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Siamo seduti vicini vicini e sorseggiamo la nostra sangria. Mi sembra un sogno, peccato destinato a finire, ormai anch’io mi sono rassegnata, solo un miracolo potrebbe salvare il mio Stefano.

Passa un clown molto buffo, seguito da altre strane figure, ha una tuta colorata da tanti pezzi di stoffa irregolari cuciti insieme, una parrucca verde arruffata. Il volto irriconoscibile dal cerone. Ha un enorme sorriso disegnato. Ma il ghigno è come i suoi occhi, tristi. Sono i cosiddetti artisti di strada e Stefano ride di cuore quando il pagliaccio fa rimbalzare sulla mia testa un martello di spugna. Era molto che non lo vedevo così allegro e spensierato.

“Tesoro non puoi immaginare come tu mi abbia reso felice accettando di trascorrere questi brevi giorni in mia compagnia, grazie”.

“Ma che dici, grazie a te, sei sempre così dolce con me”.

“Sono stato veramente bene, peccato che domani si riparte”.

“Eggià”.

Il volo è previsto per mezzogiorno. Non facciamo neanche in tempo a salire che stiamo già atterrando.

L’auto è là al parcheggio che aspetta solo noi per portarci a casa.

“Ce la fai a guidare, se sei stanco ci penso io”.

“No, non ti preoccupare lo sono un po’, ma ce la faccio perfettamente, questa vacanza con te mi ha fatto rinascere, mi sono tornate le forze. Sono stato veramente bene”.

Il viaggio in auto passa in fretta e in un batter d’occhio sono già a casa. Stefano non vuol fermarsi, ha fretta anche lui di riposare.

Sono due giorni che non lo vedo. Il terzo giorno, al mattino presto una chiamata, una voce triste e tremolante.

 “Stefano chiede di te, sta molto male, fai presto, siamo qui a casa, presto”.

“Mio Dio Stefano, no, non te ne  andare così presto, ti prego aspettami, aspetta almeno che ti abbracci per l’ultima volta”.

Presto, presto, le parole del padre mi rimbombano in testa per l’intero viaggio, un incubo più che viaggio, l’incertezza di poterlo rivedere mi fa mancare il fiato. Sento di soffocare, non faccio altro che pensare ai ricordi belli che ho e sperare che tutto possa finire al meglio, ma posso aggrapparmi solo ad un miracolo. Spero che il telefono squilli e lui mi dica di non preoccuparmi di stare tranquilla e di non correre per strada come suo solito, il viaggio mi sembra lungo e interminabile benché in soli trentacinque minuti siamo a Pescara. L’auto si blocca fra il traffico. Siamo attanagliati da auto e motorini. I semafori sono tutti rossi. La lunga e inesorabile fila continua a tessere maglie strette e noi siamo intrappolati. Sono un punto microscopico fra tanta gente che va e viene. Tutti hanno fretta di scappare, di correre in ufficio, a casa, non sanno che io sto correndo verso la mia vita. Non fatemela scappare, vi prego.

Quanto tempo abbiamo perso, saremmo potuti stare insieme più a lungo se solo io fossi stata meno testarda, se avessi cercato di capirlo e di stargli vicino. Ora è inutile pensare a ciò che sarebbe potuto essere. Le lacrime continuano a sgorgare a fiumi.

È mio padre a guidare, ha insistito per accompagnarmi, non ha voluto che andassi sola.

Mentre papà sta parcheggiando, vedo un uomo con un abito lungo, nero suonare il campanello.

Il cuore per un secondo smette di battere mi adagio per un breve istante sul sedile, mi sento mancare. Scappo fuori e inizio a correre.

La mamma mi viene incontro e mi abbraccia, rimango un attimo scioccata dall’atteggiamento affettuoso della donna. Mi guarda amorevolmente e mi conduce da lui, non diciamo una parola, io la seguo. Stefano è di sopra, nella camera da letto. Tutt’intorno è buio, il papà è seduto accanto a lui, non c’è nessun altro nella stanza.

Sono sulla porta, non riesco a muovermi, il padre alza la testa e fa un sorriso, il sorriso più triste che abbia mai visto.

“Stefano, guarda papà, guarda chi c’è”, scuotendolo come un papà che cerca invano di tirar giù dal letto il piccolo che non ne vuol sapere di andare a scuola, proponendogli un regalo o un bel gelato. Ma il sonno è più forte.

Non si muove, non ce la fa, resta immobile, solo un piccolo movimento col capo e gli occhi verso di me. Occhi vitrei, trasparenti, stanchi di soffrire. Di quell’ardore non è rimasto nulla, neanche la voglia di voler restare. Non traspare altro che pietà.

Ho paura, paura di non farcela  a vederlo così, paura di scoppiare in lacrime. Mi avvicino, ogni passo sembra distanziarmi ancora di più da lui, cerco di raggiungerlo, ma sfugge, sfugge alle mie braccia. Finalmente lo raggiungo, lo tengo stretto, il mio abbraccio lo avvolge, io non vengo avvolta dal suo, è fragile e impotente. Non potrò più lamentarmi, mio malgrado, per essere quasi stritolata dal suo prorompente affetto.

Sfioro le labbra sulla sua guancia.

Mi guarda come un bambino che, nella culla è voglioso di affetto e protezione.

Mi getto sul suo grembo. Mi accarezza la nuca con fare rassicurante, come se paradossalmente sia lui a dovermi infondere coraggio. Sono china su di lui, non ho il coraggio di guardarlo. Non voglio che veda il mio volto pieno di lacrime. Tende flebilmente la mano verso la mia e la stringe con le sue ultime forze, mentre con un filo di voce: “grazie per essere venuta da me, io sto andando via, ma ricordati che non sarà per sempre. Promettimi che ogni tanto mi penserai con affetto e ricorderai i piacevoli momenti, troppo brevi, trascorsi insieme.

Ogni volta che avrai bisogno di me, parlami, perché io ti ascolto, ti sono sempre accanto, sarò il tuo angelo custode finché un giorno, spero fra molto tempo ci rincontreremo di nuovo e sarà come se non ci fossimo mai lasciati, e allora sì che sarà per sempre amore mio”.

La mia mano non è più stretta dalla sua che si abbandona dolcemente sul lenzuolo bianco.

Poggio le mie labbra sulle sue per salutarlo l’ultima volta e benché l’ anima avesse ormai lasciato il suo corpo un leggero movimento ho percepito e l’ultimo caldo sospiro di dolore. Le sue spente labbra sembrano ammiccare un lieve sorriso.

È passato circa un mese da quando Stefano è andato via. Ogni giorno è più triste senza di lui. I suoi genitori mi chiamano in continuazione, mi chiedono di andarli a trovare e di prendere tutto ciò che voglio che era appartenuto al loro adorato figlio, mantenendo così vivo il suo ricordo. Lui è vivo dentro me, non ho bisogno di nulla.

Un giorno capito a Pescara e decido di passare a salutarli.

Sembrano invecchiati di molto, da quell’ultima volta. “L’unica cosa che avevamo, non ce la faccio a sopportarlo, sento di impazzire, così giovane, aveva una vita davanti che avrebbe voluto passare con te e tutto gli è stato portato via così. È stato strappato dalla vita, da noi che non abbiamo più una ragione per vivere”. Queste parole della mamma in lacrime mi commuovono. Della signora-vamp che avevo conosciuto non è rimasto nulla. Vedo solo una povera donna che ha perso l’unico figlio per il quale avrebbe dato la vita.

“Perché non ha preso me, perché”.

Il papà di Stefano non parla, è seduto accanto alla moglie e la sostiene, le prende la mano con amorevole affetto.

Sto un po’ con loro e cerco di fargli capire che non reagendo sarà ancora più difficile e che Stefano non vorrebbe che tutti noi soffrissimo così.

“È soprattutto per lui che dobbiamo andare avanti”.

I giorni passano ma il ricordo del mio Stefano è sempre più forte, indelebile nella mia mente.

 

Ancora una corsa... quest’immagine mi perseguita. Un rettilineo interminabile che va, va proprio come questo giorno di calda estate e d’improvviso una visione, perché non saprei come chiamarla. Io in abito bianco, ho una coroncina in testa di fiori bianchi e rosa che si confondono tra i riccioli biondi. Forse sono vestita da sposa ma non saprei dire e poi il candido vestito quasi trasparente tant’è di un bianco puro, ha tanti veli, come quello di una principessa ma viene lavato in un mare di sangue.

Il vestito sudicio macchia anche me di sangue. Ho la testa bassa e guardo le mie membra bagnate, sono immersa nell’acqua ma d’improvviso avviene qualcosa di inspiegabile. Continuo a guardarmi. Il vestito è tornato bianco. Sto uscendo dall’acqua e cammino, cammino fino alla riva. I miei piedi nudi non più immersi nell’acqua sono piccoli, anche le gambe, le mani e le braccia sono esili e fragili come quelle di una bambina.

Poi lui, il mio amico più caro che ho conosciuto a Pescara, un amico universitario al quale però lo studio non piace poi tanto e soffre quando sta sui libri. Preferisce invece ridere e scherzare in ogni circostanza. Adora anche lui il mare, infatti se non mi va di andare sola in spiaggia so a chi chiedere compagnia. È un vero amicone, di quelle persone che ti restano nel cuore e che non dimentichi facilmente. Una persona che adora la vita e vuole godere di ogni cosa, di tutte le sfumature che essa può offrire fregandosene del mondo intorno, degli occhi indispettiti della gente.

La sua famiglia è una ‘famiglia per bene’ e desidera che il proprio figlio si laurei soprattutto per una questione di cultura personale anche perché il padre ha già un’ottima attività avviata. Lui è sempre sereno, tranquillo, sorridente, mi sembra di ricordare di non averlo mai visto triste o arrabbiato. È la classica persona che vorresti sempre accanto per rallegrarti la vita, soprattutto nei momenti bui.

Non sopporta di veder persone tristi e fa di tutto, inventa anche la situazione più comica per sdrammatizzare.

È una di quelle persone che pur non conoscendo bene ti mette di buon umore. A fare amicizia ci mette un secondo, chissà che cavolo fa per attaccare con tutti.

Senza la sua presenza le cene vengono rimandate, perché è lui a tenere banco e ad essere ‘il pagliaccio’ della situazione.

Quel giorno in cui ci è stato strappato, tutti ne abbiamo sofferto, ma una mia amica in modo particolare.

Mentre cercavo di sostenerla e trovare qualche appiglio per farla stare un po’ meglio, pensavo, come farà a vivere senza di lui, dipendeva da lui e lui da lei, quella che si dice la classica coppia perfetta, ma ahimè nulla è perfetto a lungo in questo mondo, tutto è caduco e provvisorio.

Sembravano fatti l’uno per l’altra, addirittura si somigliavano, tanta gente li scambiava perfino per fratelli, avevano lo stesso sorriso e lo stesso modo allegro di affrontare la vita.

Lui aveva sempre voglia di uscire, di divertirsi e di far divertire gli altri.

Gli chiedevo se non si scocciavano a stare dalla mattina alla sera insieme e dipendere l’uno dall’altra, con un sorriso mi rispondevano che un giorno avrei capito anch’io, e che è splendido poter dividere tutto, fra loro c’era una complicità eccezionale che ho visto pochissime volte.

Solo guardandoli si percepiva il bene e l’affetto che li univa.

Mi è capitato anche vederli litigare, lui era molto geloso sebbene non ne avesse motivo e spesso discutevano per questo o perché lei più tranquilla preferiva starsene a casa anziché uscire, ma dopo cinque minuti erano lì che tubavano come piccioncini.

Ricordo con piacere una sera, lui era affamato e si era preparato da mangiare, aveva apparecchiato e si era appena seduto di fronte la tv. Arriviamo io e la sua ragazza che avevamo appena detto di non aver fame: due avvoltoi al confronto sono poca cosa io con una forchetta, lei col coltello afferravamo di tutto, lei spalmava e io inforcavo, con un secondo abbiamo spolverato via tutto, lui intanto ci guardava scioccato per la nostra voracità, addirittura gli toglievamo il cibo dal piatto.

E lui per prenderci in giro: “basta, ho mangiato troppo, mi sento pienissimo”, ci guardiamo tutti e tre e scoppiamo in una risata.

“Certo che voi due messe insieme sareste capaci di ripulire un intero supermercato, heh! E per fortuna che non avevate nemmeno fame, se eravate affamate dovevo scappare, altrimenti avreste attaccato anche me”.

Siamo stati l’intera sera a ridere e scherzare davanti la tv, a volte basta davvero poco per stare bene anche in casa, basta avere la compagnia giusta.

Ci sono persone che quando le incontri ti fanno passare la voglia di salutarle per quanto ti angosciano. Le vedi due minuti dopo mesi e stanno lì a parlare di tutti i loro problemi come se solo loro ne avessero, che sono stanche perché sono sotto esame e poi casomai ci mettono mesi per prepararne uno solo che per giunta gli va anche male e stanno sempre a casa a fare la muffa. E tu casomai fai tremila cose oltre a studiare e veramente non ce la fai neanche a tenerti in piedi ma non ti passa neanche per l’anticamera del cervello lamentarti e per giunta con persone che neanche conosci bene.

A me capita che più cose faccio, più ho voglia di farne e mi sento bene, perché so che faccio il possibile per crescere e per accrescere le mie capacità e possibilità per fare sempre di più e per migliorarmi sotto ogni punto di vista.

Al contrario, il mio amico era una di quelle persone che speri di incontrare in ogni momento perché era vivo, era solare, dava la carica a chiunque. Purtroppo ce ne sono poche di queste persone.

Ora uno in meno, per un tragico destino. Anche la sua vita è stata stroncata così presto, prima che potesse realizzare i suoi tanti sogni, i suoi tanti progetti.

Ha lasciato un vuoto, un vuoto incolmabile.

Ci sono delle situazioni che vivo in cui, non so perché me lo vedo davanti gli occhi sorridente, aveva un modo buffo di sorridere che gli faceva agitare tutto il corpo. Spesso ci faceva innervosire perché anche quando si trattava di cose serie lui ci faceva scappare la battuta e gli dicevamo di fare il serio almeno una volta nella sua vita, meglio così. Meglio che ha preso sempre tutto come un gioco.

I primi giorni sono stata accanto alla mia amica, fortunatamente lei è stata una delle poche a superare la tragedia in modo sereno perché crede molto, l’ ha sempre fatto e questo le ha dato tanta forza e coraggio per andare avanti. Andandolo a trovare al cimitero e vedendo la sua tomba piena di oggettini e doni e pensando che lui era là e non lo avrei più rivisto sono scoppiata in lacrime sebbene non volessi. È stata la mia amica a consolarmi, mi ha abbracciata e mi ha donato una sua foto che porto sempre con me, dicendomi: “è il nostro angelo custode e ci proteggerà sempre”.

Queste parole anziché sedare il pianto dirotto aumentarono la mia disperazione.

“Al diavolo! Ne ho abbastanza di avere angeli custodi, non li voglio più, rivoglio le persone a cui voglio bene con me”.

“Non piangere Manu, lui è felice ora, lo conoscevi bene, era una di quelle persone che voleva vedere tutti felici, voleva che tutto andasse bene altrimenti stava male, chissà quante cose avrebbe dovuto sopportare. Si sa nella vita non tutto va sempre al massimo come avrebbe voluto lui, è meglio che è andato via senza aver dovuto mai soffrire, non lo avrebbe sopportato. Sarebbe voluto restare un bambino per sempre, senza pensieri, né problemi; avrebbe sofferto moto se qualcosa non fosse andata nel verso giusto e tutti sappiamo che quasi mai va così.

Io so, sono certa che lui ora è felice e lo sarà per sempre. Ora è un angelo che veglia su di me e su tutti noi, e gli dispiacerebbe, morirebbe per la seconda volta vedendoci tristi per lui, sai che vuol vedere tutti felici”.

Le parole della mia amica mi tirano un po’ su e mi infondono coraggio.

Forse ha ragione lei, lui non c’è più e la vita deve continuare, e poi se lei è così serena vivendo del suo ricordo, perché non dovrei esserlo io.

È la prima volta che lo sogno, anche perché i sogni non li ricordo mai. Ha una giacca nera, una camicia bianca e una cravatta, tant’è che ricordo bene di essere un po’ sorpresa, non è il modo in cui generalmente veste, ma ricordando bene l’ ho visto così elegante il giorno della laurea della mia amica, un’occasione importante e lui ci tiene a fare sempre bella figura. Forse anche questa, quella in cui lo sogno, è per lui un’occasione particolare. Mi parla, mi sorride, gesticola, ma non riesco a capire ciò che mi sta dicendo, e non riesco nemmeno a leggergli le labbra, poi mi guarda in silenzio come se volesse che io gli risponda, aspetta un mio cenno, ma io sono immobile, non riesco a parlargli. D’improvviso diviene serio come non l’ ho mai visto prima, aspetta una mia risposta, ma io non so come fare a dirgli che non ho capito cosa voglia dirmi, la mia volontà vuole chiamarlo, ma le mie corde vocali non riescono a pronunciare il suo nome, mi sembra di gridare ma in realtà non ce la faccio. Le parole vengono soffocate come anche il respiro. Voglio chiamarlo ma muovo solo le labbra, non mi esce il fiato, inizio ad agitarmi e a lamentarmi, mi sembra tutto così reale.

Faccio un balzo sul letto, di fronte ho la finestra, mi guardo attorno, è la mia camera da letto, è stato tutto un sogno, un brutto sogno, sono tutta sudata. Questo è il primo sogno che ricordo bene, ogni minimo particolare.

Vorrei solo aver capito quello che lui mi diceva, sembrava essere importante.

Durante il giorno ho come un lapsus, alla fine del sogno, quando stavo per svegliarmi, ha pronunciato due numeri: 79 e 64.

Non credo molto a queste cose, ma qualcosa deve pur significare questo strano sogno, ho cercato in un libro e ho trovato che il 64 significa avanzare, andare avanti, il 79 sta per vita.

Tutto il giorno sono stata a riflettere sul sogno, le due visioni, i numeri.

Una strada accomuna i nostri due destini. Lui è morto su di un rettilineo, uscendo fuori strada dalla parte destra, anch’io ho avuto l’incidente su un’autostrada, anch’io sul lato destro. Due persone coinvolte nell’uno, due persone coinvolte nell’altro incidente, due persone hanno perso la vita, una in un incidente, una nell’altro: l’unica differenza è che io sono qui e lui no.

È la prima volta che penso a queste coincidenze, non mi ero mai soffermata a riflettere.

Poi d’un tratto tutto è chiaro.

Non mi riconosco più neanche io, non sono più la stessa piena di vita e solare come mi ricordava, ho perso la voglia di vivere, mi sto fossilizzando e impigrendo piangendo su me stessa.

Basta, devo smetterla, devo reagire, non è così che posso andare avanti e realizzarmi. Così sopravvivo e nient’altro, che vita è mai questa, non ho mai voluto una fine del genere, perché soltanto una fine posso trovare se continuo così.

È questo, ne sono certa, è questo che lui ha cercato di farmi capire.

‘Vita’, ‘avanti’ sono due parole positive, parole che stimolano la mia mente, lui non può più vivere, non può andare avanti, ma io sì e non posso lasciar scappare in questo modo la mia occasione. Anche lui avrebbe voluto andare avanti, per me è possibile se voglio, e mi accorgo che lo voglio più d’ogni altra cosa, anzi ora mi pento di aver perso tanto, troppo tempo a piangermi addosso, ma basta e finalmente tutto ricomincerà meglio di prima.

Zoff stamattina stentava a riconoscermi, non saltava su di me come in genere fa.

Mi annusava. Forse perché voleva essere sicuro che fossi io, la sua adorata padroncina.

Solitamente vado da lui in tuta, con maglioni enormi e scarpe da tennis. Apro le braccia e lui inizia a correre all’impazzata per travolgermi con suo furore. Mi gira intorno, poi risalta e riesce a farmi cadere col suo impeto, la preda è nelle sue mani e può spupazzarmi come vuole, sono inerme sotto il suo peso. Viene a farsi abbracciare ma in questi ultimi tempi è stato lui, solo lui a coccolarmi, a farmi le feste. Devo andare da lui ogni giorno, ne ho bisogno. Capisce che non ero dell’umore adatto e mi guarda con quegli occhioni color nocciola grandi, vispi. Non so come, ma comprende la mia situazione, ed è molto accorto. Mi interroga con i suoi gemiti, e capisce coi suoi sospiri più di qualsiasi altro essere umano. Piango e lui mi da la zampina. Io sono triste e lui lo è più di me, con le orecchie basse e il musotto floscio. Non mi ha mai vista felice, tranne credo, il giorno in cui l’ ho trovato. Non è passato tanto da qual pomeriggio uggioso in cui l’ ho tolto dalla strada portandolo via con me. Mi dispiace che, per riflesso sia triste anche lui, è molto sensibile.

La mia voglia di vivere si è assopita, lui è l’unico amico che riesce a farmi star bene, che mi da gioia. Quelle macchioline irregolari sparse sul pelo gli danno un’aria simpatica. Se fosse vissuto qualche anno prima avrebbe rallegrato la compagnia della carica dei 102. Ho trovato qualcuno che mi batta a mangiare cioccolata, è un golosone, non adora farsi fare il bagnetto perché ha paura dell’acqua, ma sono convinta che se dovesse fare una nuotata in mezzo a litri di nutella sarebbe felicissimo. Lui mi adora e io ricambio ben volentieri.

È strano per lui vedermi vestita decentemente, truccata e improfumata. È là, immobile, poi si avvicina ad annusarmi, ma ancora nulla, mi guarda soltanto, aggrottando le sopracciglia e la pelle si aggrinza come un peluche. Sollevo le braccia, è ancora immobile, forse pensa che sia una finta, mi guarda con sorpresa. Scuoto le mani contro le mie gambe, e solo ora corre ad abbracciarmi, non gli sembra vero, forse aveva dimenticato da quanto tempo non lo facevo più correre con quell’impeto verso di me.

         Che bello! È incredibile come il suo contatto possa farmi tanto bene, più di qualsiasi medicina. Quando ho perso Stefano, nel momento in cui è scomparso il mio più caro amico Zoff è stato sempre con me.

Il pelo è soffice sotto il mio tatto, si alza e si abbassa sotto il caldo pulsare del piccolo grande cuore.


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