VI.3   Precedenti della ‘ermeneutica filosofica’ di Gadamer: il ‘cammino’ verso il linguaggio e verso il pensiero di M. Heidegger

            Già Martin Heidegger, il ‘maestro’ per eccellenza di Gadamer, aveva chiaramente affermato l’autonomia e tuttavia la coincidenza - o la ‘reciprocità’ (potremmo più propriamente affermare) - del ‘dire’ della ‘filologia’ e della ‘storia dell’arte’.

            Heidegger ha teorizzato che “il concetto di stile è un concetto fondamentale [“Grundbegriff”] della “ricerca in storia dell’arte”; e lo è “anche in filologia da cui anzi proviene.

            Questo concetto infatti - chiarifica il Filosofo - indica innanzitutto le modalità dello scrivere e quindi del dire e del linguaggio; riguarda però anche il ‘linguaggio formale’ di ogni opera, del quale si occupano gli storici delle arti figurative e della pittura, vale a dire gli studiosi di ‘storia dell’arte’ in generale” [28].

            In questa concisa puntualizzazione è ricapitolato il percorso personale di Heidegger e del discepolo Gadamer, che è di continuo “In cammino verso il linguaggio: Unterwegs zur Sprache”.

            Quest’inizio-Anfang di sentiero (Holzweg) Heidegger lo comprese quand’era ancora studente di teologia. “La mia familiarità col termine ‘ermeneutica’ - egli racconta - risale al tempo in cui studiavo teologia”. L’esegesi-Auslegung del testo biblico, e precisamente il “rapporto tra la Parola della sacra Scrittura ed il pensiero teologico-speculativo” - in cui intravvedeva (per quanto ‘in modo oscuro’) lo stesso rapporto che vige “tra linguaggio ed Essere” -, costituì per il giovane Heidegger ‘tormento’ ed esperienza determinante; anzi il ‘Leitfaden: filo conduttore’, che lo immise “sul cammino del pensiero” [29].

            Certamente Heidegger deve molto - ed è egli stesso a riconoscere il debito culturale - all’ermenutica di Wilhelm Dilthey [1835-1911], il quale proveniva anch’egli, annota il Filosofo, dalla “stessa fonte degli studi teologici”; e poi dalla conoscenza dei “manoscritti lasciati inediti da Schleiermacher [1768-1834]”, e precisamente dal “corso che venne pubblicato con il titolo ‘Hermeneutik und Kritik mit besonderer Beziehung auf das Neue Tetsament [Ermeneutica e critica con speciale rapporto al Nuovo Testamento]”.

            In questi manoscritti schleiermacheriani, lo impressionarono soprattutto “le due prime proposizioni della ‘Introduzione generale’: ermeneutica e critica, ambedue discipline filologiche, ambedue scienze tecniche, sono tra loro strettamente connesse, per il fatto che l’esercizio dell’una presuppone l’altra. Quella è in generale l’arte d’intendere rettamente il discorso di un altro, in particolare il discorso scritto, questa l’arte di rettamente giudicare e accertare sulla base di testimonianze e dati sufficienti, l’autenticità di uno scritto o di passi di uno scritto” [30].

            Fin dalla prima pagina della meditazione “In cammino verso il linguaggio”, Heidegger indica un’altra fonte, da cui egli prende l’enunciato della propria riflessione: “Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla. È la lezione di Wilhelm von Humboldt [1767-1835]“ [31].

            Humboldt sposta nettamente la considerazione dall’uomo ‘animale razionale’ (Aristotele) all’”uomo che parla”, e conseguentemente dal ‘lógos-ratio’ al ‘lógos-verbum’.

            Nell’opera “In cammino verso il linguaggio”, Heidegger conferma tale ‘fondamentale’  posizione con la citazione di una lettera del filosofo Johannes Georg Hamann (1730-1788), indirizzata  a J. G. Herder, in cui  è affermata con estrema chiarezza il rapporto linguaggio-lógos: “Fossi anche eloquente quanto Demostene, non potrei far altro che ripetere tre volte una sola ed unica parola: la ragione è linguaggio, lógos” [32].

            Siffatta tras-posizione è la base-Grund dell’intuizione e del teorizzare di Heidegger. Diviene pertanto chiaro perché egli insegni che occorre si rifletta - si faccia ‘filosofia’ ed ‘ermenneutica’, dunque - ‘ascoltando’ il linguaggio. “Porgiamo l’orecchio alle parole della lingua greca: auf Worte der griechischen Sprache hören”, perché “la lingua greca non è una pura e semplice lingua, come le altre lingue europee a noi note”. In essa, infatti, “e soltanto in essa v’è il lógos. [...] Ciò che in essa viene detto è allo stesso tempo, in modo privilegiato la cosa cui ciò che è detto dà un nome”. Occorre dunque porci “al séguito del légein, del suo diretto e immediato palesare ed esibire. Ciò che la parola (Wort) palesa ed esibisce è ciò che ci sta di fronte: was es darlegt, ist das Vorligende [33].

            Il ‘linguaggio-légein’ e la ‘parola-logos’ dischiudono così il cammino dell’ermeneutica filologica verso l’ermeneutica filosofica, che è ‘dottrina dell’apprendere: die Lehre von Verstehen’, insegnata da Schleiermacher e dalla ‘Scuola storica’, e seguìta (lo si è detto) da Gadamer.

            Nel saggio “Corpo e spazio”, Heidegger spiega perché non ricorre più alla ‘Logica: Logik’ ma al ‘pensiero: Denken’: “Con il richiamo alla logica ci atteniamo alla più alta istanza del pensiero (die höchste Instanz des Denken). Ma il richiamo alla logica, ovvio e perciò consueto, cela un’insidia. Immobilizza il pensiero fissandolo in una delle forme in cui esso si esprime. Grazie a questa determinazione (Festlegung), la logica ci impedisce di accedere a quel che il pensiero pensa (was das Denken denkt)” [34] .

            Grazie alla parola greca ‘filosofia’ - che è ‘origine: Ursprung’ del pensare e non più ‘causa: Ursache’ del sillogizzare - noi apprendiamo che ‘filosofo’ è colui che “ama-phileî ciò che costituisce la sapienza (tò sophón)”; o meglio, “poiché il phileîn non è più originaria  consonanza (ein ursprünglicher Einklang) con il sophón, ma una particolare tensione (órexis / Streben) in direzione del sophón, il phileîn sophón diviene philosophía”. V’è, perciò, consonanza (Einklang) ed ‘armonìa’, vale a dire “rapporto di reciprocità”  tra l’uomo-che-ama-il-sophón ed il ciò che vien detto (das Gesagte) dalla lingua greca e la “cosa” (was), di cui ciò vien detto”; essi sono l’uno di faccia all’altro, l’uno interpella l’altro, “disposti ad essere l’uno per l’altro” [35].

            In questa acquisizione del rapporto positivo tra il sophón (la ‘sapienza’ amata), il detto con la parola ed il che cosa come referente: noi costatiamo, osserva Heidegger, che la ‘ris-posta’ (Ant-wort) alla domanda (Frage) “che cos’è la filosofia’, è “una parola che fronteggia la domanda”: è una “risposta filosofica”, dal momento che “dialoghiamo con i filosofi (mit den Philosophen ins Gespräch kommen)”. E “questo implica che discutiamo gli uni con gli altri (durchsprechen) intorno a ciò che è sempre e di nuovo, in quanto è il Medesimo, che riguarda propriamente i filosofi, ed è il parlare, il légeîn, nel senso del dialégesthai, il parlare come dialogo (das Sprechen als Dialog). [...] Una cosa è fissare e descrivere le opinioni dei filosofi; ben altra cosa è discutere con loro intorno a ciò che essi dicono, e ciò di cui essi parlano [36] .

            Ora, anche il ‘linguaggio’ delle opere visive e plastiche ‘dice’ e dicendo ‘filosofa’, ed attende una ‘ris-posta: Ant-Wort’, che matura nel ‘colloquio: Gespräch’ sul ‘che cosa’ (was) dell’opera d’arte; dunque, sulla stessa linea del ‘colloquio con i filosofi’ (cfr. sopra). “Le domande - riflette Heidegger in “Corpo e spazio” - restano proposte (Vorschläge), pensieri per la meditazione (Gedanken für das Nachdenken), qualcosa che provochi (Anstössinges), osssia irriti (Anregendes) e sconcerti (Befrendendes), in vista di un possibile dialogo” [37].

            Basta riflettere sul rapporto specifico che intercorre tra “arte e spazio: Kunst und Raum”, cioè sul mettere a fuoco la spazialità delle opere d’arte  ed il loro essere nello spazio voluto  dall’artista,  e la ‘modificazione’ (direbbe Kant; cfr. sopra), ed il pathos-stupore (come preferisce Heidegger [38]), che ne esperisce il fruitore o critico ‘interpellato (zugesprochen)’.

            Tra arte e spazio - chiarifica ancora Heidegger - “v’è un passaggio obbligato (Notsweg), anche se stretto ed irto di pericoli”: quello di “rischiare l’ascolto del linguaggio: wir versuchen auf die Sprache zu hóren” - come per il linguaggio letterario, appunto.

            E dal linguaggio impariamo che “nella parola spazio parla il fare-e-lasciare-spazio, [...,], la libera donazione di luoghi in cui i destini degli uomini che vi abitano si realizzano nella felicità del possesso di una patria o nella infelicità dell’esserne privi o nella indifferenza rispetto all’una o all’altra di tali possibilità” [39].

            In corpo e spazio Heidegger si domanda esplicitamente: “Cos’è lo spazio in quanto spazio (der Raum als Raum), pensato senza ricorrere ai corpi (Körper) ?”.

            La ‘risposta’ del Filosofo esplicita quella già avanzata in “L’arte e lo spazio” (cfr. sopra), portando l’attenzione specificamente su “come l’uomo è nello spazio (wie der Mensch in Raum ist)”. Infatti, “lo spazio, per fare spazio come spazio, necessita dell’uomo”. E “questo misterioso rapporto” concerne “il riferimento dell’essere per l’uomo (evento: Ereignis)”: esperienza ed attività umane, dunque [40].

            Nella ricerca L’origine dell’opera d’arte, Heidegger considera l’opera d’arte (Kunstwerk) in quanto ‘cosa’ (Ding), perché “tutte le opere hanno questa coseità (Dinghafte)” [41].

            Ed è in questa reificazione (per così dire) che il pietroso, il ligneo, il cromatico, il vocale, il sonoro, si “stanzia nell’opera d’arte”; e/o “dobbiamo piuttosto dire, al contrario: l’opera architettonica è nella pietra, l’intaglio è nel legno, il dipinto è nel colore, l’opera della parola  è nella voce, l’opera musicale  è nel suono” [42].

            Ma “l’opera d’arte, oltre ad essere coseità (Dinghafte), è anche qualcosa d’altro”, perché “indica qualcosa che va oltre l’essere una cosa. [...] Fa conoscere pubblicamente Altro (Anderes): è allegoria[43].

            Di più. “Nell’opera d’arte, assieme alla cosa (Ding), plasmata dal facitore, viene messo qualcos’Altro (etwas Anderes). ‘Mettere insieme’ (Zusammenbringen) si dice in greco symbállein. L’opera è simbolo [44].

            Abbiamo, pertanto, che Il ‘linguaggio’ che  ‘parla’ nelle opere letterarie ‘parla’ anche nelle opere cose (Kunstwerk) - generalmente denotate come opere estralinguistiche -; e chi ne ascolta l’appello (Zuspruch) è in grado di farne congrua ermeneutica, caratterizzata dal loro ‘s-velamento’ come nel linguaggio letterario-poetico.

            In queste composizioni orali o scritte - aveva già acquisito Heidegger - viene infatti ‘s-velata la verità, che è a-létheia’, come ricaviamo dal porgere l’orecchio alla parola greca, che secondo l’etimologia originaria - cioè lo Ursprung della ‘parola’ - sta ad indicare che quanto era inosservato o obliato (lêthê; in latino: latére) è sottratto dal nascondimento ed è portato in  luce.

            Questo accade (aggiungo) anche se ‘ascoltiamo’ la parola tedesca Wahrheit,  sottesa da Heidegger. E ‘Wahrheit  è  ‘conoscenza esatta: richtige (o wahre) Erkenntnis’. Ora, ciò che viene posto in evidenza - insegna il Filosofo - è l’essere dell’essente, in forza della copula “è”, che “trae ogni volta il suo significato dall’ente di volta in volta rappresentato[45].

            In questo rispondere “all’appello (Zuspruch) dell’essere dell’essente (des Seins des Seiendes), è la filosofia (ist die Phlospphie)”: meraviglioso “accordo con la voce (Stimme-Wort) dell’essere e dell’essente“ [46].

            Nella visione delle opere d’arte il fruitore, che ne fa esperienza, viene preso dallo “stupore” (Erstaunen; cfr. sopra), che lo ‘dis-pone-determina’ all’’“apparire nell’Essere dell’essente” [47], e del conseguente desiderio di conoscere ed esperire .

            Ora, spiega Heidegger, l’immissione nel cammino del ‘conoscere’ è voluto dalla stessa “parola Kunst [arte, in greco téchne]”, il cui étimo è kennen  [conoscere, sapere], che vuol dire “intendersi di una cosa e della sua produzione. Téchne e arte non significano perciò un fare, bensì un modo di conoscere. Questo, però, ha per i Greci il tratto fondamentale del ‘dis-occultare (Ent-bergen)’, del manifestare disoccultante quel che sta di fronte” [48].

            Quel che viene ‘svelato’, dunque, è  a-létheia e Wahrheit, cioè ‘filosofia’ (cfr. sopra).

            Heidegger, pertanto, nell’analisi di “arte e spazio’ può  descrivere e configurare l’arte (die Kunst) quale “il porre-in-opera la verità (Ins-Werk-Bringen der Wahrheit), il lasciar-essere-nell’opera la verità”; chiarire  che la verità significa non-ascosità dell’Essere (Wahrheit bedeutet die Unverborgenheit des Seins); e concludere che “nell’opera d’arte figurativa è per l’appunto lo spazio vero (der wahre Raum) ad assegnare la misura - (Massstab, che per Heidegger, annoto, è la ‘norma della definizione’) -, quella che disvela (entbringt) il suo più proprio esser-proprio” [49].

            Nel “fare e lasciare spazio” accade “l’apparire (das Erscheinen) delle cose  presenti cui un abitare umano si vede a sua volta assegnato. [...] Il luogo (Ort) apre di volta in volta una contrada (Gegend) mentre raccoglie le cose nel loro reciproco con-appartenersi ad essa” [50].

            Più chiaramente. Se interroghiamo il linguaggio ci vien detto che il lemma ‘Erörtern’ [determinnare luoghi (Örter)] “non significa tanto riportare il linguaggio, bensì riportare noi al luogo della sua essenza: convenire nell’Evento” [51].

            Jacques Derrida in “La verità in pittura” appare suggestionato dall’insegnamento de “L’origine dell’opera d’arte” di Heidegger, in cui “tutte le contrapposizioni su cui si basa la metafisica dell’arte vengono in essa interrogate” [52].

            Derrida per “capire la pittura e per spiegarne il linguaggio” (come recita il sottotitolo della sua opera: Un metodo per capire la pittura e per spiegarne il linguaggio) - e più in generale per scrutare il problema dell’”idioma in pittura” e delle parole in “immagine” [53] -, riflette esplicitamete sul che cosa vuol ‘dire’ l’affermazione heideggeriana sulla verità che si ‘dis-vela’ nella pittura.

            Lo Studioso francese, colpito dal ‘motto’ di  Paul Cézanne: “Io vi devo la verità in pittura e ve la dirò” [54], esamina con particolare cura  nella sezione del libro dedicata alla “Restituzione della verità in peinture”, quanto affermato da Heidegger sulle “scarpe” dipinte da Vincent Van Gogh [55].

            Di quest’ultimo - del quale viene riferito il ‘motto’: ”Mi sta tanto a cuore la verità, il cercare di rendere il vero [56] - Derrida esamina minuziosamente la ‘ermeneutica’ che Heidegger dà del “quadro famoso di Van Gogh, che ha dipinto spesso scarpe” [57], per sceverarne  quale ‘verità’ il Filosofo della Fenomenologia del Dasein ‘vedesse’ nel pittore della condizione umana umiliata ed afflitta, e già predicatore dell’annuncio evangelico di Colui che è la “Verità” (Giovanni 14, 6) tra i minatori del Borinage.

            Questi sintetici accenni allo studio di Derrida sono testimonianza autorevole - ed è questo che mi ha spinto a parlarne - della presenza culturale dell’ermeneutica filosofica di Heidegger, e dello sviluppo e dell’applicazione che essa ha avuto nella “Attualità del bello” di Gadamer.


[28] Martin Heidegger, Concetti fondamentali, a c. di Franco Camera, Il Melangolo ed., Genova 1989, p. 22.

[29] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio [Unterwegs zur Sprache], Mursia ed., Milano 1973, pp. 89-90.- Heidegger avverte che in “Sein und Zeit”  il termine di ermeneutica è usato “in un senso più ampio”, vale a dire “né l’arte dell’interpretazione né l’interpretazione stessa, bensì piuttosto il tentativo di determinare l’essenza dell’interpretazione sulla base dell’ermeneutico”. Heidegger è stato indotto a non far più uso dei lemmata ‘ermeneutica’ ed ‘ermeneutico’, perchè “quella [posizione anteriore] era solo stazione di un cammino”: cfr. l. cit., pp. 90-91.

[30] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 89-90.

[31] Ib., p. 27.

[32] Ib., p. 28.

[33] M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, Il Melamgolo ed., Genova 1997, pp. 20-23.

[34] M. Heidegger, Corpo e spazio. Osservazioni su arte-scultura-spazio, Il Melamgolo ed., Genova 2000, pp. 40-41. - Nel saggio “Was heisst denken ? [Che significa pensare ?]”, Heidegger chiarisce l’effato di W. von Humboldt: ”L’uomo è uomo in quanto parla”, in “L’uomo è uomo in quanto pensa: der Mensch heisst der, der denken kann”. In tal modo la ‘filologia-linguaggio’ include e si esplica nella ‘filosofia-pensare’. Cfr. M. Heidegger, Was heisst denken ? (Vorlesung Wintersemester 1951/1952), Philipp Reclam, Stuttgart 1984, p. 1. -  San Tommaso spiega che con il ‘pensiero’ si conoscono soltanto i “primi principi”, mentre occorre la “ragione” perché la nostra anima possa ‘portare alla luce’ la ‘verità’  (si potrebbe dire con Heidegger), che non ha immediata evidenza. Per l’Aquinate, tuttavia, la logica  non ‘immobilizza il pensiero’, perché ogni ‘discorso-ratiocinium’ dev’essere riportato ai ‘primi princìpi’. “Manifestum est enim quod Anima, discurrendo de uno ad aliud sicut de effecto in causam vel de uno simili ad aliud vel de contrario in contrarium, ratiocinatur multipliciter, sed omnis ista ratiocinatio diiudicatur per resolutionem in prima principia, in quibus non  contingit errare, ex quibus Anima contra errorem defenditur, quia ipsa prima principia simplici intellectu absque discursu cognoscuntur”: cfr. Thomas Aq.,  In librum b. Dionysii de div. nom., cit., cap. IV, lectio VII, n. 376.

[35] M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, cit., pp. 22-23.

[36] Ib., pp. 32-33

[37] M. Heidegger, Corpo e spazio, cit., pp. 16-17.

[38] M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, cit.,p. 41: “Provare stupore è arché - esso domina da capo a piedi ogni passo della filosofia. Lo stupore (Erstaunen) è páthos [...], dis-sposizione, con cui intendiamo l’essere disposto e l’essere determinato”.- Tale ‘stupore’, nel ‘vedere’ opere de’arte, è l’appello proveniente (cioè ‘detto’) dalla loro ‘bellezza’. Dobbiamo sottindere ciò nel lemma-guida heideggeriano. Heidegger, infatti, non si sofferma sul ‘bello’’ in quanto ‘kalòn’, che è ‘lemma guida: Leitfaden’ (per usare la terminologia propria di Heidegger) dell’estetica platonica e di Dionigi Areopagita.

[39] M. Heidegger, L’arte e lo spazio, Il Melamgolo ed., Genova 1979, pp. 18-21. - In questo saggio si ha l’estensione dalla ‘temporalità’ perseguìta da Heidegger nell’opera “Sein und Zeit” alla ‘spazialità’.

[40] M. Heidegger, Corpo e spazio, cit., pp. 32-34.

[41] Cfr. in II, 2 i miei accenni alla “forma cosa”.

[42] M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., pp. 6-9.

[43] L’origine dell’opera d’arte, cit., pp. 6-9.

[44] L’origine dell’opera d’arte, cit., pp. 8-9. - Ricordo che il sottotitolo dell’opera di Gadamer: “L’attualità del bello: die Aktualität des Schönen”. è: “Arte come gioco, simbolo e festa: Kunst als Spiel, Symbol und Fest”. - Profitto per far presente come Gadamer interpreta il ‘simbolo’ quando ci si pone la questione della ‘significatività dll’arte’: “Io desidererei qui approfondire il concetto del simbolico nella direzione che gli è stata data dalla scelta che di esso hanno fatto Goethe e Schiller, e cioè studiando la sua propria profondità dicendo: il simbolo non rimanda soltanto al significato, quanto piuttosto lo fa essere prsente: esso rappresenta il significato”: cfr. H.-G. Gadamer, L’attualità del bello, cit., p. 37.

[45] M. Heidegger, Concetti fondamentali, cit., pp. 44-45.  - In “Che cos’è la filosofia”, Heidegger spiega che  nelì’enunciato: “l’Essere è l’essente”, la “è” parla transitivamente “e vuol dire qualcosa come ‘raccoglie’. L’Essere è la raccolta - lógos: (das Sein ist die Versammlung - lógos)”: cfr Che cos’è la filosofia ?, cit., pp. 22-23.

[46] M. Heidegger, Che cos’è la filosofia ?, cit., pp. 44-45.

[47] Id., Che cos’è la filosofia ?, cit., 24-25.

[48] Id., Corpo e spazio, cit., pp. 26-27.

[49] Id., L’arte e lo spazio, cit., p. 17.

[50] Id., L’arte e lo spazio, cit., pp. 18-21.

[51] Id., In cammino verso il linguaggio, cit., p.28.

[52] Jacques Derrida, La verità in pittura. Un metodo per capire la pittura e per spiegarne il linguaggio. Newton Compton ed., Roma 1981, p. 32. Interessanti sono gli accostamenti che Derrida rileva tra l’ermeneutica di Heidegger “e il posto che L’origine dell’opera d’arte  riserva alle Lezioni di Estetica [di Hegel]: la meditazione più vasta che l’Occidente possegga intorno all’essenza dell’arte”. Posto  che “non può essere determinato, in  una certa topografia storica, che a partire dalla Critica del giudizio [di Kant]. Heidegger qui non la nomina esplicitamente, ma in un altro passo, la difende contro la lettura di Nietzsche”: cfr. l. cit., p. 37.

[53] Derrida inizia il saggio con le seguenti parole: “Si fa avanti qualcuno, che non sono io, e dichiara: Io mi intendo dell’idioma in pittura”: cfr. La verità in pittura, cit., p.7.

[54] J. Derrida, La verità in pittura, cit., p. 8 e ss.

[55]  Ib., pp. 245 e ss.

[56]  Ib., p. 245, 247 e ss.

[57] Ib., cit., p. 34. -  Heidegger cita  “il dipinto di van Gogh, che raffigura un paio di scarpe contadine, passa da una mostra all’altra”: cfr. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit,. p. 7. - Francesca Bolino, nella ‘Introduzione’ alla conferenza “Corpo e Spazio” di Heidegger (cit., pp. 11-12), riassume l’interesse di Heidegger per l’arte contemporanea. “Fino a quel periodo [anni 1960ca] Heidegger aveva decisamente privilegiato i pittori: da Van Gogh a Cezanne, a Braque e Picasso con una particolare predilezione negli anni ‘50, per Paul Klee a cui avrebbe voluto dedicare la seconda parte (progetto mai realizzato) de L’rigine dell’opera d’arte”.

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