Come trovare, dove cercare un raggio di luce là dove non c’è più vita?
Ero dell’idea che il destino e il fato venissero considerati solo dalle persone più deboli che non avendo il coraggio di affrontare determinate situazioni si creassero un alibi, perché sostanzialmente ognuno di noi è artefice del proprio destino.
Ma che dite? Inveivo contro coloro che rimettevano al destino ogni contingenza umana. Il destino non esiste, poiché tutto dipende da noi. Ma ora devo amaramente ricredermi.
Come non chiamare il destino come arbitro dell’evento infernale appena accaduto?
Una drammatica e inconcepibile coincidenza, che ha voluto non so per quale demoniaco intento unire due destini, due anime in un terribile gioco divino.
Da tempo ero titubante sulla mia fede religiosa e chiedevo un segno. Bel segno che ho avuto! Bel segno che mi ha offerto quel padre di tutti ma che mai sarà mio.
È di quello lassù, sempre che ci sia tutto il mio odio e il mio disprezzo.
È una calda giornata di settembre, l’estate sta terminando mentre percorro una strada infinita, senza limiti, come le mie aspirazioni, i miei sogni, la voglia di fare e disfare allo stesso tempo.
Niente mi avrebbe impedito di sostenere uno degli ultimi esami e poi…via. Ancora non sapevo dove ma lontano, lontano dagli affetti, dagli amici per mettere alla prova le mie capacità, per farcela da sola , per uscire dall’ambiente ovattato e soffocante nel quale mi trovavo.
Forse dovrei considerare il violento impatto un input e non una fine come per mesi ho sostenuto. Ma l’inizio di cosa? Di giorni tutti uguali, l’inesorabile trascorrere di attimi di dolore interrotti solo da implacabili e violenti attacchi di rabbia. Rabbia, collera, rancore senza sapere su chi o cosa sfogarmi e allora considerare tutti una sola preda.
Colpa di chi? Certo mia, ma perché?
Il risultato non è direttamente proporzionale alla mia colpa, nella maniera più assoluta. Avrei potuto placare il desiderio di tornare facendo pressione sull’acceleratore, avrei potuto prendere il primo treno, ma tutti questi forse e se non cambiano il massacro, non mutano la mia e l’altra sorte.
Andarsene a ventitré anni per un vigliacco gioco del destino è inammissibile ma restare a ventitré anni con un tale fardello, con un omicidio, perché questo alla fine è il reale termine da usare, pur così gelido e secco, è spaventosamente lacerante.
Indebolisce te e le persone che ti sono accanto giorno e notte pensando di alleviare le tue pene. E come?
Forse devo considerare un miracolo il fatto di essere qui a scrivere, ma io chiamo miracolo un fatto eclatante positivamente, un evento che pone fine alle sofferenze anziché farle iniziare.
Perché io?
Ma perché proprio io?
Forse qualcuno lassù vuole punirmi, ma non ritengo d’ esser stata così ingrata a chi pensavo mi avesse dato la vita.
Fingere pensando agli altri, a chi mi vuol bene, simulando serenità e rassegnazione è lacerante e insopportabile. Come pure prendersela col mondo intero, non so nemmeno io per quale ragione.
Tutti mi sorridono consolandomi con parole amiche ma la pena e la compassione chissà forse rabbia, verso di me anche da parte loro traspaiono dalle parole e dagli sguardi, e ciò rende tutto ancora più difficile.
Sono arrabbiata con quel Dio che non mi ha fatto morire al ‘suo’ posto, per cui l’ho supplicato in ginocchio fin dal primo momento, un Dio così cattivo e perfido.
L’attimo dopo felice di essere qui e di poter infondere un po’ di speranza per andare avanti a chi come me sta soffrendo così drammaticamente pensando di non aver scelta se non ponendo fine ad ogni tormento dando ai parenti un’altra assurda sofferenza.
E pensare ogni momento che la tua vita è finita, di non avere più motivi ed incentivi per restare, per andare avanti, per ricominciare tutto daccapo, per affrontare lo sguardo nemico di chi non capisce e non ha coscienza. Pensare in che modo farlo, dove.
Fortunatamente non sono stata tanto coraggiosa da abbandonare tutto perché penso che forse l’accaduto ha un significato.
Non potevo farcela da sola, senza l’aiuto e il sostegno, la comprensione e l’amore della mia famiglia.
Considero ciò come una prova, come tante altre, ma questa particolare, perché vitale. Ovviamente quando succedono fatti che hanno un clamore di tale, vasta portata, l’opinione pubblica è varia e talvolta pesante da sopportare.
Sono spaventata, mi rifiuto di uscire – a parte il fatto che sono costretta a portare il gesso per ben quattro mesi e senza poter poggiare il piede a terra.
Temo di essere additata come un’assassina.
Oggi finalmente sono a casa, ma non è come prevedevo è stata un’ennesima tragedia, perché non potendo poggiare il piede sono costretta su una orribile sedia a rotelle. Mi sono appena calmata un pochino dopo aver fatto la pazza. Mi sento malissimo, dipendo in tutto e per tutto dagli altri, non voglio pesare più di quanto non stia facendo ai miei genitori. Mio fratello, i miei nonni, sono tutti dei martiri. Qui a casa è sempre pieno di gente, apprezzo il fatto, ma a volte vorrei gridare, piangere, picchiare mille volte la testa contro il muro e invece devo reprimere tutto, essere sorridente e chiacchierare di cose di cui non mi interessa nulla, quando invece voglio stare sola con me stessa, coi miei pensieri e piangere, pingere e piangere ancora, sfogarmi. Ormai non ho più lacrime.
Mi spavento di me stessa perché mi sembra di avere dei raptus folli, prenderei a pugni e a calci tutti. Inizierei a lanciare qualsiasi oggetto che ho davanti. Non so chi dia ai miei familiari la forza di assistermi e starmi vicino per sopportare la mia irrequietezza, scontrosità, e gli improvvisi cambi d’umore.
Oltre a sentirmi male moralmente, non posso sfogarmi uscendo o che so correndo o stare semplicemente sola, perché non sono indipendente su questa maledetta sedia e mi sento un inutile peso.
Stamani ho cercato di passare da sola dal letto alla sedia, ma il braccio sinistro non è stato abbastanza forte da sostenere il mio peso e sono caduta.
Un tonfo sordo, e dopo il mio pianto disperato.
Mamma è corsa impaurita sentendo il rumore e le mie imprecazioni, ho reagito da pazza furiosa, colpendo la porta della camera con tutta la forza della mano e poi della gamba sinistra.
Come risultato ho ottenuto un ematoma sul braccio e dolore al piede, mia madre è in lacrime di là per non farsi vedere da me.
Non ce la faccio più, davvero, mi sono tutti addosso.
Non è che non sia riconoscente ma talvolta vorrei tanto trovarmi sulla cima di un’altissima montagna, non certo per buttarmi giù- benché a volte lo pensi davvero, ma per urlare a pieni polmoni ciò che provo, piangere, sfogarmi, e la natura sarebbe l’unica testimone. Dopo la mia confessione il sole si offuscherebbe ed i suoi raggi si trasformerebbero in saette sprezzanti contro di me. I fiori appena schiusi e ancora bagnati dalla rugiada notturna, preda delle creature della natura che si nutrono succhiandone il polline, solo per poco avrebbero mantenuto il loro inebriante profumo prima di appassire alle mie grida.
Lo sento, il loro profumo è talmente intenso da riempirmi l’anima, così forte che fatico perfino a respirare, ma ad un tratto non c’è più nulla se non oscurità e pianto. Gli abitanti del posto fuggono per ripararsi dalla mia minaccia e ognuno mi giudica, inveiscono contro di me con i loro linguaggi. Così fa anche la gente che mi vede nel posto dove vivo. Continuano ad affettarmi in mille pezzi le male lingue delle persone che incontrano il mio sguardo. Figurarsi, già si costruiscono storie assurde e incredibili sulle piccole cose, non oso immaginare ciò che si potrà inventare e credere di sapere riguardo la mia storia.
Tutti mi additano come l’assassina, il ‘pirata della strada’, così come un giornalista mi ha descritta. So che è il loro lavoro e che ognuno cerca di emergere come può ma non dovrebbero farlo, non hanno alcun diritto, sferzano colpi così spietati ritenendo che il loro successo giustifichi ogni mezzo.
“Papà, il giornale, per favore”, voglio rendermi conto di cosa è successo secondo l’opinione comune, voglio capire fino a che punto hanno inasprito la pillola, se mai ce ne sia bisogno. Papà non vuole. Sarebbe un ennesimo colpo per me ma io non voglio sentire ragioni.
“La ragazza accusata di omicidio colposo” si legge a caratteri cubitali. Per me questo è un colpo pesantissimo, così mi considereranno sempre.
Fregarsene degli altri? Facile a dirsi ma pesa in realtà.
Non esco mai, non ne ho voglia, sono una sepolta viva, un po’ anche per le problematiche fisiche. È dura, qualsiasi sguardo sarà puntato verso di me. Quando pronuncio il mio nome temo sempre che si possa capire qualcosa e che possa essere riconosciuta.
Tutti i giorni sono uguali. Le ore, i minuti trascorrono sempre uguali, interminabili, mi chiedo come possano passare quattro mesi in queste condizioni.
All'inizio le giornate trascorrevano più velocemente. Molte persone venivano a trovarmi, ma ora non si vede più nessuno, neanche gli amici più stretti, eccetto qualcuno.
Tutti mi hanno abbandonata a me stessa, a pensieri orribili, forse pensano che resterò per sempre sulla sedia a rotelle e allora cercano di allontanarsi piano piano da me per non dover sopportare questo fardello. Già pensano alle future uscite e a quando dovranno andare in giro con un'invalida. Fortunatamente per me, non è così, ci vorrà del tempo, tanto tempo, ma tornerò in piedi sulle mie gambe in ogni senso per continuare da dove ho lasciato, meglio di prima perché ora ho un compito importante: vivere per due persone.
Trascorro giornate senza vedere nessuno, eccetto i miei genitori e nonni, gli altri tutti scomparsi.
Tutto intorno a me sembra così triste, anche i quadri che ho di fronte sono privi di vita. Quello più grande raffigura una grande finestra aperta ed io, riesco a vedere sia l'interno della stanza rappresentata, dove c'è un piccolo tavolo d’arte povera con una brocca sopra, sia l'esterno. Si vedono degli alberi verdi dai quali spuntano solo i tetti di alcune case e un campanile che sovrasta tutto il resto.
La stasi dell'interno si contrappone al movimento dell'esterno, agli alberi mossi dal vento e alle onde del mare. Questo quadro mi intristisce, sicuramente anche il pittore non doveva attraversare un bel periodo. Chissà cosa lo tormentava. E così mi rendo conto che tutti, prima o poi, qualsiasi carriera intraprendiamo, in qualsiasi parte del mondo viviamo, veniamo in qualche modo attanagliati da qualcosa che è là, dietro l’angolo, di cui non sospettiamo nemmeno l’esistenza.
La differenza è che lui, l’artista, attraverso i pennelli e i giochi di colori ha fatto vivere le sue emozioni, dandogli una forma, un senso, ma non un significato perché ognuno può attribuirgliene uno a queste immagini, rendendole immortali.
All'interno del salone, perché è qui che passo la maggior parte del mio tempo, tutti gli oggetti sono uguali, sempre nella solita posizione.
Sul tavolo c'è un servizio d'argento al quale mia madre tiene moltissimo. Le fu regalato al matrimonio da una sua carissima zia che ormai non c'è più. Nonostante gli anni si mantiene bello e splendente perché mamma ogni giorno lo spolvera e lo lucida con cura. Riesco solo in minima parte a percepire cosa lei provi nel guardarlo. Intorno ci sono degli oggetti particolari, ricevuti in dono da uno zio che ha trascorso molti anni in missione in Pakistan e, ogni volta che tornava donava qualcosa di caratteristico a mia madre.
Poi il violino, uno dei tanti che mio padre ha acquistato nei nostri viaggi in Polonia, è molto antico. Mi piacerebbe conoscere la sua storia, ne sento quasi il suono, vedo delle mani di donna che lo suonano in maniera divina. Lo sfiorano appena ma riescono a fargli esprimere tutta la musica che non ha mai sprigionato e che non ha mai donato alle orecchie umane.
Una melodia così dolce e sensuale, ma frenetica e vitale al tempo stesso.
Le vedo queste mani snelle e lunghe, di un rosa pallido, sono così esili, si direbbe non abbiano nemmeno la forza di sostenere il peso del violino, invece riescono a farlo vibrare divinamente, donando una melodia magica. Riesco a vedere perfino la stanza. Intorno è tutto in legno, il pavimento di cristallo, da lontano si scorge un pianoforte suonato da un'altra donna bellissima, sembrano essere entrambe delle muse con vesti leggere e candide che a mala pena le avvolgono, la cui trasparenza rende evidenti le esili forme. I loro corpi leggiadri danzano in armonia alle note musicali. Ci sono altre fanciulle che ballano tenendosi per mano, fanno un girotondo e mi invitano a partecipare, ma io rimango seduta, non ho la loro forza, la loro vitalità. Resto immobile sulla sedia, questa sedia che ormai è diventata parte del mio corpo, questa maledetta ferraglia che mi impedisce ogni movimento.
Mi chiamano, ma non odo una voce normale. Si alza un coro e poi un’ eco. Non riesco a percepire ciò che stanno dicendo, ma si rivolgono a me, mi sorridono, vogliono che partecipi anch’io al girotondo, che rida e scherzi con loro. Sono spiriti, i loro corpi si muovono con tale leggiadria che sembrano essere inconsistenti.
Mentre danzano vengono avvolte dai fili d’oro che arrivano fin giù ai fianchi e, sulla nuca sono cinti da una ghirlanda di fiori rosa e bianchi tenuti insieme da un nastro di raso. Non riesco a vedere il loro volto perché volteggiano di continuo, solo le mani e i piedi nudi sono evidenti. Non poggiano a terra, sono sollevate, danzano nel nulla, avvolte nel nulla, e nel nulla scompaiono.
Tutto è così sereno e tranquillo, tutti gli oggetti della stanza sembrano danzare, anche la pianola che da tanto nessuno suona più è tornata alla vita. I tasti si muovono da soli senza che nessuno li azioni, o meglio senza che io possa vedere da chi. Mi torna la voglia di suonare, ormai è da molto che non lo faccio, ho quasi dimenticato. Eppure mi piaceva così tanto suonare il pianoforte.
Scaricavo tutta la mia tensione, il mio nervosismo su quei poveri tasti. Li tartassavo, li spingevo con una tale forza ed energia che ogni volta mi stupivo di come mai fossero ancora lì. La mia carica, la mia gioia, l’inquietudine sfociavano in una musica sublime, che tuonava intorno a me, che avvolgeva le pareti e le sorpassava. L’ intero corpo si spinge e si ritrae secondo il ritmo e la potenza data alle note.
E poi la tensione dei saggi, temi di poter sbagliare, che l’emozione possa farti qualche scherzetto, perfino un pezzo che non hai mai sbagliato e conosci alla perfezione può diventare una trappola, ma la voglia di suonare, di rendere partecipi tutti dell’emozione e dei brividi che la musica dà allontana ogni paura.
E quando inizi a suonare dimentichi ogni cosa, non vedi le persone che ti osservano, non badi a ciò che hai intorno, per cinque minuti tutto scompare, esiste solo una cosa, la sinfonia melodiosa di una musica sublime. E poi gli applausi della gente estasiata ti lusingano e ti fanno sentire importante.
Un grido e poi il tonfo di un pallone. Vado goffamente verso la finestra per vedere cosa sia. C’è un gruppo di ragazzi e ragazze che giocano a pallavolo, corrono per prendere la palla, saltano con la leggerezza delle libellule. Mi sembra passato così tanto tempo da quando anch’io giocavo, ora invidio così tanto quei ragazzi che sono liberi, liberi di vivere spensierati e non se ne accorgono.
Ora capisco cosa significhi semplicemente poter correre, sorridere. Le cose più banali diventano vitali e così piene di importanza.
Mi sembra dell’altro mondo la sola idea di poter uscire tranquillamente a fare una passeggiata. Andare e venire quando si vuole ed essere indipendenti.
Il fatto è che quando si sta bene si diventa egoisti, si pretende troppo. Chissà cosa si vorrebbe fare, si vorrebbero spallare le montagne, fare sempre di più, raggiungere nuovi traguardi. Non che ciò sia sbagliato, ma stando nelle mie condizioni si comprende che molte volte non serve a nulla affaticarsi, strafare, fare pensieri lungimiranti, perché in un attimo, patapluff!
E proprio in questa situazione mi accorgo di come siano importanti gli affetti, le persone, i sentimenti.
Ma chissà perché sempre qualcosa di tragico deve portarci a riflettere. Non sarebbe tutto più semplice se ci rendessimo conto di come sia importante ciò che abbiamo a prescindere da tutto il resto?
Diventa sempre più difficile accontentarsi e godere delle piccole cose, ma sono proprio queste a farci star bene, a farci sentire importanti e a permetterci di andare avanti.
Sono quasi sepolta viva, non ho più la voglia di far nulla, niente mi spinge a reagire, a battermi per ricominciare.
Tutto ciò che prima era vitale: uscire, andare a ballare, fare lunghe passeggiate è diventato privo di valore. Non mi interessa più nulla.
Sono un vegetale, non ho alcuno stimolo. Non mi guardo più allo specchio. Mi vergogno, sono anch’io una deportata senza remissione di colpa.
Mentre metto in ordine la camera ridotta in condizioni disastrose, mi capita fra le mani un opuscolo dell’olocausto. Inizio a rileggerlo, sfoglio quelle pagine che, solo guardandole mi fanno venire le lacrime agli occhi per il modo in cui erano segregati i deportati, non avevano la libertà di nulla, non potevano neanche più pensare, perfino i ricordi erano costretti a dimenticare per non soffrire ancor di più.
Non erano liberi neppure di andare in bagno.
Mi vengono i brividi se penso che intere famiglie, arrivate unite, credendo che tutto sarebbe andato meglio, che la loro vita sarebbe cambiata, che avrebbero trovato posti di lavoro, sono state distrutte. Sono stati distrutti i sogni dei bambini di avere una bella casa, un giocattolo, una bambola con la quale giocare, un nuovo amichetto con il quale condividere un gioco. Andati in frantumi i sogni dei genitori, il cui unico desiderio era star bene e dare una vita migliore alle loro creature, vederli crescere, farli studiare, chiedendo, come unico ricompenso non gratitudine, o ringraziamenti, ma solo la soddisfazione di aver cresciuto delle persone oneste.
Casomai dopo mesi e mesi di sofferenza e di umiliazioni un padre rivede il proprio bambino da lontano, farebbe di tutto, donerebbe la vita –unica cosa che gli resta- in cambio di una carezza, di uno sguardo, di un bacio al proprio piccolo. Giorno e notte questo padre piange non per le sue ferite, ma per le piaghe provocate alla sua famiglia, alla donna con la quale ha fatto tanti progetti, ai bambini che addirittura si augura siano morti, anziché essere costretti a sopportare brutali angherie, o essere seviziati, o cavie di ignobili esperimenti.
Fino a che punto, persino il pensiero di queste persone era distorto dai nazisti, per augurare ad un figlio, sangue del proprio sangue, di morire. Sperare che un figlio sia già morto, è il pensiero più brutale e inimmaginabile per una persona comune, per una persona libera, ma non per loro, il cui unico sollievo è credere che i loro cari stiano già in paradiso, o comunque in qualsiasi altro posto, ma non lì.
Anche loro, come me erano diventati dei vegetali, se pur contro la loro volontà. La differenza è che io non sono costretta. Chissà quanto avrebbero dato per fare una passeggiata in tranquillità. Io posso. Perché ho dovuto ridurmi in queste condizioni?
Basta, Emanuela, è ora che ricominci a vivere, così è tutto più difficile.
E’ ora di togliermi di dosso questa maledettissima tuta enorme e questa molletta dai capelli.
Dov’è finita la mia voglia di vivere, di divertirmi, di vestire in modo stravagante, di far festa, semplicemente di fare ciò che mi salta in testa?
Ricominciando ad uscire, ad incontrare gente, a rivedere gli amici, i brutti ricordi torneranno alla mente meno spesso, e poi più si esce e ci si diverte più si ha la voglia di farlo.
Ora è il momento di finirla, e di ricominciare.
Sapevo che dovevo cogliere quell’attimo. Mi sono vestita e truccata, era da molto che non lo facevo, e ci ho messo un po’, avevo perso l’abitudine.
Ora sto avendo il coraggio di continuare ancor meglio di prima, perché più matura, più forte, più dura.
Un detto comune dice che la sofferenza ti fa crescere. Io…avrei preferito restare una bambina per sempre.
Durante la convalescenza evito di rispondere perfino al telefono. Ogni volta che squilla sono sul chi va la, penso sempre che qualcuno possa calunniarmi.
"Drin, drin", non voglio andare a rispondere, non so perché indugio, forse sento nell'aria che qualcosa non va.
“Pronto”, e dall’altro lato:
“pronto, sei tu l’assassina, non ti vergogni per niente di quello che hai fatto?”
Non ho avuto neanche il coraggio di rispondere, sono riuscita solo a mettere giù la cornetta e a piangere tutto il giorno ed il giorno dopo ancora.