IV.2   L’immagine come ‘iconìa’ di impressione-espressione, e mimèsi-anamnèsi, figura-realtà, esemplàto-esemplare

ASMN I.C.102 F 11r Peto Domine (resp., dom. III sett., Tobia senior)I Padri del Concilio di Nicea II descrivono con acribia filologica  l’atto  formativo-effettuale, cioè maieutico-demiurgico, che struttura e pone-in-visione le immagini e le qualifica.

            Il fare-dell’arte, che concerne il mistero di Fede, viene definito nella traduzione latina del testo greco: “imaginalis picturae formatio: formazione (o ‘espressione’) di una pittura figurativa (o ‘icònica’)” [15].

            Ma in questa formulazione si perde la specificazione del modo con cui si arriva alla ‘formatio’. In greco infatti per il lessema “formatio” vengono usati due monemi: “ana-typosis” ed “ek-typosis”, che portano inscritta sia l’azione del verbo “typóô”: dare forma, foggiare, figurare, coniare moneta, imprimere; sia la qualità sintagmatica delle particelle “ana”: su, sopra, in, ed “ek”: moto di provenienza, da, ex, che esplicano la funzione relativa, cioè indicano la direzione dell’efficienza del verbo.

            Propongo perciò di tradurre il testo greco della descrizione dell’atto formativo delle opere d’arte nel modo seguente: ‘in-tuizione ed es-pressione di una iconìa’; od anche: ‘dare forma impressa-espressa ad una raffigurazione imitativa’ - ed in latino: “im-pressio et ex-pressio imaginalis similitudinis”, che nella sola enunciazione ci riportano per assonanza alla ‘intuizione-espressione’ di B. Croce (di cui si è detto, cfr. n. 49) e alla ‘formatività’ di L. Pareyson [16].

            Inoltre, occorre puntualizzare che nel testo greco l’effetto della ‘formatività’ e della ‘produzione’, cioè l’effetto della impressione (‘ana-typosis’) e/o della espressione (‘ek-typosis’) provocato dall’iconopoièta non è la ‘immagine’ intesa come ‘sostantivo’, cioè la ‘icòna’, ma è l’immagine in ‘senso aggettivale’, vale a dire la ‘iconìa’, che vuol dire ‘relazione di somiglianza’.

            Si tratta infatti di una impressione-espressione di raffigurazione imitativa, di un ‘ritratto iconico’: enunciato, quest’ultimo, che più si accosta al sintagma greco: “ê tês  eikonikê anazographéseos anatyposis-ektyposis”.

            Pertanto l’estetica dei Padri Niceni sta sulla pietra angolare della ‘rassomiglianza figurativa’, sul lessema ‘icona’ interpretato nella sua genuinità filologica, che nella radice indoeuropea “Fik” [17] del verbo “eiko’: essere simile-essere conveniente-avere l’apparenza, trova il ‘sema’ di “eiko”: immagine-effigie-ritratto-similitudine-rappresentazione-idea, da cui l’aggettivo “eikonikós”: simile a ritratto, che qualifica la ‘impressione-espressione’ (attiva e passiva: ‘formatività’ pareisoniana e ‘intuizione-forma’ crociana) dell’enunciato del documento conciliare (cfr. IV, 2).

            È su questo fondamento che l’estetica-di-Fede è in grado di porre le analogie tra il cosmo della ‘natura’, dell’ ‘uomo’ e di ‘Dio’ (soprattutto del ‘Dio-fatto-uomo’), ed in genere tra i ‘visibilia et invisibilia’; di costruire il linguaggio pregnante della metafora (‘similitudo brevior’); di rendere possibile il passaggio dialettico di origine platonico-plotiniano tra la mimèsi e l’anamnèsi, che permettono di trascorrere dall’exemplatum all’exemplar (e viceversa); e di elevarsi a poesia: si ripensi all’affermazione scultorea della Poetica di Aristotele: “Il poeta fa opera d’imitazione, esattamente come il pittore o un altro artista di figure” [18].

            Il sema poi del verbo “typóô”, che si realizza nei tratti semantici dell’im(-pressione)-ana(-typosis) e dell’es(-pressione)-ek(-typosis), è l’unità di significato dei lessemi tipo-antitipo (figura-realtà), e tipo-prototipo (esemplato-esemplare), senza dei quali il discorso visivo ed orale della Rivelazione diviene incomprensibile.

IV.3   Le due vie della ‘estetica iconica’ della Fede: l’immagine acustica della Parola e l’immagine visiva del Mistero cristiano

            Il Concilio di Nicea II mette sullo stesso piano estetico la ‘iconìa’ che si intuisce con l’occhio, e la ‘iconia’ che si percepisce con l’orecchio: la ‘visione’ e la ‘lettura’. E ne dà le ragioni, sia a livello di schemi formali(-preiconografici) che di schemi semantici(-iconografici) e simbolici(-icono-teo-logici).

            “Quello che noi leggiamo, nel momento in cui colpisce i nostri orecchi, lo trasmettiamo e poniamo nell’animo; parimenti, quello che noi vediamo con gli occhi nelle pitture, lo comprendiamo con la mente [19].

            Il suono dunque ed il colore: il ‘Wort-ton’ ed il ‘Farbe-ton’, e la loro affinità nella pertinenza alla categoria del ‘Ton’: musica e/o accento vocalico e/o timbro dei colori, fanno intuire, cioè imprimono nei nostri organi, la conoscenza-sensibile: che Baumgarten chiama  “cognitio inferior” (cfr. n. 47), che però l’animo e la mente elevano e ‘superano’ in conoscenza intellettuale: quella che denomina “cognitio superior”, che porta  a gustare nella bellezza il ‘tutto’ della forma ‘visbile-intellegibile’, perché la ‘formazione icónica’  dell’opera si connota come “ars pulchre cogitandi”.

            Siffatte ‘distinzioni’ possono mettersi di fronte a quelle che la Scolastica pone tra : 1. la conoscenza-scientia, che è ‘conoscenza attraverso le cause con il lume naturale della ragione: cognitio per causas, lumine  naturalis rationis’; 2. la conoscenza-cognitio supernaturalis, che si ha ‘per mezzo della rivelazione, che si accoglie con la fede: per revelationem suscipiendam per fidem’; e  3. la conoscenza teologica (o ‘sacra dottrina’), la quale “si acquista con lo studio, anche se i suoi principi si hanno per rivelazione: per studium habetur, licet eius principia ex revelatione habeantur”.

            Questa ‘conoscenza teologica / sacra doctrina’ è per s. Tommaso la ‘sapienza in sommo grado’, perché “considera la causa suprema dell’universo che è Dio, [...] in quanto causa suprema, perché non si limita a quel che se ne può conoscere attraverso alle creature (ciò che hanno fatto anche i filosofi [...]), ma si estende anche a quello che di se stesso egli solo conosce e ad altri viene comunicato per rivelazione” [20].

            Nell’ambito della storia-critica d’arte si può  con correttezza (ritengo) specificare la ‘teologia-sapienza’ quale ‘iconoteologia’.

            Pertanto, le ‘due vie cognitive’: la ‘lettura’ e la ‘visione’ pittorica, si rimandano l’una all’altra, e conducono ad ‘una medesima conoscenza’, che è memoria-anamnèsi della storia della salvezza: “ita per duo ista invicem consequentia, lectionem et picturam, unam cognitionem acquirimus, qua ad recordationem rerum gestarum pervenitur” [21].

            In tal modo vengono ad ‘inter-agire’, e quasi a prospettarsi in trasparenza, il ‘legere-audîre’ ed il ‘vidêre’ con lo ‘intellìgere’ ed il ‘crédere’, che sono il ‘Tutto’ dell’esperienza estetica, che si dà nel ‘sensibile’, ma che non rimane chiusa in esso, quasi monade senza porte e senza finestre, e si espande in ‘lógos’ ed in ‘theológos’.

            In termini mutuati da Ferdinando de Saussure è pertinente dire che l’ascolto e la visione sono gli estremi di un asse semantico, attraverso il quale corre il messaggio da ‘decifrare’ sotto forma d’immagine-acustica quando si ascolta o si legge uno scritto, e da ‘decifrare’ sotto forma d’immagine-ottica quando si vede una figurazione [22].

            Così avviene che ‘verbum’ (o orecchio) e ‘visio’ (o occhio) costituiscono ‘due vie’ paritetiche ed omologhe, che adempiono alla stessa funzione conoscitiva della ‘lectio evangelii’ e della ‘contemplatio picturae’: quella cioè d’introdurre al mistero rivelato da Dio. “Noi vediamo e comprendiamo che [...] le pitture dei Santi sono state trasmesse nella  Ecclesia non altrimenti che la sacra lettura del Vangelo: Videmus igitur et intelligimus quod [...] Sanctorum picturae in ecclesia traditae fuerint  non aliter ac sacra evangelii lectio[23].

            L’ottavo concilio ecumenico di Costantinopoli IV (a 869-870) conferma il rapporto posto dal Concilio di Nicea II tra il ‘codice verbale’ ed il ‘codice visivo’, cioè tra la lettura del testo del Vangelo e la visione delle sante immagini, e lo applica fino alle ‘unità minime’ del discorso e della visione pittorica.

            I Padri costantinopolitani infatti ritengono che come le ‘sillabe’ (i linguisti direbbero ‘fonemi-monemi’) danno luogo ai “sacra eloquia” (o enunciati) così i colori  (io direi gli ‘oftalnèmi’) formano la ‘immaginaria operazione: tês tôn chromátôn eikonourgías’; e come il ‘lógos’ scritturistico propone l’economia  della salvezza, così la ‘grafia cromatica’ reca e con più evidenza la “buona novella” [24].

            Dunque si può correttamente affermare - usufruendo di una dizione heiddegeriana - che la sacra Scrittura è la Casa della Parola di Dio’, e l’arte figurativa (ispirata dalla Fede) è la ‘Casa dell’Immagine di Dio’; ‘case’, però, che non devono essere pensate come estrinsecamente ‘intercomunicanti’ ma come intimammente ‘immanenti’, perché il ‘Verbo eterno’ ‘venne nel mondo e venne nella sua Casa’ (Giov. 1, 10-11), e si è rivelato nella ‘sensibilità’ della Parola annunziatrice della buona novella, e nella ‘visione’ dell’umanità assunta dalla sua Persona divina:

“Quello che era da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che abbiamo osservato e toccato con le nostre mani, ossia il Verbo di Vita, [...] lo annunziamo anche a voi” (Prima Lettera di Giovanni 1, 1-2).


[15] Conc. oecum. decreta, cit., p. 135, 23-26: “Traditiones [paradóseis] illibate servamus; quarum una est etiam imaginalis picturae formatio, quae historiae evangelicae concinit”.

[16] Luigi Pareyson in Estetica. Teoria della formatività (Bompiani, Milano 1988) presenta la sua ‘estetica della formatività’ con termini che sembrano quasi coniati su quelli del Concilio di Nicea II. Infatti anche la ‘formatio imaginalis picturae’ implica “un’estetica della produzione e della formatività’, cioè “il carattere dinamico della forma [...], anzi la riuscita di un ‘processo’ di formazione”: appunto come Pareyson qualifica la propria ‘teoria’ nei confronti di quella di B. Croce, anzi “al posto dei principi crociani dell’intuizione e dell’espressione” (p. 7). Le due ‘estetiche’, quella crociana sulla ‘forma-contemplazione’ e quella di Pareyson sulla ‘forma-formatività’ mi appaiono utili e complementari ‘ancillae’ (e come tali le assumo) alla conoscenza  dell’estetica del Concilio.

[17] Giacomo Devoto, Origini indoeuropee, Sansoni, Firenze 1962, p. 446 (112). L’illustre filologo riassume la radice indoeuropea nel simbolo “Weid” (vedere, imparare), e la esplica per il latino in “video”, per il greco in “Foida”, per l’avestico in “vaeda”, e per il sanscrito in “veda”.

[18] Aristotele, Dell’arte poetica,  25, 1, a c. di Carlo Gallavotti, A. Mondadori ed., Milano 1978. - Marshall McLuhan, rifacendosi alla tradizione classica, esorta ad un dialogo delle “arti sorelle, poesia e pittura”. Nelle opere d’arte, che dipendono dalla s. Scrittura e dal suo linguaggio ‘poetico’ - sia in senso lato (l’uso della metafora, della parabola, dell’allegoria, ecc), sia in stretto senso (la Bibbia contiene libri scritti in forma poetica, quali i Salmi, il Cantico dei Cantici, passi dei profeti, il ‘Magnificat’ di Maria, ‘inni’ di Paolo, ecc.) -, viene ad attuarsi quel “duplice vantaggio”, per cui la loro fruizione permette simultaneamente il ‘viaggio interiore’ della poesia ed il ‘viaggio esteriore’ della pittura: cfr. M. McLuhan, ll punto di fuga. Lo spazio in poesia e in pittura, Sugarco ed., Milano 1988, p. 17. In forza dell’associazione parola-immagine / orecchio-occhio si raggiunge un certo ‘superamento’ della polemica, di cui si fece portavoce anche Leonardo, tra la ‘pittura muta-poesia’ e la ‘poesia orba-pittura’. Cfr. Leonardo da Vinci,  Il libro della pittura, in “Scritti scelti” a c. di A. M. Brizio, UTET, Torino 1966, p. 203: “Se tu dimanderai la pittura muta poesia, ancora il pittore potrà dire del poeta orba pittura: or guarda quale è più dannoso mostro, o cieco o muto. [...] Se la poesia s’astende colle parole a figurare forme, atti e siti, il pittore si move colle proprie similitudine de le forme a contrafare esse forme; or guarda qual’è più proprinqua all’omo o ‘l nome d’omo, o la similitudine d’esso omo; il nome dell’omo si varia in vari paesi, e la forma non n’é mutata se non da morte”.

[19] B. Carranza, Summa conciliorum et pontificum, cit., p. 295v  [Conc. Nic. II, Actio sexta. Tomus primus]: “Quae leguntur ubi ad aures venerint, ad animum deinde legamus, et transmittimus: et quae oculis videmus in picturis, ea quoque mente complectimur”.

[20] Thomas Aq., Summa theolog., I p., q. I, art. 1- 6.  

[21] B. Carranza, Summa conciliorum, cit., p. 295v.

[22] Leonardo da Vinci,  Il libro della pittura, in “Scritti scelti” a c. di A. M. Brizio, UTET, Torino 1966- Nel leggere, che è  ‘vedere’ la ‘parola scritta’, abbiamo bisogno dell’occhio. Ma in questo caso l’occhio è per l’orecchio, dirò con M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 103. Gli studiosi dei monumenti stimano l’epigrafia ‘occhio dell’archeologia’. Cfr. sopra II, 2.

[23] B. Carranza, Summa conciliorum, cit., p. 295v. - Giovanni Paolo II nella lettera apost. Duodecimum saeculum sul Conc. di Nicea II conferma che “Il concilio [Nicea II] ha così definito come dogma della fede quella verità essenziale secondo cui il messagio cristiano è tradizione, paradosis”. La Lettera apostolica è firmata 4 dic. 1987. 

[24] Conc. Constantinopolitanum IV, Canones, III. In Concil. oecum. decreta, cit., p. 168, 10-30. In questo passo i Padri del concilio pongono sullo stesso piano (aequo honore) la  ‘sacra immagine di N. S. Gesù Cristo’ ed ‘il libro dei santi evangeli’: “Sacram imaginem domini nostri Jesu Christi [..], aequo honore cum libro sanctorum evangeliorum adorari”. La spiegazione è basata sulla ‘struttura’ omologa, cioè sulla pari efficienza-enérgeia, che consegue alla parola della s. Scrittura e alle immagini sacre. “Sicut per syllabarum eloquia quae in Libro feruntur salutem consequamur omnes, ita per colorum imaginariam operationem  [eikonourgia] et sapientes et idiotae cuncti, ex eo quod in promptu est perfruuntur utilitate, quae enim in syllabis sermo, haec et in scriptura, quae in coloribus est, praedicat et commendat”. - Si ponga attenzione alla ‘icóna-enérgeia’ enunziata nel testo: essa può considerarsi applicazione dell’insegnamento di Dionigi Areopagita, che poneva nella intrinsecità della Parola divina del Nuovo Testamento l’efficienza piena dell’agire divino. Cfr. Dionigi Areopagita, De Ecclesiatica Hierachia III, 3 (432b): “Illud quidem [vetus Testamentum] quasi quibusdam imaginibus depinxerit veritatem; hoc vero [novum Testamentum] praesentem demonstravit, cum praedicationum eius veritatem effectus comprobavit, divinorumque sermonum operatio [theourgía] sit summa: Il primo Testamento espresse le operazioni future di Gesù: il nuovo le adempì; così pure che l’uno scrisse in immagini la verità, l’altro la dimostrò mentr’era presente. Infatti la conferma secondo il nuovo Testamento delle profezie del primo dimostrò sicura la verità: e l’Opera divina è appunto consumata nella Parola divina”. La traduzione italiana del testo è di E. Turolla in Dionigi Areopagita. Le opere (“La Gerarchia ecclesiastica” cap. 3, C), Ed. CEDAM, Padova 1956, pp. 138-139. Ho citato ad abundantiam il testo dionisiano perché indica il fondamento dell’ermeneutica sia della Parola della s. Scrittura che della Immagine che dipende dalla Fede. -  Seguo l’annotazione di E. Turolla (cit., p. 11) di “evitare la formula pseudo- Dionigi non per affermazione d’identità fra l’ignoto autore e il discepolo di Paolo l’Apostolo, ma perché [...] se è certo che la formula ‘pseudo’, specie in pittura, non presuppone falsificazione, ma solo mancata identità del nome con la persona (e in tal caso l’uso, anche nel nostro caso, sarebbe corretto): [...] per Dionigi, dopo la sentenza del Koch: Dionysios ist ein Fälcher, il ‘pseudo’ si prende nel senso peggiore, escluso invece severamente dalla tonalità del testo, quale si rivela soltanto dopo lungo studio e profonda meditazione”.

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