Sono riuscita a sostenere con successo l’esame scritto d’inglese, l’orale avrei dovuto sostenerlo proprio il 15 settembre, giorno in cui ho subito l’intervento.
Durante questi pochi secondi mi è accaduta una cosa……ma riflettendo bene è meglio che non la dica, potrei essere presa per una matta!
Il colore vermiglio e quell’odore mai abbandoneranno la mia vista, mai libereranno l’olfatto.
“Mi perdoni signora” continuo a gridare fra le lacrime con un filo di voce alla mamma della ragazza mentre mi stringe il collo con le mani.
Non riesco più a respirare mentre ho di fronte il suo volto sconvolto. Lo sguardo è quello di un avvoltoio che ha già puntato la preda e attacca, fiutandola, afferrandola con gli artigli e poi indugia, per scegliere il punto migliore da attaccare per primo. La preda stordita dal violento impatto e non preparata a ciò che le sta succedendo resta inebetita perché sa che a nulla vale opporsi. Ormai è spacciata e resta lì, inerme aspettando che accada il peggio.
No, non vuole strangolarmi, è solo un modo per sfogarsi contro l’assassina della figlia.
Scura di carnagione, vestita di bianco, con gli occhi increduli mi fissa con odio e disprezzo mentre grida: “ma cos’ hai fatto? Cos’ hai fatto a mia figlia?” Poi corre da lei ormai esanime, l’abbraccia stringendola al petto e tutto l’amore verso la sua creatura è odio feroce contro di me.
Corre ancora verso di me, e ancora mi stringe il collo, io non ho più forza per liberarmi, per poter reagire in qualche modo, perché so che è legittimo, è umano e forse chissà, spero in fondo al cuore che nessuno la blocchi, e il mio respiro si affanna sempre di più e più io mi allontano e più lei mi stringe forte. Inveisce disprezzandomi e gridando cose terribili mentre ormai le sue mani insanguinate mi impediscono totalmente il respiro. Il sangue che ricopre entrambe mi fa pensare che è finita, è finita per sempre.
Ma la seconda tragedia è stata evitata da una donna il cui volto mi resterà sempre in mente. Lei mi ha salvata, mi ha abbracciata amorevolmente con comprensione e allo stesso tempo compassione e pena.
Ancora non ringrazio di persona quella donna, mai l’ ho cercata ma ogni giorno le sono grata. Ora voglio solo dimenticare. Andare alla ricerca ora, di questa persona significherebbe rivivere un inferno, che voglio rimanga negli inferi.
Non si intimorisce di abbracciarmi benché il sangue ricopra la maggior parte del mio corpo. Il suo calore, pur se di un’estranea che per caso assiste al mio dolore e alla mia tragedia, è riuscito a darmi un minimo di forza in quel momento tanto tragico, il più drammatico della mia vita, o almeno spero che sia così, perché tutto al confronto sarebbe poca cosa.
Sono accerchiata da tanta gente, perfetti estranei, che accorrono incuriositi, ma nessuno ha il coraggio di avvicinarsi, né i semplici curiosi, né chi è spinto da spirito umanitario. È troppo per qualsiasi cuore, per qualsiasi occhio. Non vogliono sporcarsi di questa tragedia.
Il gladiatore che sopravvissuto alle fiere resta nel mezzo dell’arena, prova sollievo per essere ancora in vita ma è solo. Solo, benché venga acclamato da tutti i curiosi accorsi solo per partecipare allo straziante spettacolo. Lui afferra una manciata di terra come buon auspicio prima d’iniziare la lotta. Io prendo a calci tutto ciò che ho intorno. Il guardrail che non era dove doveva essere. Se ci fosse stato mi avrebbe impedito di finire nella scarpata, la terra sulla quale sosto, l’aria soffocante, i testimoni indifferenti della mia assurda, angosciosa tragedia.
È solo. Come me.
Sola.
E le belve inferocite non aspettano altro che attaccarmi, afferrarmi, sbranarmi. E' tremendo essere soli in un tale momento.
“Non mi abbandonare papà, papino mio corri ti prego vieni da me, corri, corri”, questo ho gridato al mio papà per telefono, dopo che un uomo ebbe chiamato a casa.
La sirena dell’ambulanza è talmente forte che mi rimbomba nella testa e si unisce a quella della Polizia Stradale e quelle dei vigili del fuoco, ai motori disperati dell’elicottero, alle macchine della gente che accorre, alle urla tutt’intorno e ai battiti del cuore, uno dopo l’altro e ognuno sembra l’ultimo. I secondi sono infiniti, i minuti divengono eternità.
Sono stesa sulla barella dell’ambulanza, il lenzuolo candido diventa sudicio tamponando le mie lacrime mescolate al sangue che continua a venir giù senza tregua.
La dottoressa segnala per radio le mie condizioni.
“Margherita anni 23, nata il …. Deceduta”
Oddio, la mia stessa età.
Il tragitto verso l'ospedale è stato il più lungo, tragicamente drammatico della mia vita.
Sono qui. Immobile. Con gli occhi fissi davanti a me, solo vuoto riesco a vedere. Un abisso buio, un vortice, i cui cerchi concentrici si alternano, neri e rossi.
Non vedo nient'altro, penso solo a come avrei fatto e a come sarebbe proseguita la mia vita.
Voglio morire anch’io. Maledico il Signore per essere ancora in vita, non lo merito.
Solo in ospedale, mentre sono stesa sulla gelida lastra di ghiaccio in reparto radiologia vedo i miei genitori.
Come un cardellino piccolo e spaurito, ferito e moribondo che rischia di essere attaccato da tutti gli animali intorno a lui, solo aspetta la mamma che gli porti da mangiare per sopravvivere, e solo, nel vederla si carica di forza vitale, allo stesso modo un caldo abbraccio serve a darmi un po’ di sostegno. Affondo il viso nel loro petto. Le loro carezze mi soffocano il respiro, mi asciugano le lacrime.
“Tesoro, non preoccuparti, andrà tutto bene, perché ora ci siamo noi”.
Brevi parole, ma cariche di un amore e un affetto senza misura mi rimettono in vita, permettono al respiro da tempo trattenuto di fuoriuscire di nuovo.
Dio solo sa cosa avrei fatto per evitargli un simile dolore. Forse se fossi morta il tormento sarebbe stato minore.
Provo vergogna, rabbia e tanto, tanto dolore causato soprattutto dalle ferite del cuore, un cuore troppo giovane e inesperto a tali sofferenze sovrumane.
Solo adesso si fa sentire il dolore fisico, finora sopraffatto da una maggiore sofferenza.
In volto sono un mostro, irriconoscibile, ho ferite e tagli dappertutto. In bocca ho solo il sapore dolciastro del sangue. Non capisco come il sangue possa avere questo sapore visto che scaturisce comunque da qualche ferita più o meno profonda.
Chissà qual era il colore originario della camicia ora imbrattata completamente e il sangue la fa aderire fasciandomi il ventre e il petto.
Dei pantaloni non è rimasta traccia, se non qualche brandello appiccicato alla pelle sudicia di terriccio e polvere, che il sangue ha reso un tutt’uno con la carne viva.
“Dove ti fa male?” Chiede la dottoressa. E’ difficile darle una risposta esatta, perché tutto è infinito dolore.
Il caldo abbraccio dei miei genitori placa leggermente l’atroce sofferenza.
“Morire a ventitré anni mentre si fa un bisogno fisiologico sul bordo dell’autostrada. Venire travolti da un’auto all’improvviso…neanche il più fantasioso degli sceneggiatori cinematografici avrebbe potuto inventare una morte così imprevedibile e beffarda”.
Che incubo sconvolgente penso sollevando la nuca dal cuscino e apprestandomi a scendere dal letto per lasciarmi alle spalle ciò che avevo poc’anzi sognato, ma un dolore lancinante mi impedisce ogni movimento, la gamba non permette di muovermi.
Mi guardo attorno e mi accorgo che non sono sola, altre persone si trovano nella stanza destinate a condividere con me non so quale drammatico evento.
Dalla finestra si vedono altre finestre tutte uguali dalle quali si intravedono persone tutte uguali, dai cui volti si scorge solo dolore, sofferenza , volti tristi di cui le rughe ormai hanno preso l’andamento della sofferenza, volti che si direbbe non ridano da tempo.
Quel rumore, è un rumore di morte. Sono in un abisso, sono precipitata giù, dove più in basso non c’è nulla.
Mi sento soffocare.
Voglio gridare.
Voglio che qualcuno mi salvi.
Sono in un cunicolo buio, dove non si vede il minimo spiraglio di luce e io inizio ad agitarmi, a battere con tutta la forza della disperazione le mani e la testa contro le pareti spesse.
Intorno non vedo altro che sangue, le mie mani sono ferite, mi agito per liberarmi ma niente.
Incomincio a calciare contro il muro gridando, ma quegli stessi calci che avrebbero sfondato una porta e fatto franare un muro a nulla servono.
Questo rumore mi sta facendo diventare matta, le barelle corrono lungo il corridoio cupo, vanno e vengono per tutto il giorno, con quel rumore insopportabile.
Il rumore stridente fa una tappa.
Non so in quale stazione si sia fermata questa maledetta barella che da oggi non la smette di solcare il pavimento con le pesanti rotelle.
Spero si sia fermata per sempre, che non ci siano persone da far salire, perché questo treno non porta da nessuna parte, in nessun luogo ameno.
Da questa stanza maledetta, voglio andarmene, non ce la faccio più.
Ovunque mi volto vedo lacerante depressione, sofferenza, gente che si lamenta e quel breve attimo che riesco a prender sonno c’è qualche rompi balle che piagnucola. Arrivano le 21 e la situazione si fa ancor più tragica, tutti gli amici vanno via, ti lasciano alle tue sofferenze, alla tua solitudine dopo essersi messi a posto la coscienza facendoti una visita.
Piomba il buio più tetro, il silenzio più lugubre, iniziano ad elevarsi lamenti d’oltretomba.
Metto la testa giù, sotto il cuscino e piango, piango.
I singhiozzi che vengono tamponati dal cuscino so bene che fanno male al mio angelo che mi è sempre accanto, ma non riesco a bloccarli, si fanno sempre più acuti, più sofferenti.
Avessi il coraggio di porre fine per sempre a questi singhiozzi amari.
Mi alzo a stento, il dolore è lancinante, mi trascino con le stampelle noncurante del rumore che faccio o se sveglio qualcuno, tanto non disturberei un bel sogno.
Arrivo in corridoio, guardo dall’enorme vetrata la città distesa che dorme senza pensieri, placida, tranquilla; piena di luci e di colori scintillanti. Sono i fari delle auto, le luci delle strade e delle case che brillano nel cuore della notte.
Le invidio quelle persone che non hanno nulla a cui pensare, che dormono serene. Il loro non è un letto di spine. E più ti sposti per evitarle, per far sì che non si conficchino completamente, più le senti ispide. Il bruciore, il lacerante e continuo dolore non passa, è sempre più forte, sempre più intenso.
Io sono qui e guardo il tutto come una perfetta estranea, a cui non appartengono più queste luci e questi colori, cui tutto ciò che le accadrà non avrà più alcun valore, perché sono priva di un’anima, priva di un cuore, mi hanno annientata l’una e strappato l’altro.
Faccio strani pensieri ed ecco che ancora una volta viene il mio angelo a salvarmi, mi accarezza, mi abbraccia, mi guarda come solo l’amore di una mamma sa fare.
Mi stringe forte forte al petto e io piango, singhiozzo come una bambina, lo stringo, mi stringe, io le grido parole che fanno male, parole cattive dettate dalla disperazione, ma lui continua a stringermi e mi avvolge con un caldo abbraccio. Mi protegge e dice che andrà tutto bene e che tutto passerà, la cosa che conta è che io sia qui, che sia viva, devo ritenermi fortunata anche del fatto di stare qui a soffrire. Le lacrime e i singhiozzi si fermano sulle sue dolci spalle che mi avvolgono teneramente.
Mi accarezza, mi consola con la sua dolcezza.
Smetto di piangere pur continuando un lamento lacerante, ma subito dopo ricomincio. Quelle immagini sono scolpite e così nitide nella mia mente.
Grido talmente forte che accorre un’infermiera dal fondo del corridoio. Comincia ad inveire contro di me dicendo che è molto tardi e se continuo così sveglierò tutti, ovvio, poi sarebbe stata lei a dover restare sveglia per accudire i malati.
Piango perché sarebbe stato meglio non essere sopravvissuta, o meglio non essere mai venuta al mondo. Se vivere significa dover affrontare tali sofferenze preferisco la morte, una morte dolorosa, lenta o una morte improvvisa, fa lo stesso voglio solo la fine, almeno avrò un po’ di pace e di tranquillità, forse non dovrò più soffrire.
Se a soli ventitré anni devo affrontare una simile sofferenza immagino cosa sarà dopo la vita.
Meglio allora farla finita subito, immediatamente.
Ma non posso muovermi da sola, ho bisogno d’aiuto per qualsiasi cosa, qualunque movimento. I miei genitori non mi lasciano mai sola. Sono sempre al mio capezzale dal mattino presto fino alla sera. Mia madre dorme addirittura con me.
I primi due giorni li passo in una cameraccia enorme, ci sono quattro letti compreso il mio. Non ce la faccio più a sentire estranei che mi vengono accanto per chiedere cos’ho fatto, cosa mi è successo.
Ma perché non pensate ai fattacci vostri?
In questo stanzone mi sembra di soffocare, non voglio che perfetti estranei mi guardino e capiscano. Voglio essere sola col mio dolore.
Mio padre mi fa cambiare posto, ora sono da sola, la stanza è leggermente più accogliente, nel limite ovviamente per una camera d’ ospedale.
C’è il mio letto e accanto ce n’è un altro, qui si riposerà la mia mamma, il pensiero di avere lei sempre vicino mi allevia la sofferenza e mi fa stare più tranquilla, protetta. Sì, protetta, perché ho paura, tanta paura che quelle persone possano sfogarsi su di me, che mi facciano del male come io ne ho fatto loro, immagino anche ciò che potrebbe succedere. Entrerebbero nella mia stanza chiedendo se sono io l’assassina e dopo giù botte, sono certa che mi pesterebbero a sangue, vorrebbero sentirmi piangere e disperare proprio ciò che io ho fatto con loro.
Mi sevizierebbero e mi lascerebbero qua, esanime per farmi morire a poco a poco, o forse mi strangolerebbero dopo avermi massacrata.
Chissà quanti ne sarebbero venuti, ma ognuno mi avrebbe picchiata e insultata; o magari mi avrebbero legata al letto e bruciata dappertutto con i mozziconi di sigaretta per poi puntarmi una pistola alla tempia e lasciarmi in un lago di sangue. Oppure mi avrebbero strappato il cuore a freddo, a morsi.
Durante la notte non chiudo mai gli occhi, ho paura di non svegliarmi più, paura che qualcuno possa fare del male non a me, perché io ormai ci sono o no fa lo stesso. Temo che possano vendicarsi sulla mia famiglia e sulle persone a cui voglio bene, allora sì che ne morirei.
Fino a quando c’è mio padre sono tranquilla, sento che nulla può succedermi, mi sento leggera, riesce perfino a farmi sorridere, ma quando lui va via, perché dopo una certa ora non si può più stare, cado nello sconforto, mi trovo di nuovo sola a pensare, a rimuginare.
In questa tragica situazione ho scoperto quanto bene mi voglia il mio papà.
Lui è un po’ burbero a vedersi, non parla molto se non gli si dà confidenza o non si conquista la sua fiducia, ma è un papà buonissimo, mi ha sempre accontentata in tutto senza che gli abbia mai dovuto chiedere nulla, riesce sempre a capire le mie esigenze o le mie richieste. Basta un semplice sguardo per capirci.
I suoi abbracci sono la sola cosa che mi sostiene e mi dà coraggio, mi fanno sentire protetta, come se, finché c’è lui nessuno possa farmi del male.
Fino a questo momento non mi aveva mai detto ciò che provava, i suoi sentimenti verso di me. Sono sua figlia ed è logico che mi voglia bene; però per lui sono i fatti quelli che contano, non le parole.
Infatti nulla da dire sul mio papi, mi permette sempre tutto, addirittura previene le mie richieste.
Spesso mi lamento perché non parla molto, non esprime ciò che prova e si tiene tutto dentro, pretende che gli altri capiscano al volo ciò che vuole, come la pensa, ma è impossibile.
La cosa migliore è quella di parlare, esprimere ciò che si ha dentro, in caso contrario molte cose potrebbero essere fraintese.
In quanti casi persone litigate da anni per cause insignificanti tornano a far pace e si scopre che non sarebbe mai accaduto nulla se ci si fosse spiegati chiaramente prima. Questo suo modo di essere introverso e non spiegarsi chiaramente è la sola cosa che non sopporto di lui, per il resto è perfetto. È il mio papo adorato e me le dà tutte vinte, mi concede qualsiasi cosa.
Io e lui siamo due gocce d’acqua, ci somigliamo in tutto e per tutto. Entrambi testoni, orgogliosi, vogliamo sempre aver ragione, non sopportiamo le sconfitte, ma contrariamente a lui sono molto aperta, dico sempre quello che penso, talvolta manco anche di delicatezza, ma sono fatta così.
È stato in questo orrendo frangente che mio padre, con gli occhi lucidi, per la prima volta mi ha detto: “ti voglio bene”. Piangevo come una bimba, di gioia, perché so che per lui esprimere i propri sentimenti è molto difficile, non c’è mai stato abituato.
Ne sono stata felicissima, non che non lo sapessi, o che avessi qualche dubbio; ma per me ha significato tanto.
So che conta tutto ciò che lui ha sempre fatto e che continua a fare per me, ma è importante a volte sentirsi dire queste cose.
Quante persone mi vogliono bene. Il mio fratellino è un tesoro, non mi lascia un attimo, cerca di farsi vedere forte, ma gli si legge in faccia che è molto preoccupato, farebbe di tutto per me.
I miei nonni, vengono ogni giorno, mi portano da mangiare i miei piatti preferiti. Ma nulla serve a farmi stare meglio.
Vedere i miei apparentemente tranquilli ma con il magone in gola tanto da non riuscire neppure a parlare è deleterio. Hanno sempre gli occhi gonfi, perché sicuramente gli unici momenti in cui non piangono è quando sono da me.
La cosa peggiore è che nessuno può dire o far niente per cambiare le cose, anzi, molte persone con le loro cantilene e deduzioni scontate peggiorano la situazione. Sto lì ad ascoltarle raccontare di altri incidenti: “sai lo stesso è successo a..” oppure l’espressione più stupida che abbia mai sentito “mi dispiace non auguro questa cosa neppure ad un cane”, mentre non vedo l’ora che la piantino e mi lascino in pace, non ho bisogno del loro falso conforto.
Sono tali espressioni e i discorsi di queste persone che invece di aiutarmi mi fanno sprofondare ancora più giù.
E mentre parlano e stanno lì a commiserarmi, non vedo l’ora che vadano via e non tornino più, io non ho bisogno di loro. Ci sono invece altre persone che non dicono nulla, perché si rendono conto che è difficile, ma il loro sorriso e il loro abbraccio è più utile di qualsiasi altra medicina.
Poi, arriva la sera, ognuno torna alla propria vita e io resto sola. Mai completamente, perché c’è sempre la mia mammina e benché io le continui a ripetere di andare a dormire a casa perché io non ho bisogno di nulla, lei è sempre con me.
Al mattino presto, proprio appena riesco a prendere sonno vengo svegliata dall’infermiera che non riesce a trovare più un buco per l’ennesima l’iniezione.
Una per il dolore, una per farmi stare tranquilla, l’altra contro le infezioni.
Ci sono alcune infermiere che mi toccano con delicatezza, sono premurose, altre che si comportano come se stessero spostando un sacco di patate, non si rendono conto che sei lì mezza rotta e ti fa male tutto, o peggio ancora lo sanno ma non gli interessa minimamente.
La mia infermiera preferita è Candy Candy. La chiamo così perché è davvero spinta da spirito umanitario. La naturale predisposizione lascia trasparire la sua bontà e comprensione. Ecco la differenza tra il dovere e il piacere, la volontà, la passione verso qualcosa. Questo poi è un lavoro molto particolare che non può assolutamente fare chiunque. Per di più questa ragazza è una volontaria non ancora infermiera.
Alle 8,00 arriva la colazione, la stessa tazzona di latte-caffè sciacquato o tè, con le solite due fette biscottate e mentre immergo la fetta penso che questo sapore insulso avrà la mia vita d’ora in avanti.
Ma dopo un po’ arriva la mia mamma e mi porta un buon cappuccino e un cornetto con la nutella e già mi sento meglio, sembra che la giornata sia più dolce.
Incomincia un altro patetico e interminabile giorno qui dentro, dentro questo maledettissimo ospedale, dentro questa orribile stanza.
Ogni tanto passa qualcuno con lo sguardo smarrito, cercando la persona a cui bisogna far visita, facendo capolino in ogni camera. Non è raro che venga riconosciuta, e allora mi chiedono:
“che ci fai qui, cosa ti è successo, nulla di grave spero”.
Non so se fingono o se non sanno realmente ciò che mi è accaduto.
Io non rispondo, faccio solo un sorrisetto e svio il discorso. Altre volte passano persone che conosco e mi dicono ciò che è successo loro, non si accorgono nemmeno che io anche sono là. I loro guai hanno ovviamente la precedenza.
Una ragazza che va a trovare la madre, cui le hanno appena diagnosticato un tumore, altre persone conosciute che hanno i propri cari molto malati, o allo stato terminale, di cui non ne sapevo nulla. Allora mi rendo conto che non sono la sola a soffrire.
Siamo tutti accomunati da questa o da quella tragica sofferenza.
Dalla porta aperta riesco a vedere una buona parte del corridoio con i relativi loculi.
Hanno tutti la stessa uniforme, la stessa espressione sconfortata, vagano nelle oscure stanze che questo tenue raggio di sole non riesce a riscaldare, e chissà se mai lo farà.
Siamo tutti fantasmi, spiriti che non possiamo trovare un corpo nel quale rifugiarci perché per nessun cambio varrebbe la pena.
Guance solcate da lacrime appuntite. Occhiaie scavate da notti e giorni insonni e lamentosi.
Da queste vetrate un’unica desolante raccapricciante visione. La scatola quadrata è una prigione che intrappola in pensieri sconvolgenti, dove i prigionieri aspettano solo l’ora dell’inevitabile verdetto. Una gabbia nella quale le bestie aspettano di essere trucidate. I letti tutti uguali nei quali riposare le stanche membra che mai avranno pace. E che mai avranno tregua dalla tribolazione.
Un’infermiera appena entrata e l’odore tipico mi danno la certezza che non sono nella mia camera, questa donna, nelle vesti femminili di Caronte non parla mai, né sorride, perché sa che ognuno entrato ha lasciato ogni speranza. I roghi ardenti non aspettano che noi.
Piangere giorno e notte sapendo che nulla e nessuno potrà farti sentire meglio, pensare che la tua vita è finita ed il sole che ti guarda commiserevole dall’enorme vetrata è per te buio assoluto.
Il cuore batte ma privo d’energia vitale, solo rabbia, la voglia di sapere il perché, di correre, di volersela prendere con tutti, di gridare, di prendere a calci il mondo intero di prendere a testate il muro fino ad essere stremati.
I battiti sembrano segnare una lunga, interminabile fine per colei che è sopravvissuta, il nulla eterno, la pace per una vita stroncata.
Il destino, il fato che prima negavo, ora maledico. La consapevolezza di non essere più una persona normale, se così si può definire chiunque viva un’esistenza tranquilla e serena, colpita anche da lutti ma che inevitabilmente devono susseguirsi.
La mia voglia di vivere, l’esuberanza, l’energia, si sono annientate insieme all’altra anima, stroncata per sempre.