre vantata di non essere mai stata picchiata sebbene una sculacciata o una sberla ogni tanto non possano far altro che bene in certi casi.
Ma stavolta non era così. Umiliarmi davanti a mia cugina mi aveva fatto male, veramente male e in quel momento, mi vergogno a dirlo, ma l’ ho odiato per quello che mi aveva fatto senza motivo. Realmente ho creduto che avesse per sempre rovinato il nostro rapporto e che non sarei mai stata capace di perdonarlo. Ero tanto arrabbiata e nervosa e non sapevo in che modo sfogarmi, avrei voluto gridargli in faccia tutte le brutte cose che pensavo di lui.
Fortunatamente non l’ ho fatto, e, dopo un po’ la mia ira si è placata. Quando si è feriti spesso si dicono cose brutte, che fanno male e ciò che è peggio, non veritiere e dopo ci si pente di essere stati così cattivi.
Perché non parlarne con le buone, farmi capire che avevo sbagliato, avrei accettato i suoi rimproveri, ma non quest’umiliazione davanti a mia cugina, e poi anche i nostri amici e i miei zii mi avevano sentita piangere, e avevano sicuramente capito.
Ho pianto tutta la sera. A cena non volevo scendere perché non avevo voglia di vedere mio padre, ero arrabbiata con lui e inoltre perché mi vergognavo.
Mia madre, come sempre quando sono giù che papà è imbronciato, è venuta a consolarmi.
“Dài mammina, lo sai che a papà è già passato tutto, ma è troppo orgoglioso per venire a chiederti scusa. È stato lui a mandarmi da te per vedere come stavi e a chiamarti per la cena, gli altri sono giù che ci aspettano”.
Per non complicare le cose, sebbene contro voglia, ho accontentato mamma.
Non ho neanche guardato in faccia mio padre, ma con la coda dell’occhio vedevo che lui mi osservava e rideva sotto i baffi, come fa quando vuole riappacificarsi. Quello era il suo modo di chiedermi scusa.
Io ero troppo arrabbiata per assecondarlo come faccio di solito quando bisticciamo, cosa che succede spesso tra noi. Siamo testardi allo stesso modo e tanto orgogliosi entrambi.
La tavola era imbandita, abbiamo provato a mandar giù qualcosa, ma lo stomaco era chiuso, siamo rimasti attorno al tavolo senza dire una parola, come protagonisti di una seduta spiritica aspettando la medium che si metta in contatto con l’aldilà, solo qualche sospiro ogni tanto. Lo sguardo rivolto verso il basso fissando ciò che era nel piatto, guardando le nostre mani vicine, i bicchieri sul tavolo che non si muovono. In realtà avevamo negli occhi le immagini indelebili di quanto avevamo appena visto.
Dopo esserci alzati da tavola lui è venuto ad abbracciarmi e a chiedermi scusa. Quell’abbraccio è stato così vero, così intenso. Piangevo senza sapere il perché. Ero tanto felice di essere tra le braccia forti del mio papi, di avere sempre e nonostante tutto il suo affetto e la sua protezione. Le lacrime erano tamponate dalla sua camicia, i singhiozzi dal suo petto.
Anch’io ho chiesto di essere perdonata per essermi comportata da bambina viziata ed è finita con un bel bacio e una risata.
Sicuramente l’incomprensione era stata causata dalla tensione per la pesante giornata, dalle cose inaspettate e incredibili che avevamo visto.
La stessa sera, non riuscivo a dormire, mi giravo e rigiravo nel letto, pensando a come ero stata schiocca ad offendermi per uno schiaffo datomi giustamente, e, anzi se fossi stata al posto di papà non ne sarebbe stato uno solo.
Cosa avrebbero dovuto fare allora i detenuti del campo soggetti a tutte quelle angherie e ingiusti maltrattamenti?
Io avevo potuto rispondere a mio padre, potevo affrontarlo, chiedergli il perché, pretendere una spiegazione, di parlarne, ma loro? Loro no, dovevano sopportare tutto in silenzio e di buon grado, altrimenti, la morte li aspettava.
Chissà quanti figli per interi giorni non rivolgono la parola ai genitori e viceversa per banalità del genere, senza pensare che basta un po’ d’umiltà per superare anche quelle che sembrano essere le più grandi ed insormontabili incomprensioni.
Non so se accade solo a me, ma ogni cosa che non vivo personalmente sembra così lontana, lì per lì ci pensi e ci ripensi ma poi tutto passa, perfino le foto più nitide, diventano col tempo indecifrabili. La vita è così piena di vicissitudini che la successiva fa cadere nell’oblio la precedente. E poi un flash, quando meno te lo aspetti quei ricordi diventano più vivi che mai nella tua mente, come non lo erano mai stati.
E addirittura, quando accadono eventi importanti e felici ci si dimentica momentaneamente di ciò che ci succede intorno, e si pensa forse egoisticamente, a godere di quell’attimo di felicità tutto nostro che, si spera, essere eterno.