Sì, sì, è Roma la città nella quale andrò a studiare, è così bella, ogni angolo ha una storia, ogni monumento un fascino del tutto particolare, ma so bene che queste sono solo scuse. Perché Roma? Perché è una città enorme, multirazziale, abitata da gente d’ogni varietà, ricca di locali e divertimento, ce n’è per tutti i gusti. Ecco spiegato il vero motivo. E non è poco considerando il fatto che vivendo in una piccola città ne ho abbastanza della solita gente, i soliti posti.
Fin da piccola ho sempre lasciato spazio al divertimento, alle uscite serali, agli amici. Al liceo non ero la prima della classe, però me la cavavo anche perché non dedicavo tutto il mio tempo allo studio, mi piaceva fare altre cose, coltivare altri interessi.
Ogni tanto mi saltava in mente di iniziare qualcosa. Ricordo quando volevo che mio padre comperasse a tutti i costi il pianoforte prima ancora che incominciassi a prendere le lezioni di musica, chissà forse affascinata dai grandi musicisti o più probabile credevo di diventare una piccola Mozart o Chopin. Avrei voluto stupire il mondo intero con la melodia delle mie note. Mi dà gioia sentire rimbombare l’intera costruzione fra un diesis e un bemolle.
Dopo un paio d’anni mi sono stancata. Andare in piscina a palla a volo, studiare pianoforte stava divenendo troppo impegnativo, quasi non avevo più tempo per me! No, non era più possibile, così decisi di abbandonare la musica.
Quando penso alla mia infanzia riconosco che poche persone hanno trascorso anni così indimenticabili, pieni e gioiosi.
Povero papà, quando non avevo ancora diciotto anni, e allora come ora, adoravo ballare, mi piaceva la gente, la confusione, la musica e lui era costretto a venirmi a prendere dalle feste a tarda notte. Mi vergognavo per il fatto che un papà troppo premuroso (allora pensavo rompiscatole) era sempre lì presente, adesso riconosco i sacrifici che faceva pur di essere tranquillo e non lasciarmi tornare con ragazzi più grandi e che non conosceva.
Fortunatamente i miei genitori hanno sempre lasciato che vivessi la mia vita, intervenendo solo in caso di ammonizioni, come fanno gli arbitri in silenzio, con quei calzettoni neri e sotto la pioggia, lì, in un angolo, guardinghi e vigili di ogni particolare ma raramente vietandomi di vivere a pieno la mia adolescenza. Hanno sempre avuto molta fiducia in me perché non c’è mai stato bisogno di mentire su ciò che faccio, dove o con chi esco.
Mi conoscono e sanno che non riesco a dare il meglio di me se non mi diverto e non esco.
Fuori s’incontra tanta di quella gente, sta a te scegliere con chi vale la pena socializzare e chi invece è bene che resti solo un conoscente.
Conoscere gente nuova mi permette di crescere e relazionarmi col mondo esterno. Intuire ciò che pensano e come vivono gli altri è un modo per mettermi in discussine, per pensare, per confrontarmi con la realtà che mi circonda.
Finalmente… è arrivata la tanto agognata patente insieme ai desiderati diciotto anni.
Per questa data così importante ho dato una festa enorme in discoteca, con tantissimi invitati. Ragazzi che non avevo mai visto prima si avvicinavano per baciarmi e darmi gli auguri. Poggiavano le guance sudate sulle mie. Ma non gli fregava un fico secco del mio compleanno. Erano lì, in mezzo la pista a scatenarsi sudati persi.
I miei insistevano per una festicciola intima, solo gli amici più cari ma io ho sempre amato le cose in grande. Prima, ora non più.
Camminavo con le chanelle nere. Mi reggevo a mala pena su quei trampoli, oscillavo fra la gente, fra quelle facce sfatte dal sudore e dalla musica troppo alta. Mi sembravano tutti sconosciuti, zombi, pali dritti senza anima.
Mio padre mi seguiva dappertutto immortalando istanti e pensieri irripetibili. Ognuno mi ha donato qualcosa che potessi portare con me e farmi ricordare di quella determinata persona, ma il regalo più prezioso è stato un orologio antico, introvabile, regalatomi dai miei genitori, al quale mio padre, appassionato di orologi è molto legato. Da allora lo porto sempre con me, non me ne sono mai separata (tranne quando mi è stato portato via) perché ha per me un enorme valore affettivo.
È un orologio da tasca che il mio papi mi ha donato perché anch’io ho una forte passione per questi oggetti. Non è né piccolo né grande ma pesante, una volta in mano si percepisce la sua grandezza, la sua sontuosità, la sua irrevocabile storia per cui darei non so cosa per poterla scoprire. È molto antico, fu acquistato da mio padre da un gioielliere polacco o russo- non ricordo bene- alcuni anni fa, quando aveva un debole per la Polonia.
Mio padre adora della Polonia le sue distese enormi incontaminate, i monti Carpazi innevati anche in piena estate, quelle casette in miniatura, i cui tetti scivolano fino a terra, tutte in legno che nonostante il freddo pazzesco danno un senso di caldo tepore. Appena entri in queste casine si sente un profumo intenso di legno misto a quello di moquettes, le pareti impregnate di un odore di cipolla e rapa rossa. Sono costruite interamente in legno, per assicurare caldo a queste popolazioni. Sono così accoglienti, ci sono delle scalette ripide e strette che portano ai piani superiori anch’esse rivestite di moquettes che fanno un rumore sordo quando vengono calpestate. In genere, le persone del posto si tolgono le scarpe per accedere in casa e sarebbe buona educazione che chiunque lo facesse. Le finestre sono adornate in ogni periodo dell’anno da luci colorate come quelle che noi esponiamo nel periodo natalizio. Attraversare nella notte questo luna park è piacevole. Una cosa particolare è che il colore della luce dei neon all’interno va dall’azzurro al viola al rosso. Non i soliti colori, e, le tende sono appese da metà finestra.
Ricordo una delle prime volte che andavamo in Polonia, nell’entrare in una casa ci siamo dovuti togliere le scarpe, io ero una bambina e avevo vergogna, non capivo perché dovevo restare a piedi nudi, visto che non lo avevo mai fatto. E se poi mi puzzano i piedi? Che vergogna!
Le strade sono strette strette quasi sempre bagnate, visto che piove spesso e l’odore tipico della pioggia che cade sull’asfalto si mescola a quello del fumo dei comignoli, l’aria assume un particolare sapore secco dato dal carbone che usano questi popoli come combustibile. Il riscaldamento è sempre acceso anche perché è lo stato a fornirlo, visto che in altro modo morirebbero di freddo.
Le persone fanno file chilometriche per un pezzo di formaggio e quattro o cinque spaghetti lunghi un metro. Sembra passato un uragano a spazzare via i prodotti sui miseri scaffali.
I vicoli sono pieni di negozietti, ma in particolare di gioiellerie- se così vogliamo chiamarle, non hanno nulla a che vedere con le nostre. Le vetrine sono pienissime di chincaglieria accozzata, ma guardando attentamente si riesce anche a trovare qualcosa di carino.
Mio padre ormai li conosce tutti questi omini che cercano di vendere a tutti i costi ai turisti, ma in particolare gli hanno segnalato un vero gioielliere che, su ordinazione, procura gioielli splendidi, ed è proprio qui che mio padre ha acquistato fra le altre cose molti orologi da tasca antichi.
Uno in particolare mi affascina di questi orologi, troppo prezioso per cadere nelle mie mani, mio padre addirittura mi chiama Attila. Passo io e tutto appassisce, tutto muore e forse è proprio così.
E il giorno del mio diciottesimo compleanno ricevendo in dono quell’orologio tanto desiderato da tempo, mi sono sentita felicissima a parte per il dono, ma anche perché avevo la piena fiducia dei miei e questa è la cosa fondamentale. Ormai papà mi considera abbastanza grande da affidarmi le cose a cui tiene di più.
L’orologio è diventato parte di me. Una volta, mentre lo stavo pulendo e lucidando per benino- altrimenti papi chi se lo sente- mi rendo conto che si muove qualcosa nella parte inferiore. Lo scuoto con delicatezza e all’improvviso, senza che faccia nulla si apre uno sportellino sottilissimo che riveste la parte sottostante.
Lì per lì non ci faccio caso, lo richiudo senza nemmeno pensarci o indagare il perché. Non ho più pensato a questo particolare per molto tempo.
Che pizza, non ho proprio voglia di studiare glottologia, mi sento una scema quando ripeto certi suoni strani. Fra fricative e glottidali afferro l’orologio sul comodino e mentre ripeto inizio a maneggiarlo distrattamente. Sollevando lo sportellino superiore, appare il quadrante dal fondo bianco. I numeri sono cardinali, neri, distanziati gli uni dagli altri da cinque piccoli puntini dorati, mentre ciascun numero è determinato parallelamente da un rombo color argento, di poco più grande dei puntini. Sia punti che rombi sono in leggero rilievo rispetto alla superficie dell'orologio.
I puntini, più dei rombi creano, muovendo l'orologio, quasi fossero dei veri brillantini, un eccezionale scintillio, forse dato dal rilievo e dal contrasto rispetto al bianco della base.
Al centro c'è una protuberanza, dalla quale partono le lancette anch'esse d'oro.
Quella più corta che segna le ore ha la forma di una chiave, una di quelle chiavi antiche fatta di ghirigori che usava Catherine per aprire lo scrigno segreto dell’Abbazia.
La lancetta dei minuti ha una forma differente rispetto all'altra: fa pensare ad una spada lineare ed è lunga tanto da superare il limite determinato dal cerchio concentrico delineato dai puntini dorati. Quella delle ore sfiora a mala pena l'estremità interna dei numeri.
Le lancette al momento dell'acquisto erano ferme alle 4 e 42. Non so perché, mio padre ha lasciato le lancette fino ad ora, non ha mai provato a vedere se il meccanismo interno funzionasse, forse vuol lasciare l’orologio così com’è, col suo magico mistero. O chissà, probabilmente osservandolo pensa a cosa può essere accaduto in quel momento e perché ha smesso di camminare proprio a quell’ora: se si è fermato da solo, oppure qualcuno o qualche gesto sconsiderato ha voluto così.
Chissà se sono su quest'ora dal momento in cui hanno smesso di camminare quando l'orologio apparteneva ancora al padrone originario, o più semplicemente l'orefice le ha posizionate a caso.
Ma io voglio provare a vedere se l’orologio funziona, anche perché sarebbe più utile utilizzarlo per ciò a cui serve realmente.
Dandogli la corda le lancette iniziano il loro cammino, lento, inesorabile, seguendo il percorso del cerchio perfetto, e così la prima, la seconda, la terza volta, ripetendo il tragitto all'infinito fin quando la carica si esaurisce.
Noncuranti di ciò che gli accade intorno le lancette vanno, sempre avanti, senza voltarsi, senza preoccuparsi di nulla, per ore e ore, giorni e giorni lo stesso cerchio concentrico, lo stesso girotondo infinito, rinviando alla transitorietà di tutte le cose umane. Inseguono il tempo senza fermarsi, continuano la loro corsa senza raggiungerlo.
Tic- tac, tic- tac, ti- tac. Come una cantilena, il loro moto parzialmente perpetuo, scandisce nella mente il trascorrere dei minuti, delle ore. Palpitano forti, testimoni di un tempo inafferrabile che se ne va. Il loro intenso e feroce movimento ci dice di sbrigarci, di agire, perché quest'attimo sta passando, e, il successivo mentre lo pensiamo è già trascorso.
Che cosa strana, impercettibile, inconsistente, inaccessibile, effimero il tempo eppure così presente e così spregiato. Il tempo che pone fine a tante cose così in fretta: alla giovinezza, alla spensieratezza, al divertimento, alla bellezza, ma lo stesso tempo che rende savi, maturi, che rimargina le ferite, il tempo che spazza via i cattivi pensieri, che rende la vera bellezza ancora più bella ed eterna. Il tempo così inconsistente eppure così tangibile.
L'impellente rumore così forte delle lancette fin quando la carica esaurisce e il rigore e la potenza dei battici cardiaci quasi coincidono, le une scandiscono il tempo della vita, gli altri la vita del tempo, il pulsare così forte, così potente che ci alimenta, che ci permette di ridere e di piangere, di respirare, di mangiare, di dormire, di arrabbiarci, di vivere.
E il desiderio che le lancette possano fermarsi in un particolare momento, un momento di felicità e di allegria. Il desiderio che il cuore possa sempre battere all'infinito con lo stesso vigore, la stessa frequenza e imperturbabilità delle lancette.
Esattamente al centro, lateralmente, verso la parte destra c'è una piccola maniglia che ruota attorno ad un pomello, serve innanzitutto a dare la corda all'orologio meccanico. L’ estremità è caratterizzata da un bottoncino che, pigiato, permette l'apertura dello sportello superiore, la cui superficie esterna ha in sé due cerchi concentrici: il più interno è più spesso, è di madreperla rossa. Questo cerchio manca di un pezzetto, che si direbbe sia stato consumato dal tempo e dall'uso.
Il cerchio esterno ha uno spessore leggermente più sottile ed è diviso in tanti segmenti tutti uguali alternativamente bianchi e blu, sempre di madreperla.
La parte inferiore è costituita da due sportellini. Quello più esterno ha un solo cerchio di madreperla bianca e blu. All'interno, proprio al centro c'è un simbolo: è una specie di semi-arco con due pennacchi all’estremità, sovrastato da due puntini, uno sull'altro, un solo puntino al di sotto.
Una volta aperto il primo sportellino ce n'è un secondo nella cui parte interna c'è scritto per inciso 'metal' e il codice dell'orologio. Bisogna fare una leggera pressione per aprirlo, questo è il coperchio che chiude la scatola meccanica e che protegge l'intero meccanismo dell'orologio.
Con un piccolo clic si apre anche questa porticina che lascia ammirare gli ingranaggi. Che splendore, di qualsiasi tipo, mi affascinano, sono costituiti da una serie di rotelline, fessure, aperture e bulloncini più piccoli e più grandi e, solo guardandoli ti fanno incrociare gli occhi. Le rotelle risaltano dal tutto perché sono d'argento, a differenza del resto che è color oro.
Muovendo l'intero orologio tutto resta al suo posto, tranne una rotella che si trova al terzo strato sottostante che, a differenza delle altre non è dentellata, all'interno è vuota, ci sono solo tre barrette che partono dal centro. Sembra la ruota di un carro e invece è la molla della corda. Le altre rotelle sono tutte costituite da piccoli denti i quali nelle due del primo strato, si incastrano perfettamente da un lato.
I vari strati degli ingranaggi si sovrappongono lasciando intravedere dalle fessure ciò che c'è sotto: altrettante rotelle e bulloncini.
S'incrociano gli occhi.
Ma come avranno fatto a costruire a mano un tale capolavoro? Questi ingranaggi vanno al di là del tempo, dello spazio. La mano e la mente che lo hanno creato forse neppure erano al corrente della loro straordinaria abilità.
Da un lato c'è una lastra dorata, sovrastata da un'ennesima rotellina, al centro della quale ci sono due lettere scolpite: R A, al centro delle quali vi è una freccia da spostare in base all’anticipo o posticipo dell’ora esatta.
M'incanto spesso ad osservare questo ingegnoso capolavoro. Chiunque l'abbia creato doveva avere sicuramente una grande passione, soprattutto considerando che non c'erano strumenti sofisticati come ora.
Ho provato a portarlo da un orologiaio di fiducia il quale mi ha detto che ha un valore inestimabile e di tenermelo caro.
Dalla maniglia laterale parte una catena lunga circa trentacinque centimetri che ha un gancio all'estremità ma senza chiusura, così ho deciso di farmela fare da un gioielliere. Lo porto infatti a mo’ di collana.
Al centro del quadrante c'è scritto Union Horlogère, ossia il nome della casa produttrice dell'orologio. Lo sportellino della parte inferiore si apre di nuovo e comincio ad osservarlo inconsciamente mentre ripeto, non c'è nulla, a che serve? perché l'orologiaio si è complicata la vita nel fare un altro sportellino se non serve a niente? Ad un certo punto mi accorgo con mia grande sorpresa che ci sono delle cifre incise minuscole tanto che non riesco a leggere.
Si leggono a mala pena solo due iniziali: K.M., il resto non riesco a decifrarlo.
Mentre sono là intenta vengo assalita da un brivido che mi percorre tutto il corpo, l’eccitante scoperta mi fa iniziare a sognare ad occhi aperti.
Chissà qual è il mistero di quest’orologio, chi era il proprietario, da dove viene, ero e sono conscia che non scoprirò mai il segreto o i segreti che avvolgono quest’oggetto per me così prezioso e ora ancora di più. Forse è proprio questo velo di mistero a renderlo così raro.
Era forse di un uomo ricchissimo, di un medico, o piuttosto di un avvocato? Sì, si addice di più ad un uomo di legge, vestito col panciotto, casomai un po’ paffutello, con la testa bianca e con due bei baffoni all'insù.
Oppure era l'unica ricchezza di qualche pover'uomo che aveva trovato per caso, o un regalo? Non lo saprò mai.
Mi sento come una bimba alla quale hanno regalato i suoi dolcetti preferiti, non vedo l’ora di tornare a casa per dirlo a mio padre e riuscire finalmente a decifrare quelle misteriose iniziali e segni, visto che non posso associargli alcunché.
Ancora non termino di spiegargli il tutto che si presenta con una lente d’ingrandimento e inizia ad ispezionare l’orologio minuziosamente in ogni angolo. Smette, lo tiene stretto al petto e inizia a pensare con lo sguardo perso nel vuoto. Un bagliore evidentissimo brilla nei suoi occhi, come chi ha appena fatto una scoperta strepitosa.
So che in questi momenti è meglio lasciar stare papà, non chiedere troppe spiegazioni per non farlo innervosire e aspettare che sia lui a parlare.
Dopo essere trascorsa una mezz’ora di verifiche, perlustrazioni, spostamenti mi chiede di prendere dei libri sull’olocausto di Auschwitz che comprammo anni fa in uno degli ultimi viaggi in Polonia.
Inizia a scartabellare prima i libri, uno per uno, con molta attenzione e dopo si sofferma su un opuscolo sul quale sono riportate tutte le foto delle persone che erano state deportate nel campo di concentramento di Auschwitz. Come le foto segnaletiche dei criminali. I deportati, uomini, donne e bambini sono fotografati tre volte. La prima foto raffigura il profilo destro, la seconda ritrae i volti frontalmente con le teste debitamente rasate, nella terza i deportati sono leggermente voltati mostrando il loro profilo sinistro e hanno un copricapo, di qualsiasi tipo: baschi e cappelli vari gli uomini, fazzoletti annodati al collo le donne.
Papà gira una pagina per volta, lentamente, osserva ben bene ogni singola foto, ma in particolare il suo sguardo si sofferma sul numero di deportazione che doveva sostituire il cognome divenendo così l'unico segno d'identificazione che ogni persona ha sul petto, su quella specie di pigiama a strisce che sembra essere quello dei detenuti, o almeno come noi li immaginiamo e li vediamo nei film, nella nostra immaginazione o quant’altro. Col tempo venne introdotta l'usanza di tatuare il numero sull'avambraccio sinistro di ogni prigioniero per prevenire le evasioni dei detenuti dal campo e facilitare, se catturati, la loro identificazione.
Hanno tutti dei volti così tristi, sconsolati, lo sguardo è assente perché non c'è nulla che possa dargli una ragione per vivere, hanno invece tanti motivi per morire. Sanno che la loro fine è vicina, vicinissima, e forse non vedono l'ora, almeno la smetteranno di soffrire così.
Quella mattina di agosto partimmo all’alba per la Polonia. Un viaggio lunghissimo per me che avevo dieci anni e mio fratello ancor più piccolo di me. Faceva caldo ma in macchina c’era l’aria condizionata, avevamo sete, in macchina c’era l’acqua ma non andava bene, non era abbastanza fresca allora mio padre si fermava sull’ autogrill per farci prendere ciò di cui avevamo bisogno e, si sa come sono i bambini quando vedono caramelle, cioccolate e quant’altro.
Ripartivamo, le cassette erano sempre le stesse, ascoltate e riascoltate, allora con molta pazienza papà si fermava di nuovo per comperarne altre dei nostri cantanti preferiti. Io e mio fratello non avevamo pace, bisticciavamo per qualche centimetro di spazio per allungarci comodamente nel sedile.
Dopo cinque minuti qualcuno di noi non ce la faceva a trattenere il bisognino, ed ecco che mio padre pazientemente doveva fermarsi ancora.
Verso sera, iniziava a fare freschetto, e in un baleno erano pronti plaid e cuscini per dormire più comodamente. Certo, un viaggio lungo ma ogni comodità ce lo rendeva piacevole e comunque, meno pesante.
Avevamo la più pallida idea di come erano costretti a viaggiare quegli uomini donne e bambini, che ammassati da giorni nei treni merce riempiti all’inverosimile venivano rinchiusi senz’acqua e negli escrementi?
La cosa più grave è l’indifferenza che ha visto questa gente negli altri. Alle stazioni, dove ci si fermava non certo per rinfrescarsi o mettere qualcosa sotto i denti, ma per far salire altri ‘disgraziati’ ignari, nessuno che li degnava di uno sguardo.
Tutto nell’indifferenza.