V

OMOLOGIA DELL’ESPRESSIONE-VERBALE DELLA FEDE
CON L’ESPRESSIONE-FIGURATIVA DELL’ARTE

V.1  La formazione dell’immaginario cristiano ‘catartico’ di contro all’immaginario pagano ‘acatartico

Archivio SMN I.C.102 B 74r Locutus est Dominus (resp. dom. Quinquag., la fede d'Abramo). Racconto per immagini della historia salutis dall'alto in basso lungo il tracciato verticale della L, muovi a destra nella base, e richiudi verso l'alto a sinistra.Quando esaminiamo l’esperienza che hanno avuto i discepoli di Cristo nella ‘intuizione-espressione’ del mistero della rivelazione evangelica, rimaniamo sorpresi dalla testimonianza che essi ne danno. Il loro è un ‘sentire-estetico’ (nel significato che ho cercato di chiarificare), esternato con linguaggio da Baumgarten  (cfr. IV.1-3).

            Si notino, ad esempio, nella Prima Lettera di Giovanni (1, 1-4) i quattro versetti di inizio.

            L’Apostolo, discepolo prediletto, per indicare la via della ‘conoscenza sensibile’  - che Baumgarten direbbe ‘cognitio inferior’ -, attraverso la quale è arrivato all’approfondimento della parola del Maestro, ricorre ai seguenti monèmi: ‘ascoltare, vedere, osservare-testimoniare con cura, annunziare’, specificati (quasi) pleonasticamente  come: ‘vedere con i nostri occhi, guardare attentamente e toccare con le nostre mani’: mezzi cognitivi nei quali e per i quali ha riconosciuto - e siamo alla ‘cognitio superior’ - ‘quello che era da principio, il Verbo di Vita, la Vita che si è manifestata, la Vita che era presso il Padre e apparve a noi’ [1].

            Il linguaggio ‘estetico’ viene così a fare da ordito alla conoscenza della Rivelazione, in un nesso che permette con-figurare il sintagma ‘estetica di Fede’ - cioè l’impressione risultante dall’immagine acustica-immagine visiva della ‘Parola’ - in ‘espressione sensibile’, forma-effetto dell’arte, perché l’ispirazione che pervade l’artista è talmente sincera ed intima da impregnare fantasia ed ideazione, e di muoverlo alla formazione-produzione dell’opera, così che  l’ostensione della forma realizzata è in grado di attuare il riguardante e di volgerlo alla contemplazione nella bellezza del mistero di Dio (si abbia presente l’enunciato di Baungarten: “arte di pensare nella bellezza: ars pulchre cogitandi’).

            Ben presto i seguaci del Signore, a cominciare dai testimoni oculari ed auriculari delle ‘opere mirabili: visibili ed invisibili’, cioè (ripeto ancora) estetici e di Fede: virtù questa teologale che è dimostrazione di realtà della storia della salvezza che non si vedono  (Lett. agli Ebrei 11, 1) -, dovettero difendere la loro esperienza e la predicazione del Vangelo dalla ‘estetica-dei-miti’ e dalle ‘immagini’ (soprattutto quelle scolpite, gli idoli) che qualificavano la cultura ed il culto dei pagani [2].

            Pietro, nella Seconda Lettera (1, 16-19), oppone ai “sapienti miti: doctae fabulae” - dei quali  dichiara vana la consistenza - la ‘potenza-presenza-grandezza’ del Signore Gesù Cristo, che egli ha potuto ‘attentamente osservare’, e del quale ha ricevuto conferma ‘sensibile-soprannaturale’ (‘estetica di Fede’, dunque) dalla “voce” del Padre [3].

            Paolo, strenuo assertore dell’eterna potenza di Dio e della sua divinità,   ‘visibili’ nella creazione e ‘conoscibili’ con la riflessione della mente: si ricordi la ‘estetica inferior-superior di Baumgarten (cfr. IV, 3); e predicatore di Cristo: “immagine di Dio” (2 Cor. 4, 4) ed “icona di Dio-invisibile” (Col. 1, 15), contesta la ‘catarsi-estetica’ teorizzata da Aristotele, e che i greci affermavano di beneficiare sia nella ‘estetica religiosa’, cioè nel ‘culto-sensibile’ degli dèi, raffigurati “a somiglianza dell’immagine” non solo dell’uomo soggetto alla corruzione, come avveniva nell’arte greca, ma anche a somiglianza dell’immagine dell’animale, ad esempio “degli uccelli dei quadrupedi e dei serpenti” (cfr. Romani 1, 23), come accadeva nell’arte egiziana.

            Anche in questo caso possiamo ritenere che Paolo intendesse riferirsi alle rappresentazioni ‘mimetiche’ (alla tragedia, soprattutto), che facevano parte integrante delle manifestazioni religiose. “Tragedia - scrive lo Stagirita - è opera imitativa di un’azione seria, completa [...], adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione, che tali patimenti rappresentati comportano” [4].

            Tale ‘culto’ e siffatta ‘poesia’ non portano alla ‘catarsi’ degli animi, afferma l’Apostolo, ma alla ‘a-catarsìa’, cioè (come viene tradotto il lessema greco in latino) alla “im-munditia” [5], sia perché l’idolatria e la cultura delle genti pervertono i pensieri inducendoli ad abbandonare ‘la verità di Dio’ per seguire il ‘mendacium’ della falsa religione, sia  perché corrompono i desideri del cuore provocando azioni ‘im-pure’ appunto, vale a dire (ed in senso filologico esatto) ‘a-catartiche’. 

            La ‘catarsia’ ormai si raggiunge solo nel lasciarsi ‘trans-formare’ dalla grazia. Nella Prima Epistola ai Tessalonicesi Paolo manifesta la chiamata di Dio come passaggio dalla ‘immunditia-acatarsìa’  alla ‘santificazione-agiasmós’: “Non enim vocavit nos Deus in immunditiam, sed in sanctificationem” (Tessalonicesi 4, 7).

            Dunque, la ‘catarsia’ è negativamente ‘aversio’, cioè liberazione dalla ‘acatarsìa’ (delle ‘rappresentazioni’ dei pagani), ed è positivamente  ‘participazione’ alla vita di Dio, alla sua ‘grazia santificante’, vale a dire (con terminologia pertinente alla iconoteologia) a divenire‘ con-formi alla immagine del Figlio di Dio [6].

            Nella condanna di Paolo delle ‘rappresentazioni religiose’ dei gentili udiamo una forte eco del ‘lógos’ di Platone, il quale opponeva i “miti bugiardi: mytoi pseudeis”, raccontati da Omero e da Erodoto, alla “verità: alétheia”; e rimproverava i ‘poeti’ di rappresentare gli dèi alla maniera di quei maldestri ‘pittori’ che eseguono ‘disegni’ per nulla somiglianti al modello; e proibiva che siffatte narrazioni venissero divulgate nella repubblica che egli prospettava perché i giovani non giustificassero i loro misfatti adducendo la “imitatio deorum” [7].

            “Le infermità degli dèi si attuano nelle nostre psicopatologie”, conferma ai nostri giorni lo psicanalista James Hillman [8].

            Paolo inoltre - sempre sulla scia ideale della cultura platonica ma sotto l’influsso esplicito della Rivelazione -, spiega ai Romani  (8, 29) qual è la mèta che si raggiunge con l’abbandono del ‘mendacium’ e con l’accettazione della ‘veritas’, cioè del progetto eterno di Dio Padre, che vuole i discepoli di Cristo “conformi all’immagine del Figlio suo”.

            L’Apostolo qualifica così in senso  neotestamentario le parole della Genesi (1, 26-27): “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza [...]. Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò”. Nella Prima Lettera ai Corinti (15, 49) l’Apostolo può quindi sintetizzare: “A quel modo che portammo l’immagine dell’uomo terreno [Adamo], porteremo pure l’immagine dell’uomo celeste [Cristo]”. 

            Anche in questi passi il linguaggio che Paolo utilizza appartiene al lessico degli artisti: ‘forma’ ed ‘immagine’.

            S’ingaggia così una lunga battaglia tra l’immaginario-pagano ed il nuovo immaginario-cristiano, che non ha avuto (e forse non potrà avere) termine. Tale scontro-superamento si effettua sull’esempio di Paolo con duplice strategia: l’una ‘destruens’ e l’altra ‘construens’, che talvolta si oppongono, ma tal’altra si intrecciano a salvaguardia e beneficio dell’apprensione del mistero cristiano e dell’espressione dell’annunzio nel decorso della storia, anche di quella dell’arte (Rom. 8, 29 ) [9].

            In queste riflessioni dell’Apostolo delle Genti mi appare corretto riscontrare la formulazione del principio generale e delle conndizioni che rendono possibile (e fondano) sia l’estetica filosofica-teologica nel dominio della natura. sia la iconologia-iconoteologia nel campo dell’arte.

            La dialettica paolina tra gli attributi invisibili di Dio che divengono visibili - cui ho accennato - conforta quanti ritengono che la ‘intuizione’ sensibile-fantastica-intellettuale-di Fede, che si produce nell’impatto conoscitivo del cosmo e dell’uomo e di Cristo, faccia intravvedere come in-trasparenza il mistero di Dio Creatore e Salvatore. “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà ed ingiustizia degli uomini, che tengono inceppata la verità nell’ingiustizia, mentre ciò che di Dio si può conoscere è ad essi manifesto. Fin dalla creazione del mondo, infatti, gli attributi invisibili di Dio, tanto la sua eterna potenza, come la sua divinità, con la riflessione della mente si ravvisono. Essi quindi sono inescusabili, perché conoscendo Dio, non lo onorarono come Dio, né gli resero grazie, ma vaneggiarono nei loro pensamenti e si ottenebrò la loro mente. Pur vantandosi sapienti, diventarono stolti” (Lettera ai Romani 1, 18-22).

            Gli esegeti reputano che in queso testo  Paolo esprima il duplice modo con cui si perviene ad una certa conoscenza di Dio: quello della ‘visione-intuizione’, che si consuma nella ‘presenza’ della cosa, e quello della ‘visione-intellettuale’, che nell’effetto (sia esso nella natura o nell’arte) vede  la causa come in uno specchio.

            Cito, come esempio, il commento del Gaetano (che non traduco per non far perdere l’esattezza filologica del linguaggio ‘estetico’). “Quae prius [Paulus] dixit invisibilia modo dicit conspici per ea quae facta sunt intellecta, ut intelligamus hinc duos modos manifeste cognoscendi. Alterum per modum visionis seu intuitus rei in seipsa. Et penes hunc dixit invisibilia. Alterum per modum clare quidem sed tamen in alio videndi: sicut videmus res in speculo, sicut conspicimus artem videndo effecta ab arte. Et penes hunc modum dicit conspiciuntur [10]. 


[1] 1 Giov. 1, 1-4: “Quod fuit ab initio, quod audivimus, quod vidimus oculis nostris, quod perspeximus et manus nostrae contrectaverunt de verbo vitae: et vita manifestata est, et vidimus, et testamur, et annuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud Patrem, et apparuit nobis”.

[2] Per illustrare i termini della presente ricerca, ricordo la diffusa interpretazione della mitologia, soprattutto delle teogonie e cosmogonie, come ‘teoria delle rappresentazioni religiose’: cfr. E. Cassirer, Linguaggio e mito. Contributo al problema dei nomi degli dèi, A. Mondadori ed., Milano 1968, p. 27.

[3] 2 Piet. 1, 16-19: “Non enim doctas fabulas secuti notam fecimus vobis Domini nostri Iesu Christi virtutem et praesentiam: sed speculatores facti illius magnitudinis. Accipiens enim a Deo Patre honorem et gloriam, voce delapsa, ad eum huiuscemodi a magnifica gloria: Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, iipsum audite. Et hanc vocem nos audivimus de caelo allatam, cum essemus cum ipso in monte sancto”. - Si noti che Cristo nell’esplicitazione del suo annuncio non fa ricorso a ‘miti’ ma a ‘parabole’, cioè paragoni o metafore che, al di là del significato in superficie del racconto, contengono un significato più profondo, al quale si arriva mediante una “transcodificazione allegorica”: cfr. A. Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, A. Mondadori ed., Milano 1978, alla voce ‘parabola’.

[4] Aristotele, Dell’arte poetica 6, 2, cit., pp. 18-19). Aristotele, inoltre, istituisce espressamente la proporzione tra la tragedia e la pittura: “Origine e quasi anima della tragedia è il racconto (‘mito’); seconda è la dipintura dei caratteri. E lo stesso avviene anche in pittura: se si stendono i più bei colori diffusamente, senza ritrarre un’immagine, non si soddisfa l’occhio nella stessa misura”: Dell’arte poetica, cit., 6, 10, pp. 24-25.. Si possono pertanto porre le seguenti equazioni: il mito sta alla tragedia come i colori stanno all’immagine, ed il racconto sta all’immagine come il carattere sta al colore.. - Il neoplatonico Giamblico ne “La vita pitagorica” attribuisce a Pitagora (concorde con la tradizione) la catarsi  delle anime e del pensiero, da raggiungere attraverso un continuo ‘addestramento’ o ‘preparazione’: “Per mezzo della musica egli [Pitagora] praticava la ‘preparazione’ (katártusis) delle anime”. Ed ancora: “Indirizzando verso l’intelligibile l’occhio dello spirito operava la purificazione (kátharsis) del pensiero”: cfr Giamblico,  La vita pitagorica, a c. di M. Giangiulio, Bibl. Univ. Rizzoli, Milano 1991,  XVI, 68 e 70, pp. 198-202. - Ernst Cassirer distingue troppo nettamente l’effetto catartico come ‘purificazione’ dall’effetto catartico come ‘elevazione’. Egli osserva: “Lasciando da parte ogni considerazione filologica, possiamo dire che, da un punto di vista sistematico, la ‘catarsi’ realizzata dalla tragedia o da qualsiasi opera d’arte non può essere intesa in senso morale, ed ancora meno in senso fisiologico. Non è una purificazione o una depurazione delle nostre emozioni. Significa piuttosto che le nostre emozioni vengono innalzate ad una condizione nuova [...] Quel che sentiamo qui [nell’arte] è la pienezza delle emozioni, ma senza il loro contenuto materiale”: cfr. E. Cassirer, Simbolo, mito e cultura, a c. di Donald Philip Verene, Laterza ed. Roma-Bari 1981,pp. 167-168. Ritengo che i due ‘influssi’: purificazione e/o elevazione, debbano essere considerati ‘concorrenti’ e concomitanti, in quanto la elevazione è purificazione e questa si risolve in quella con conseguenze che non possono non essere anche di ordine morale, come avviene, appunto, quando l’adesione a riti ripresentanti il mito conducono - secondo quanto afferma il testo di Paolo - ad una partecipazione che (dal punto di vista cristiano) inquina mente e cuore.

[5] Meraviglia che gli esegeti del testo di Paolo non abbiano messo in rapporto la ‘a-catarsìa’ delle pratiche del culto (anche quello incluso nelle manifestazioni artistiche) con la ‘catarsìa’ riconosciuta loro da Aristotele. Essi si sono limitati a spiegare le motivazioni della ‘stoltezza’ dei sapienti e della ‘immondezza’ dei cuori degli idolatri. Ad esempio Tommaso de Vio (Gaetano), che sulla scorta di L. Valla e di Erasmo si proponeva nella esegesi di ricercare la ‘veritas graeca’,  commenta: “In immunditiam. Ecce poena congrua. Ipsi [philosophi] quidem elevati fuerant in notitiam Dei, et noluerunt consequenter se disponere secundum illam notitiam: et propterea meruerunt subiici parti sensitivae. Congruum siquidem est ut qui noluerunt uti celsitudine intellectus, subiciantur vilitati et ignominiae sensuum”: Tommaso De Vio, Epistolae Pauli et aliorum Apostolorum ad graecam veritatem castigatae, In aedibus C. Guillard, Parisiis 1540, In epistolam Pauli ad Romanos, cap. I, p. 8v.

[6] Rom. 8, 29: “Quos praescivit et praedestinavit conformes (“proôrisen symmórphous”) fieri imaginis Filii sui”. 

[7] Platone, La Repubblica lib. II, 377c-378a-b: “Dobbiamo anzitutto stare attenti ai facitori dei miti [...].  Esiodo ed Omero e gli altri poeti  [...] hanno composto per gli uomini favole false [...]. Nel discorso si rappresentano [con immagini: eikazô] in modo sconveniente quali sono gli dèi e gli eroi, così come avviene quando un pittore disegna immagini che non hanno alcuna rassomiglianza con gli oggetti che intende ritrarre. [...] La più grande menzogna nei confronti degli enti più augusti è riferire quanto di disdicevole Esiodo afferma di Urano e della vendetta di Crono [...]. Queste cose non devono essere narrate nel nostro stato; né dev’essere detto ad un giovane ascoltatore che egli non commetterebbe ingiustizia nel compiere i massimi crimini né farebbe alcunché di straordinario, neppure nel caso punisse con rigore un padre ingiusto: anzi egli non farebbe altro che agire alla maniera dei primi e più grandi dèi”. - È  Senofane, prima ancora che Platone, a rimproverare Omero ed Esiodo di raccontare cose indegne degli dèi: “Tutte le colpe agli dèi attribuirono Omero ed Esiodo quanto a giudizio degli uomini valgono come ignominia e biasimo: rubare, commettere adulterio e ingannarsi reciprocamente”: cfr. M. Untersteiner, (a c.), Senofane. testimonianze e frammenti, La Nuova Italia ed., Firenze 1955,  pp. 128-129 (Silli, n. 11). - Mircea Eliade riassume magistralmente il passaggio dal ‘mito’ alla ‘demitizzazione’ nella cultura greco-occidentale: “Non solamente in Grecia il mito ha ispirato la poesia epica, la tragedia, la commedia e le arti plastiche, ma unicamente nella cultura greca il mito è stato sottoposto a una lunga e penetrante analisi, dalla quale è uscito radicalmente ‘demitizzato’. L’inizio del razionalismo ionico coincide con una critica sempre più corrosiva della mitologia ‘classica’, come era espressa nelle opere di Omero ed Esiodo. In tutte le lingue europee, il vocabolo ‘mito’ sta a significare ‘finzione’, perché i Greci l’hanno così definito già venticinque secoli fa. [...]  La principale critica era fatta in nome di un’idea di Dio sempre più elevata: un vero Dio non poteva essere ingiusto, immorale, geloso, vendicativo. ignorante, ecc. La stessa critica è stata ripresa e portata avanti più tardi dagli apologisti cristiani. Questa tesi - cioè che i miti divini presentati dai poeti non possono essere veri - ha trionfato, all’inizio, fra le élites intellettuali greche e infine, dopo la vittoria del cristianesimo, in tutto il mondo greco-romano”: cfr. M. Eliade,  Mito e realtà, Rusconi ed., Milano 1974, pp. 168-169.

[8] James Hillman, La vana fuga degli dèi, Ed. Adelphi, Milano 1991. Riporto alcuni passi significativi, che confermano (dal punto di vista moderno e semplicemente psicologico) la “acatarsìa-immundìtia” vista da Paolo nel culto degli dèi e nelle conseguenti espressioni artistiche, sia poetiche che pittoriche. “I mitèmi in cui compaiono gli dèi sono stracolmi di comportamenti che, da un’ottica secolare, andrebbero classificati come patologia criminale, mostruosità morale o disturbi della personalità” (p. 95). “Se partiamo dall’assunto che necessario è ciò che avviene tra gli dèi, allora le patologizzazioni degli dèi sono necessarie, e sono necessarie le nostre all’imitazione delle loro” (p. 96). “Poiché gli dèi stessi mostrano ‘infirmitas’, una delle vie della ‘imitatio dei’ passa per l’infermità” (p. 96).

[9] Esempio della posizione ‘destruens’ è Girolamo Savonarola, il riformatore della città di Firenze. Egli, nel momento più alto dell’arte fiorentina improntata al ‘ritorno di Platone’ e della cultura del mondo classico, riprendeva gli artisti che creavano figurazioni mitologiche, perché riteneva la fabula e la fictio  prive di ‘senso storico’, e quindi improporzionate ad ‘allegorizzare’ la sacra Scrittura.  Cfr. E. Marino, O. P., Estetica Fede e Critica d’arte, cit., pp. 90-105, 108-124. - Marsilio Ficino, di contro, è esempio della posizione ‘costruens’. Egli - che si serviva della dottrina platonico-plotiniana come ‘organon’ della teologia cristiana -, forniva a Lorenzo di Pierfrancescp de’ Medici le ‘rationes’ perché questi fosse in grado di ‘interpretare’ il cammino della propria esistenza con l’allegoria platonica ‘cristianizzata’ del viaggio dell’Anima, che scende nel Giardino-selva del mondo rinchiusa in ‘un celeste e lucido velame’ e vi percorre i primi passi dominata dall’amore-tatto di Clori-Eva peccatrice (la ‘Seconda Venere’), ma poi vi progredisce con l’amore-naturale-generativo di Flora-Eva madre dei viventi, e da questo s’innalza all’amore-agape dei chiamati alla grazia, confortati dagli interventi di Eva-Maria piena di grazia (la ‘Prima Venere’) e di Mercurio psicopompo-Angelo Michele, che le indicano il passaggio-esodo dalla visione ingannatrice della ‘caverna’ del mondo terreno alla luce del vero del cosmo iperuranio. Siffatto ‘viaggio’ Lorenzo di Pierfrancesco volle avere dinanzi agli occhi - quasi ‘pro memoria’ giornaliero - nell’abitazione di Via Lata, e perciò lo commise a Botticelli, il quale da grande pittore-intellettuale / intellettuale-pittore, lo espresse nella mirabile tavola della Primavera. Cfr. E. Marino, Estetica Fede e Critica d’arte, cit.,, pp. 217-233. 

[10] Thomas De Vio, Epistolae Pauli et aliorum Apostolorum ad graecam veritatem castigatae ..., In aedibus C. Guillard, Parisiis 1540, In epistolam Pauli ad Romanos, cap. I, p. 7.

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