V.2   Come l’espressione verbale della Scrittura: storico-metaforico-polisemica, così l’espressione figurativa dell’opera d’arte, iconìa del cosmo della Fede

Archivio SMN I.C.102 B 74r Locutus est Dominus (resp. dom. Quinquag., la fede d'Abramo). Racconto per immagini della historia salutis dall'alto in basso lungo il tracciato verticale della L, muovi a destra nella base, e richiudi verso l'alto a sinistra.Tommaso d’Aquino, fin dalla questione che apre la Summa theologiae, si chiede se nel ‘linguaggio’ della sacra Scrittura è opportuno far ricorso alle ‘metafore’ - come avviene nel parlare comune e nella maniera espressiva della poesia [11] -, e alla ‘polisemia’ dei ‘quattro sensi’.

Il Dottore domenicano risponde ai due quesiti in consonanza con Dionigi Areopagita, il ‘maestro’ di ermeneutica teologica per eccellenza (cfr. VII, 1).

       Alla prima questione: “Se la sacra Scrittura debba usare metafore”, Tommaso dà la seguente soluzione: “È conveniente che la sacra Scrittura ci presenti le cose divine e spirituali sotto la figura di cose corporali [...], perché ogni nostra conoscenza ha inizio dai sensi. È ciò che dice Dionigi [Caelestis Hierarchiae [cap. 1]: Il raggio divino non può risplendere su di noi se non attraverso la varietà dei santi veli [12].

       Alla seconda domanda: “Se un medesimo testo della sacra Scrittura abbia più sensi”, l’Aquinate risponde: “L’autore della sacra Scrittura è Dio. Ora, Dio può non solo adattare parole(-voces) per esprimere una verità, ciò che può anche l’uomo, ma anche le cose stesse(-res ipsae). Quindi, se nelle altre scienze - si noti il riferimento alla ‘sapienza secolare’ (cfr. III, 2) - le parole hanno un significato, la sacra Scrittura ha questo in proprio, che le cose stesse indicate dalla parola, alla loro volta ne significano un’altra. L’accezione ovvia dei termini, scondo cui le parole indicano la realtà, corrisponde al primo senso che è il senso storico o letterale. Usare invece le cose stesse espresse dalle parole per significare altre cose si chiama senso spirituale, il quale è fondato sopra quello letterale e lo presuppone” [13].

       La ‘struttura’ dunque del linguaggio biblico - che con la terminologia di F. de Saussure si può esplicitare come ‘struttura delle immagini acustiche della sacra Scrittura’ (cfr. IV, 3) - richiede ‘immagini corporee’, cioè la metafora.

       Parimenti, comportano la ‘metafora’ le immagini visive delle opere-figurative-di-Fede, perché la relazione di somiglianza - e la metafora è ‘similitudo brevior’ [14] - è iscritta nella ‘conditio corporalis’ della loro ‘impressione-anatyposis’ (nella materia) ed ‘espressione-ektyposis’ (dalla materia): che sono lessemi del linguaggio dei Padri del Niceno II - ed anche di Benedetto Croce (cfr. IV, 3).

       Inoltre, il ‘modus loquendi’ della Parola di Dio non può se non   specchiare qualcosa dell’infinito ‘intelligere’ del Rivelatore, “il quale comprende simultaneamente col suo intelletto tutte le cose”. Postula, dunque, la ridondanza di significati (lo storico, il morale, l’allegorico e l’anagogico), cioè una ‘pluralità’ di significazioni ‘non equivoche’, perché di numero volutamente  determinato: quattro sensi (appunto), e ‘regolate’  dal “primo senso che è il senso storico o letterale”, da cui non può prescindere il senso spirituale, che sulla significazione storica ha ‘fondamento e presupposto’ [15].

        Siffatta ermeneutica, valida per il cosmo letterario della Bibbia e del cosmo dell’arte figurativa che ne è ‘iconìa’, è chiaramente descritta da Tommaso.

       “La moltiplicità di tali sensi non porta all’equivoco o ad altre anfibologie, poché questi sensi non si moltiplicano per il fatto che una medesima parola significa più cose; ma semplicemente perché le cose significate dalle parole possono essere un segno di altre cose. E così non c’è da temere delle confusioni nella sacra Scrittura,  perché tutti gli altri sensi si fondano su un solo senso, quello letterale, dal quale solo è lecito argomentare, e non già dal senso allegorico, come nota s. Agostino. Né per questo viene a mancare qualche cosa alla sacra Scrittura, perché niente di necessario alla fede è contenuto nel senso spirituale, che la sacra Scrittura non esprima chiaramente in senso letterale in qualche altro testo” [16].

       La s. Scrittura  è dunque polisemica, ma non è ‘opera aperta’, cioè non dà adito ad una pluralità di significazioni che valichi i confini dei ‘quattro sensi’ (cfr. sopra).

            Umberto Eco - adduco la testimonianza di un semeiotico contemporaneo e studioso della ‘estetica’ di san Tommaso - riconosce e difende nella Divina Commedia i solo ‘quattro sensi’, che egli studia  interpretando  la ‘volontà d’arte’ del ‘theologus Dantes’.

            “Il tipo di comunicazione poetica cui aspira la poesia dantesca esige dal lettore una risposta di tipo univoco: il poeta dice una cosa e spera che il lettore la colga così come egli l’ha intesa dire. Anche quando prospetta la teoria dei quattro sensi, Dante non esce da questo ordine di idee: la poesia può essere interpretata in quattro modi perché mira a stimolare la comprensione di quattro ordini di significati, ma i significati sono quattro, e non più, e tutti e quattro  sono previsti dall’autore che cerca anzi di orientare il lettore alla loro esatta comprensione” [17].

       Dunque, anche le opere figurative, ‘intuite’ nel contenuto di Fede ed ‘espresse’ in armonia con la Fede, non possono che ‘con-formare i loro schemi formali-semantici-simbolici - anche nel modo di significare polisemico - al loro ‘esemplare’, appreso mediante ‘immagine acustica’.

       La Fede, infatti, proviene “dall’ascolto, e l’ascolto per mezzo della Parola di Cristo: Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi” (Lettera ai Romani 10, 17). E le opere d’arte, dipendenti da tale ‘ascolto’ - come da loro ‘luogo di intuizione’ (quanto al soggetto) e di ‘invenzione’ (quanto allo stimolo alla formazione degli schemi visivi) -, ne sono  ‘Tradizione non- scritta’ (cfr. IV, 1-3), e ne connotano il gioco-serio - come ‘gioco’ è detta l’arte della Sapienza “quando  metteva in ordine tutte le cose davanti a Dio ed in tutto il mondo” [18] - di ‘significanti-referenti’, cioè di ‘signum-signatum’, di rimandi alla ‘mimèsi-anamnèsi’, di rapporti di ‘tipo-antitìpo’, di confronti delle parti che vengono ‘con-giunte’,  come richiesto dalla natura del ‘simbolo’ (da syn-’con’ e bállô-‘pongo’; in latino: con-fero) e dalla ‘forma-tutto (o sinolo) di ‘segni stilistici-segni iconografici-segni simbolici’ (vale a dire di ‘preiconografia-iconografia-iconologia-iconoteologia’), unificati dalla ‘volontà dell’artista-Künstlerwollen di esprimere e manifestare ‘in’ essi la sacra Scrittura (cfr. III, 2).

       Pertanto, l’iconopoieta, il cui imprimere-esprimere ‘nella-dalla’ materia è comandato dalla ‘estetica-cognitio sensibilis, quando porge l’orecchio alla Parola della sacra Scrittura deve ‘ascoltarla-nella-Fede’; e poi, nella inventio-formatio fantastica ed ideale insieme, bisogna che passi concretamente l’immagine acustica al crogiuolo della ‘metamorfosi’.

       In tal modo avviene che l’espressione della sostanza sonora del cosmo scritturistico riluce nello splendore della forma della sostanza-visiva del cosmo pittorico-scultorio-architettonico, cioè nell’immagine concreta ed individua, mimèsi (appunto) della luce di Fede, ‘intrinseca’ alla Parola ed ‘effusa’ da essa alla maniera del Sole-Bene delineato da Dionigi Areopagita [19].

       Insomma, è dell’iconopoièta far sì che nella ‘opera-effectus’ appaia diafana e come in prospettiva la fonte ‘origine-causa’ in tutta la plenitudine di Parola divina, capace di muovere e commuovere sia il fruitore che il critico, se si lasciano guidare dalla intuizione plastico-operativa, nel cui trascorrere da schema a schema, da parte a parte nell’equilibrio del ‘tutto’ si gusta  la ‘verità di visione’ (cfr. I, 1).

       La ‘recta ratio’ o artisticità o formatività o preiconografia o tecnica (o comunque la si vuol chiamare), per sé ‘forma vuota’, bisogna che pervenga, se il ‘facere-agere’ non è conato insufficiente, e quindi ‘non riuscito’, a trasformare-metaforizzare-poetizzare il significante-significato-contenuto della Parola rivelata; mentre  l‘artista-persona e la persona-artista si deve in sincronia di relazione lasciare ‘attuare’, cioè riempire-assimilare-mimetizzare (appunto), così che nella per-spectio ermeneutica dei ‘santi veli’ della forma “risplenda il raggio della verità divina” [20].

       Dinanzi a siffatta ‘nuova forma’ sia il fruitore ‘illetterato’ [21] - e/o il cosiddetto ‘semplice’ per mancanza di istruzione quanto alla lingua alfabetica [22] -, sia coloro che sanno congiungere il vedere e l’ascolto esperiscono che le immagini ottiche sono relative (cioè ‘segno-che-rimanda‘) alla Parola, e che questa è la misura-‘recta ratio’ cui si è conformato l’artista nell’autonoma interpretazione-produzione-espressione dell’opera, in cui permane e continua la ‘enèrgeia’ del mistero della rivelazione divina.

       In altre parole, nell’opera visiva iconìa del Vecchio e Nuovo Testamento sia il creatore di essa, sia colui che la guarda o analizza criticamente, non possono scindere l’ermeneutica della ‘forma’ dal suo essere ‘segno’ della storia della salvezza, né il ‘tema’ dalla sua ‘forma’ che l’ha reso artisticamente fruibile: ‘la forme se signifie’ e ‘le signe est référence’ - insegnava H. Focillon [23].

       Insomma, il ‘sistema verbale’ ed il ‘sistema visivo’ si implicano così che l’uno è ‘impressione’ e ‘scala’ dell’altro, sia che questa la si salga ascendendo per la via all’insu del processo critico: dall’espressione visiva all’intuizione dell’ascolto, sia che la si discenda per la via all’ingiù del processo formativo dell’artista: dall’intuizione-impressione provocata dalla Parola alla ‘forma’ ottica creata dall’artista (cfr. I, 2).

       Ed in questo si rinnova, in qualche modo, nell’iconopoieta e nel riguardante, l’esperienza dei veggenti-profeti, i quali ‘vedono-dicono/dicono- vedono’ il messaggio divino. Giovanni (ad esempio), l’autore del libro dell’Apocalisse, avverte all’inizio dell’opera che egli ha ricevuto il comando di ‘scrivere’ quanto ha ‘veduto’: “Scribe ergo quae vidisti” (Apoc. 1, 19); e nel licenziare il suo scritto si qualifica come colui che ha ascoltato e che ha veduto: “Ego Ioannes, qui audivi et vidi haec” (Apoc. 22, 8) [24].

            Dunque nell’opera-d’arte-di-Fede l’estetica-della-visione e l’estetica-dell’ascolto - le ‘due vie’ ermeneutiche  ed omologhe indicate dal Concilio di Nicea II (cfr. IV, 3) - custodiscono intatto nella verità e nella bellezza il reale (potremmo anche dire la ‘Gestalt’) della Rivelazione vista e/o ascoltata, perché ambedue ‘chiamano’ - si ricordi l’etimologia greca di ‘bello’ da kaléô: chiamare - e sollecitano i credenti a non restare fermi all’immagine, né quella visiva né quella acustica, ma ad elevarsi con queste due ali (per dirla con Platone) alla contemplazione degli ‘archetipi-prototipi’.

            “Il raggio della divina rivelazione - riporto le parole di Tommaso a compendio di quanto considerato - non si distrugge, come nota lo stesso Dionigi, sotto il velame delle figure sensibili, ma resta intatto nella sua verità; e così non permette che le menti, alle quali è stata fatta la rivelazione, si arrestino all’immagine, ma le eleva alla conoscenza delle cose intelligibili: e fa che per mezzo di coloro che direttamente hanno avuto la rivelazione anche gli altri si istruiscano su tali cose. Così avviene che quanto in un luogo della Scrittura è insegnato sotto metafora, è esplicitamente espresso in altri luoghi. Del resto la stessa oscurità propria delle figurazioni è utile per l’esercizio degli studiosi, e contro le irrisioni degli infedeli” [25].

            Osservazione, quest’ultima, quanto mai attuale.

            L’esercizio degli studiosi’, cioè (nel nostro caso) degli artisti, ed in modo peculiare degli artisti della postmodernità, lo ‘vediamo’ nello ‘straniamento’ che viene dato alla ‘forma’, al fine di creare (come ha interpretato W. Benjamin) nuove strategie di attenzione, ed evitare in tal modo la percezione-fruizione ‘dis-tratta’, che  insorge dinanzi ad un certo tipo di arte accademica e convenzionale, che talvolta appare banale o addirittura ‘Kitsch’, che è produzione non solo dal ‘gusto sgradevole’ ma addirittura “mancanza-di-arte: Unkunst[26].


[11] Tommaso distingue la funzione che ha la metafora nell’arte poetica, e quella che ha nel linguaggio della sacra Scrittura: “Il poeta usa metafore per il gusto di costruire delle immagini, infatti il raffigurare è all’uomo naturalmente piacevole; mentre la sacra Scrittura fa uso delle metafore per necessità e per utilità”: I p., q. 1, a. 9, ad 1. - L’ermeneuta ed il critico d’arte che non si sottrae al compito dell’interpretazione ha il compito di distinguire-unire il fatto poetico e quello dommatico quando esaminano le immagini-iconìa della sacra Scrittura (IV, 2).

[12] Thomas Aq., Summa th., I p., q. I, a. 9. - San Tommaso nel “Sed contra” dell’articolo citato corrabora tale ermeneutica con l’autorità di san Gregorio Magno: “Dice san Gregorio [20 Moralium , cap. I] : La sacra Scrittura per il modo stesso di esprimersi sorpassa tutte le altre scienze: poiché in uno stesso e identico discorso mentre racconta un fatto enuncia un mistero”.

[13] Thomas Aq., Summa th., I p., q. I, a. 10.

[14] M. F. Quintiliani, Institutionis oratoriae libri, VIII, 6, 8: “In generale la metafora è una similitudine abbreviata: In totum metaphora brevior est similitudo”. Si abbia presente che Quintiliano pone ‘una distanza’ tra la la ‘similitudine’ e la ‘metafora’: “per mezzo della similitudine facciamo un paragone con la cosa: illa comparatur rei, quam volumus exprimere”, “la metafora invece prende il posto della cosa stessa: pro ipsa re dicitur”. 

[15] Cfr. il testo sopra citato dalla Summa th., I p., q. I, a. 10. 

[16] Thomas Aq., Summa th., I p., q. I, a. 10.

[17]  Umberto Eco,  La definizione dell’arte, ed. Garzanti, Milano 1978,  p. 164. - Si consulti di U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Valentino Bompiani ed., Milano 1970. In questo saggio, Eco intende perseguire la ricerca ‘storica’ della mens di Tommaso sull’estetica - che  è alla base di ogni ulteriore ‘interpretazione’. Lo Studioso, però, nutre una certa dffidenza nei confronti degli ‘interpreti’ neotomisti.   Egli, infatti, non sempre pone in prospettiva (per così dire) le ‘varianti’ dei testi tomasiani sviluppate ed interpretate dai discepoli dell’Aquinate. Tali ‘varianti’ - ovviamente con le dovute e palesi eccezioni -  sono da giudicare ‘qualitas’ intrinseca al metodo (in quanto tale) del Dottore domenicano. Di tali ‘varianti’ i neo-tomisti si ‘servono’ occasione data (diacronicamente, appunto) per chiarire e/o applicare i  principi filosofici e teologici del Maestro. Pertanto (in questi casi) non sono  da ritenere sic et simpliciter cambiamento della ‘mens’ dell’Aquinate. E questo Eco lo ha talvolta rilevato. Ad esempio nel Commento di Tommaso ai Nomi divini: qui Eco afferma “che l’atteggiamento tomista di fronte al testo dionisiano consiste appunto nel tentare di ridurre a delle categorie omogenee, l’affabulazione mistico-metafisica del Dottore orientale” (p. 46). Tommaso, infatti, non si limitava ad operare la ‘reductio’ della ‘sapienza secolare’, ma la estendeva anche alla ‘sapienza teologica’ di Dionigi - come di Agostino o di Gregorio Magno - per mostrare l’armonia delle proprie intuizioni con la ‘tradizione’ dei precedenti cultori ed interpreti della sacra dottrina. U. Eco, d’altra parte, riconosce la ‘virtualità’ dei principi dell’estetica di Tommaso, capaci di entrare nelle ‘nuove’ prospettive dell’estetica, formulate nel corso della storia e fino ai giorni nostri. Egli constata che l’estetica di Tommaso “non ha cessato d’influenzare il pensiero contemporaneo”. E fa i nomi di James Joyse: “scrittore d’avanguardia che fonda la sua poetica giovanile sull’estetica scolastica”, e di  Gerald Hopkins. Ed annota: “basterebbe vedere come elementi delle retoriche medievali, mutuati ad esempio dagli studiosi della scuola di Chicago, si insinuano nelle poetiche del new criticism o addirittura - revival recentissimo - come Tommaso d’Aquino ritorna attraverso la mediazione di Marshall Mc Luhan ad abitare persino le discussioni sull’universo dei mass media, per renderci conto che questo filosofo, anche quando parla di estetica, non è un fantasma da biblioteca” (p. 8).

[18] Proverbi 8, 30-31. “[Sapientia] cum eo [Deo] eram, cuncta componens. Et delectabar per singulos dies, ludens coram eo omni tempore, ludens in orbe terrarum”.

[19] Dionigi Areopagita, Circa i divini nomi, cap. IV (693b): “Come sopra la nostra terra, non per effetto di una cogitazione o d’una sua volontà, ma per il fatto di sua esistenza, il sole sua luce apporta verso tutte le cose, suscettive di partecipare alla luce di lui, secondo propria ragione: alla stessa guisa anche il Bene (più alto del sole, nel rapporto con cui l’archetipo sublime, per il fatto di sua esistenza soltanto, supera la pallida immagine) a tutti gli enti in piena corrispondenza diffonde i raggi di sua totale Bontà”:  in Dionigi Areopagita. Le opere, cit., p. 224. - Il neoplatonico e dionisiano Marsilo Ficino lodava il passo dell’Areopagita, ora citato. “Non senza ragione Dionisio agguaglia Iddio al Sole: imperocché si come il Sole illumina i corpi e scalda: similmente Iddio, lume del vero agli animi concede e ardore di carità”: cfr. Marsilio Ficino, Sopra lo amore, ovvero Convito di Platone, ES  ed., Milano 1992, cap. II, p. 30.

[20] Tommaso D’Aquino nella Summa th., I p., q. 1, a. 9: commenta il passo di Dionigi: “Convenienter in sacra Scriptura traduntur nobis spiritualia sub metaphoris corporalium. Et hoc est quod dicit Dioysius, 1 cap. Caelestis Hierarchiae: Impossibile est nobis aliter lucere divinum radium, nisi varietate sacrorum velaminum circumvelatum”.

[21] Gregorio Magno, Epistolarum lib. IX (ep. 105) e lib XI (ep. 13) in Migne, Ser. Latina, t. 77, col. 1027-1028, e col. 1128-1130: “Quod legentibus scriptura, hoc idiotis praestat pictura cernentibus, [...] ut hi qui literas nesciunt, saltem in parietibus videndo legant, quae legere in codicibus non valent”. Cfr. anche Ioannes Beleth, Summa de ecclesiasticis officiis, ed. Douteil H., Turnhout 1976, cap. 85, p. 154: “Scriptura autem laicorum in duobus consistit: in picturis et ornamentis. Nam, ut ait Gregorius [citazione ad sensum da Epist. lib. XI, ep. 13], quod est clerico littera, hoc est laico pictura”.

[22] Thomas Aq., Summa th., III p., q. 66, a. 10: “I semplici che non hanno cultura, bisogna istruirli per mezzo di segni, come pitture e cose simili” - In una visione ancora più generale s. Tommaso chiariva la ‘convenientia’ del linguaggio scritturistico a servirsi di ‘immagini corporee’ per presentare la realtà spirituale, e questo massimamente  a favore dei ‘rudes’. Anche in questo caso notiamo l’analogia tra ‘espressione pittorica’ ed ‘espressione linguistica’. Cfr. Summa th., I p., q. I, a. 9: “È conveniente che la sacra Scrittura,  che è un tesoro comune a tutti (secondo il detto dell’Apostolo ai Romani 1, 14: ‘Io sono debitore ai sapienti e ai non sapienti’, ci presenti le cose spirituali sotto le parvenze corporali, affinché almeno in tal modo le persone semplici la possano apprendere, non essendo idonee a capire le cose intelligibili così come sono in se stesse”. -  Hans-Georg Gadamer, in Die Aktualität des Schönen (Ph. Reclam, Stuttgart 1986) trova il motivo della “giustificazione-Rechtfertigung’ dell’arte dell’Occidente - anzi “uno dei più autorevoli Laitmotive” - nella c. d. “Biblia paurerum”, cioè della “Bibbia dei poveri, che non sapevano leggere il latino, e quindi non erano in grado di comprendere bene la lingua dell’annuncio evangelico”, p. 4.

[23] Philippe André-Vincent, nell’articolo Pour une théologie de l’image, in “Revue Thomiste” (a. 1959), pp. 320-338, cita H. Focillon, Vie des formes (Paris 1934), ov’è detto: “La forme se signifie”; mais le signe est tout entier hors de lui-même; il est référence: il n’existe que par le signifié. Or la noblesse du signifié élève le signe au-dessus de la forme. L’image est constituée par le mystère qu’elle signifie, elle vit par cela dont elle est l’image. Elle est forme mais elle est signe d’abord” (pp. 320-321). - Con questa citazione André-Vincent intendeva confermare la sua personale osservazione. “En tant que forme l’image n’a pas de rapport au mystère, si ce n’est comme à son sujet, et la Vierge peut n’être qu’un prétexte pour Raphaël; en tant que signe au contraire l’image appartient au mystère. Forme et signe, l’image porte en elle-même comme deux natures. La forme vit indépendamment du sujet, elle est toute en elle-même, elle ne désigne qu’elle-même”. - Per avere una iconoteologia, difatti, occorre che l’espressione figurativa o plastica non sia soltanto ‘forma’: in questo caso essa consumerebbe se stessa in se stessa; ma bisogna che sia anche (ed una simul) ‘forma-segno’, perché soltanto il segno porta al di là, stabilisce il rapporto dedans (-forma-segno)-dehors (-referente), che è la fede (ed in generale la prospettiva storico-culturale).

[24] Sulla modalità con cui il profeta ‘ascolta’ e/o ‘vede’, cfr. la chiarificazione di Tommaso, nella quale si può intravvedere l’analogo (in campo praeter-naturale, cioè nella formazione ‘divinitus’ dei fantasmi) del ‘processo creativo’ dell’artista nell’acquisizione adeguata (‘naturaliter’) delle ‘apparenze: species’ sensibili. “Talora si formano per virtù divina nella immaginazione dell’uomo anche immagini sensibili (“phantasmata”), assai più espressive  delle cose dvine, di quel che non siano quelle che ricaviamo naturalmente dalle cose esterne (“a sensibilibus”); come appare chiaro dalle visioni profetiche. E qualche volta Dio forma anche delle cose sensibili (“res sensibiles”), come pure delle voci, per esprimere qualcosa di divino; così nel battesimo di Gesù, lo Spirito Santo, apparve sotto forma di colomba, e fu udita la voce del Padre: Questi è il mio figlio diletto  [Matteo. 3, 17]”: cfr. Thomas Aq., Summa th., I p., q. 12, a. 13.

[25] Thomas Aq., Summa th., I p., q. I, a. 9, ad 2.

[26] H,-G. Gadamer, Die Aktualität des Schönen, cit. p. 69.

precedente successiva