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La memoria ritrovata

             Passa un anno, ne passano due ed ecco che arriva il fatidico giorno. Quel traguardo che sembrava tanto lontano, quasi irraggiungibile eccolo… è arrivato, per me è già passato! Quasi non mi sembra vero.

Certo all’inizio è dura ricominciare tutto dal principio: amici, professori, ma prima ancora di potermi soffermare  a pensare manca un esame all’ultimo sforzo, al traguardo finale.

Ogni volta che mi reco a Pescara, devo attendere prima un paio d’ore, per poi venire a sapere che il professore mi ha dato buca. Quanto tempo sprecato, in più lui sa che sto frequentando un corso di informatica e non posso fare molte assenze.

Fortunatamente sono riuscita a terminare prima di quanto pensassi, ma andando a chiedere  la tesi ho avuto la brutta notizia che le cose sono appena cambiate: prima di laurearsi deve passare minimo un anno, non come prima (sei mesi).

Ciò comporta un ritardo di sei mesi minimo che non ho affatto calcolato. E a nulla servono le parole consolatorie dei miei che sei mesi in più o in meno non contano niente, io sono una belva, non voglio sentire ragioni.

È mai possibile, che perché sono professori pensano di potersi permettere di tutto? Il bello è che oltre a fargli notare queste cose, non si può far altro, a meno che non si voglia passare ancora qualche annetto in facoltà.

Ancora una volta mi alzo il mattino di buon ora e vado a Pescara, stavolta pensando che sicuramente il professore mi avrebbe incontrata perché interessato al lavoro da me svolto, e poi anche per il fatto che sono riuscita a recuperare un libro introvabile. Ho fatto salti mortali per farmelo spedire dall'Inghilterra, che interessa molto anche a lui e che non ha.

Una volta arrivata e, dopo aver aspettato invano un’oretta mi dicono che il professore è fuori. Ma dico, mi ero raccomandata, lo avevo anche chiamato per essere sicura e non fare un altro viaggio a vuoto.

Non ce la faccio più a prendere treni  e bus, ne ho davvero abbastanza. Sono sempre nervosa a causa dei ritardi, e poi ci vogliono più di due ore dal mio paese per raggiungere Pescara in treno, e si perde l’intera giornata senza concludere nulla. L’unica cosa positiva è che si conosce tanta di quella gente. Una volta ho fatto l’intero viaggio con una signora mai conosciuta prima, molto affabile e chiacchierona che inizia subito a prendere confidenza e a parlare dei fatti suoi, del marito, dei figli, di come la sua vita sia piatta e sempre uguale. Dice di invidiarmi, per il fatto di essere libera e di non dover dipendere da nessuno, solo da me stessa. Seguita a lamentarsi, ad un certo punto diventa pesantissima. Non ce la faccio più, mi si chiudono gli occhi, non mi interessa un fico secco delle sue frustrazioni e insoddisfazioni. Ma dico, come si può aprirsi fino a tal punto con una persona mai conosciuta prima? Sarà per il fatto che sono molto riservata, ritengo che determinate cose siano solo mie e basta, non mi verrebbe mai in mente di sfogarmi con una sconosciuta che fa di tutto per far declinare il discorso.

Viaggiando in treno ho scoperto la bellezza dei posti che mi circondano, poiché, avendoli attraversati sempre in auto non avevo mai avuto il piacere di ammirare fino in fondo.

L’ Appennino abruzzese è davvero affascinante, anche se un po’ mi fa paura percorrere questo pezzo di strada per le precarie condizioni in cui versano alcuni tratti di montagna. Uno in particolare è rivestito da una rete per salvaguardare l’autostrada da eventuali frane e massi che potrebbero scendere giù da un momento all’altro.

Fino a Sulmona il sole fa capolino, e poi d’improvviso scompare dietro questa o quella cima innevata. Non lo preferisco questo tratto, perché è attraversato da tante gallerie che mi danno un senso di oppressione e soffocamento, ma già a qualche metro dalla fine s’intravede il chiarore dell’ adorato sole. Su una montagna c’è la figura di un orso bruno, massimo rappresentante delle nostre montagne, del famoso parco Nazionale d’Abruzzo. Non so esattamente come sia stato eseguito, forse con massi di pietra, con estrema precisione e amore verso la natura che è un bene inestimabile. A tratti s’incontrano pezzi di montagna brulli, dove tutto sembra bruciato, non si vede traccia di vita a parte qualche rara baracca qua e là.

Ogni tanto sembra quasi ci si scontri con paesini, che per la verità sono un insieme di non più di qualche casupola arroccata, quasi vogliano arrampicarsi e a stento riescono ad abbarbicarsi in quel piccolo tratto scosceso. Sembrano poggiati lì, così, a caso da una mano sconosciuta. Sono case dalle mura vecchie, vecchissime tanto che per l’umidità si forma del muschio fra le insenature di una pietra e l’altra. Riesco quasi a percepirne il profumo di un verde intenso mescolato all’odore tipico della muffa. Allora immagino il viso delle persone che abitano in questi posti, in queste case fredde e abbandonate da tutti ma non da loro che nonostante tutto sono legate alle tradizioni e al loro focolare domestico. Vecchiette vestite di nero, la fronte coperta da rughe nate chissà da quali sofferenze e stenti di anni, indossano grossi fazzoletti che si stringono in un grande nodo attorno al collo che quasi non gli permette di respirare liberamente. Ma le vecchine sono felici così, non conoscono un altro modo di vivere e continuano a camminare chine piegate sulle ginocchia trascinandosi per le fatiche di una vita intera, ma non abbandoneranno mai la loro casa.

Superata Sulmona finalmente il sole. Il caldo tepore marino si riverbera nell’aria, si percepisce l’odore intenso di salsedine man mano che ci si avvicina alla costa. Qui si respira un’aria del tutto diversa, un’aria salubre, solare, ricca di vita e di colori dorati.

La sabbia è ancora bianca, è fredda, aspetta che giunga il suo amante che dall’alto la riscaldi col suo fuoco.

E sono ancora lì che aspetto il treno per compiere il tragitto inverso dopo aver concluso un bel nulla. Certo osservare il paesaggio ti riempie i sensi, ma farlo proprio con la felicità di aver raggiunto uno scopo è un sogno ancora.

Basta, decido di finirla. “È stata tutta colpa mia, per non avere avuto il coraggio di abbandonare tutto da un bel po’ di tempo.

Cambio itinerario, parto in quarta, e, senza pensarci due volte mi reco dal Professore d’inglese, chiedendo a lui la tesi. Detto fatto, si mostra disponibilissimo, concordiamo il titolo, dopo di che mi assegna la bibliografia da fare ed esaminare.

Finalmente torno a casa soddisfatta, sono serena, perché mi sembra di aver imboccato la strada giusta per fare un buon lavoro.

Che bello ora è tutto finito, ma ancora nulla è iniziato! Sono soddisfatta che un primo traguardo sia stato superato con successo ma tanta è la strada da fare ancora e…. se penso alla fatidica domanda “cosa vuoi fare da grande?” Beh, ancora non saprei, perché non vorrei mai diventare grande o essere considerata come tale, voglio solo star bene, essere felice, felice, felice.

Quel giorno mi sembra un sogno.

“Come farò in soli dieci minuti a spiegare agli altri il mio lavoro di mesi, a renderli partecipi?” Non faccio in tempo nemmeno a poter immaginare la risposta che sono distolta dal sorriso della professoressa che è un tutt’uno col suo sguardo d’intesa mentre raggiante come al solito, quasi cantando mi raccomanda: "non sparare millecinquecento parole al secondo”.

E, prima ancora che possa realizzare è tutto finito.

Riesco a tenere in dosso la toga un po’ di più, solo perché mi trattengo a fare le foto, sbadatamente come al solito, senza pensare che serve anche agli altri, quando un professore mi dà uno strattone e, quasi spogliandomi viene a riprendersela.

Se solo penso a quanta fatica, quanti viaggi inutili. Ed è tutto finito così, senza neanche il tempo di rendermene conto. Ce l’ ho fatta!

E se ora potessi esprimere un desiderio vorrei che i genitori di Margherita potessero perdonarmi, so che è una richiesta impossibile, anche io, probabilmente al loro posto non riuscirei a farlo, ma almeno vorrei chiedere loro perdono, supplicandoli di provare  a capire.

Ma che dico, probabilmente al loro posto non riuscirei a farlo? Non ci proverei per niente, non vorrei neanche sapere il nome del colpevole, dell’assassino. Un figlio è la cosa più preziosa che ci sia al mondo ed esserne privati per sempre a causa di un incidente è doloroso, ma maledettamente drammatico è essere testimoni di una simile tragedia. Assistere con i propri occhi alla morte di una figlia, accarezzarla amorevolmente e pregare fino all’ultimo, mentre lei completamente insanguinata sta emettendo l’ultimo sospiro, perché consapevole che sarà l’ultimo.

Vedere tua figlia devastata in ogni parte del corpo, col ventre squartato, dilaniata e lacerata, che con le ultime forze ti afferra, grida e invoca supplichevole ancora vita, come fossi tu a dover decidere quale dado trarre, se morte in vita o vita in morte, quella vita che non l’ ha voluta, che l’ ha rifiutata così presto, in maniera così crudele.

E come l’ hai abbracciata per la prima volta nuda e piccola, ignara del mondo, di tutto ciò che l’aspettava, rossa in volto e paonazza per la fatica di uscire, allo stesso modo ora la stringi perché l’ hai conosciuta, perché ti ha dato gioie e dolori mentre ti rivolgi a qualcuno, non sai nemmeno tu a chi, purché la salvi. Vorresti morire tu al suo posto, o addirittura morire con lei. Anche ora è nuda e rossa per la fatica di lottare, per stare ancora qualche istante al mondo col corpo squarciato e il volto sfigurato.

Le sorreggi il capo amorevolmente, per alleggerirle la sofferenza, ma lei ormai non sente più nulla, neanche le tue parole, le parole più dolci che possano esistere, le parole di una mamma.

Mentre sei là, e sul grembo c’è la tua bambina priva di vita pensi a tutte quelle cose che non le hai mai detto, forse per vergogna, forse per timore, alle volte che invece di un ceffone avresti potuto dirle semplicemente ‘ti voglio bene ’. Quante cose avresti voluto fare, quante cose avresti voluto dirle. Non c’era tempo. E ora è tardi.

Non vuoi renderti conto che non c’è più nulla da fare, e continui a ripetere che presto tutto passerà, e che tutto sarà un brutto ricordo.

Lo è un brutto ricordo, uno dei più terribili, ora che lei non c’è più davvero. Un ricordo sempre più vivo, lacerante.

Ma la cosa peggiore è che proprio in quel momento, il più devastante della tua vita, c’è lei, l’assassina di tua figlia, colei che le ha portato via la vita.

È là, davanti a te.

Allora corri verso di lei, l’afferri, le gridi contro, la picchi, la prendi a calci. Ma nulla di quello che fai servirà a riportarti la tua Margherita.

Il destino, te l’ ha tolta, nessun altro. Non puoi prendertela con nessuno, perché potevi esserci tu alla guida di quell’auto e, non certo per tua volontà, ma per quella del fato uscire fuori strada.

Forse ‘questa’ vita non apparteneva a Margherita, forse ora lei starà meglio.

Dare colpa al destino, al fato è probabilmente un modo ‘comodo’ per togliersi di dosso il rimorso di questa o quell’azione, questo è sicuramente ciò che molta gente pensa e dice, ma, in molti casi è proprio il pensiero del fato e del destino a non farti affondare e a farti andare ancora avanti.

Finora non ho mai avuto il coraggio di chiedere perdono. Sono stata una codarda ma non ce l’ ho fatta  perché penso che non serva a nulla, al contrario complicherebbe solo la situazione più di quanto non lo sia già. Ciò provocherebbe più sofferenza  e riporterebbe in superficie ferite non rimarginate ma assopite.

Questo è il mio rimpianto: di non aver mai parlato con queste persone per non aver il coraggio di guardarle negli occhi perché in fondo al cuore so che non potranno mai capire.

Ecco, questa è la storia di una ragazza come tante, le cui vicissitudini e destino, l’hanno resa diversa ma non per questo aliena perché voglio continuare a dare tutte le forze che ho per realizzarmi come ho sempre fatto prima e dopo. E ora con più coraggio e grinta per potermi di nuovo guardare allo specchio ed essere soddisfatta di me visto che le cose non vanno sempre come vorremmo dovendoci trovare spesso a fare i conti con qualcosa che va al di là dell’umana dimensione. Carpe diem, per quanto è possibile! Sperando che l’attimo non afferri noi.

 

“Quando avete fissato la partenza?”

“Il diciassette pa, Venerdì 17”,

“che temerarie”. Sarà sicuramente una vacanza splendida!

“A proposito domani, in mattinata tieniti libera, non ci vorranno più di cinque minuti, c’è da fare il dissequestro dell’auto”.

Mio padre è seduto sul divano, come chi costretto a dire o a fare qualcosa che mai avrebbe voluto. Cerca di essere il più naturale possibile, ma fiutare il suo disagio dissimulato dalla compostezza non mi è mai stato così difficile. Le gote ancora più rossicce del solito, il suo fare frenetico per spegnere il mozzicone tradiscono l’apparente tranquillità. “Ok, pa”, rispondo con estrema freddezza.

Una preda ormai morta come potrebbe provare dolore soggetta allo smembramento di un avvoltoio, e ancora un altro, e poi di un altro ancora, se il suo sangue è già stato succhiato interamente e la sua anima spolpata dal corpo.

Il caldo sole di luglio sembra non trovar posto in questi grossi e tetri  uffici.

Si presenta un poliziotto giudiziario e ci fa strada. Un bunker sarebbe di gran lunga più accogliente e rasserenante.

"No". Il braccio di mio padre che stava per aprire una porta si blocca a quel no secco e freddo, come se avesse commesso non so quale gesto criminoso.

“No, non quella porta” grida il poliziotto basso e tarchiato i cui occhi a malapena fuoriescono dalle grasse gote di un rosso intenso come riflettessero il bagliore di un fuoco tanto intenso  quanto accecante da far pensare al demoniaco traghettatore infernale, non fosse altro per la sveltezza goffa con cui ci chiude le porte alle spalle quasi voglia portarci senza perder tempo alla meta temendo una nostra possibile fuga.

I corridoi sono interminabili, bui, lugubri, ho la pelle d’oca, non so se più per il freddo o per lo sguardo glaciale dell’uomo.

Eccoci qui, dopo un’interminabile cammino e porte che ci si chiudono alle spalle dando l’impressione di non volerci più mandar via, ed altre che si aprono per imprigionare  una lepre spaventata che fugge senza tregua cercando di schivare trappole o possibili predatori in agguato.

Sono seduta di fianco a mio padre e abbiamo di fronte due uomini della polizia giudiziaria.

Quello più basso e grassoccio non ne ha proprio l’aria, sembra piuttosto uscito da una cantina sociale. Tanto sono grasse le sue guance che si fa fatica a distinguerle dal naso, goffo nei movimenti, impacciato nel parlare. Sembra non essere sicuro neanche lui di ciò che farnetica.

Dopo varie incertezze- considerata la sua totale inettitudine- telefona al comando della stradale che, per prima accorse immediatamente sul luogo dell’incidente e che fece i vari rilievi. Lo si sente alzare la voce ed inveire contro quel poverino che è all’altro capo del telefono, quanto basta per farsi mandare gratuitamente all’altro paese.

Tre volte consecutive è costretto a chiamare dalla sua negligenza perché non riesce a capire l’altezza esatta dell’autostrada lungo la quale era avvenuto l’incidente. Dopo vane imprecazioni, si rivolge con fare arcigno a me e mio padre: “ma non potete andare voi a prendere tutti i documenti, invece di farceli inviare, evitando questi malintesi? Sarebbe più semplice, no?”

“Più semplice per chi?" Rispondo senza lasciare a mio padre il tempo di parlare.

“Le sembra professionale da parte sua, questo è il suo lavoro, non vedo perché non possa farsi mandare i documenti com’è giusto che sia, non ritengo sia una cosa così difficile e impossibile da fare, la pagano per questo”.

La goccia che fa traboccare il vaso è quando mi chiede le generalità dell’incidente. Prima di avere il tempo di aprir bocca, il collega gli spiega chi sono, rimembrandogli il tanto discusso incidente.

L’omaccio mi guarda come chi ha di fronte un’assassina, una poco di buono, e fa un cenno col capo pesantissimo, (non certo di materia grigia) come se volesse dire “che hai combinato, cavoli tuoi”.

Io lì, zitta, ma la rabbia pian piano aumenta fino a farmi arrivare una vampata di calore “ma come ti permetti brutto ignorante, buzzurro?” Avrei voluto gridargli.

Chissà per quale motivo ricopre questa carica, ma una cosa è certa, al posto di quell’ignorante ci potrebbe essere chiunque altro più meritevole e con un minimo di umanità.

Il nervosismo passa non appena esco dall'ufficio, perché inizio a pensare che l'indomani sarebbe iniziata la mia lunga vacanza.

"Emanuela ma ancora non inizi a preparare nulla?"

"Ma mami, ho l'intero pomeriggio!"

"Sì, l'intero pomeriggio, non dimenticare che devi preparare le valige, hai appuntamento dall'estetista, devi comperarti shampoo, bagnoschiuma e prodotti vari, sto solo facendoti un promemoria, intimando di muoverti. Dici sempre di avere tutto sotto controllo, di essere pronta e alla fine c’è tutto da fare, e poi lo sai, metti in conto gli inconvenienti dell’ultimo momento”.

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