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Ho paura d'uccidere Gesù,

«Rivista di ascetica e mistica» 8 (1963) 105-107

(= anno XXXII di «Vita cristiana»).

  Articolo composto da studente in San Domenico di Pistoia. Originariamente in «Onde corte», organo ciclostilato dello studentato domenicano di Pistoia, animato da fra Alberto Simoni OP; riprodotto poi in «Rivista di ascetica e mistica» (convento San Marco di Firenze) per iniziativa dell'allora direttore padre Innocenzo Colosio OP († 1997).

  Gennaio 2015. Rileggo questo testo dopo mezzo secolo, e mi sorprendo. Non scriveva male, questo ragazzo! Però, aggettivazione eccedente - non ti pare? Frutto dei suoi ardori papiniani di quegli anni? [Giovanni Papini, Firenze 1881-1956]

  Agosto 2017. «Vita cristiana»/«Rivista di ascetica e mistica» nella Biblioteca del convento San Domenico di Fiesole, alla segnatura 26A (a sinistra subito dopo l'entrata). Indice dell'annata 1963 nel fascicolo 4-5-6, luglio-dicembre, pp. 621-625; nella lista in pag. 622 il mio contributo avvia il fascicolo 2, marzo-aprile. Il che mi fa pensare che la redazione originale di questo mio testo rimonti al precedente anno 1962 (ero 24enne?). Nel 1962 il venerdì santo cadeva il 20 aprile (Pasqua 22 aprile).

  Atti del capitolo provinciale, celebrato in San Domenico di Fiesole, luglio 2017; stampa ricevuta il 20.IX.2017, p. 32 n° 41: «Si ordina che la "Rivista di Ascetica e Mistica" ritorni alla denominazione originaria "Vita cristiana"...».

  3 gennaio 2019. Fra Alberto Simoni (da qualche mese assegnato qui a San Domenico di Fiesole) mi passa bozze di questo antico articolo Ho paura d'uccidere Gesù, che ha deciso di ristampare nel periodico «Koinonia», anno XLIII n.1 (455), gennaio 2019, pp. 34-36. Ne ricevo copia il 10.I.2019. Grazie!

    →http://www.koinonia-online.it/Rivista.html

    http://www.koinonia-online.it/k2019-01panella.htm

ASMN I.C.102 B 74r Locutus (resp. dom. Quinquag., la fede d'Abramo)Ho una tremenda paura d'uccidere Gesù. Tanto più se penso che potrei ucciderlo "legalmente". Potrei ucciderlo in nome della legge, in forza della legge. E tanto più sarebbe caparbio il mio accanimento nel far scoccare la sentenza capitale sulla testa di Gesù in quanto so che la legge mi vien da Dio; e io amo Dio e amo la legge di Dio che reclama la sua realizzazione in me e negli altri. E se uccido Gesù in nome della legge, e della legge di Dio, chi può alzare la mano contro di me?

Eran queste le idee che mi frullavano in testa mentre leggevo il racconto della Passione di Gesù. Quando nel testo ha fatto più volte capolino l'annotazione degli evangelisti che Gesù taceva ostinatamente alle accuse dei giudei, non mi è occorso di trarne la lodevole applicazione ascetica dell'accettazione silenziosa delle offese e delle ingiurie; mi è venuta invece una considerazione che per la sua possibile sfumatura d'impertinenza (per lo meno per la sua stravagante originalità) ha meravigliato anche me.

Pensavo: che cosa avrebbe dovuto rispondere Gesù agli accusatori? e perché? che cosa poteva rinfacciare ai giudei? di difendere il monoteismo e la trascendenza di Javè? Non avevano forse ragione?

Avevano una legge che era loro cara come la pupilla degli occhi. Il rispetto e l'osservanza della legge era la misura della loro obbedienza e della loro fedeltà a Javè. «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire perché s'è fatto Figlio di Dio» (Giov. 19,7). Gesù non si era forse detto Dio? E allora "morte moriatur".

Vi assicuro che il pensiero che anch'io amo la legge perchè amo Dio, e che proprio in forza del mio amore alla legge sarei potuto trovarmi tra la frotta dei giudei che reclamavano la morte di Gesù, questo pensiero - dico - mi ha provocato una fitta nella schiena. Né mi ha rassicurato il fatto che, via!, non sarebbe stato difficile riconoscere anche in mezzo alla ressa dei perdigiorno palestinesi quel trentenne dal volto dolcissimo, dalle chiome bionde, dal mantello rosso sulla veste azzurra e leggergli in fronte il riflesso della Divinità...

Ah, la fantasia, che consigliera bilingue!

Il fatto è che a me palestinese del tempo di Tiberio quel trentenne dalle chiome bionde, dal mantello rosso e dalla veste azzurra non avrebbe detto niente di più di quanto a me, occidentale dell'èra atomica, dica l'incontro, in una strada delle nostre metropoli, con un trentenne dai capelli a spazzola, dai calzoni a tubo, dalla cravatta a righe. Né riesco, Dio mio!, a rimproverarmi irriverenza nel figurarmi Gesù con i capelli a spazzola, con i calzoni a tubo, con la cravatta a righe. E come dovrei ricostruirmi la figura di Gesù se il Padre avesse deciso d'inviarlo nella nostra epoca e nella calotta della sfera terrestre riservata ai popoli occidentali?

E la mia fantasia non sarebbe riuscita a fare d'appannaggio al mio amore alla legge, ché anzi più grande è il mio amore alla legge, più alta è la mia concezione della santità e della trascendenza di Dio, e più forte avrei gridato alla bestemmia e allo scandalo nel sentire da un simile trentenne arrogarsi qualifiche divine.

Ma sta il fatto che Gesù era veramente Dio e i suoi nemici ebbero torto marcio a chiedere la morte di Dio in forza dei diritti di Dio.

Dunque la legge per la quale militavano era ingiusta? No. La legge era giustissima e santissima della giustizia e della santità di Dio stesso. E allora?

Allora avevano commesso il più grande delitto (che potenzialmente includeva tutti gli altri delitti "legali”, deicidio incluso) di mettere la legge a proprio servizio, di assumere la legge come paravento alla propria persona e dare a questa la forza cogente e la santità divina propria della legge di Dio. Appellavano alla legge di Mosè e difendevano i propri interessi, tiravano in ballo la trascendenza di Javè e servivano al proprio prestigio, rivendicavano le tradizioni dei padri e giustificavano il proprio nientefare, citavano i commi del Levitico e mascheravano la propra improntitudine. E tutto questo ricoperto col paludamento di vindici dei diritti sacrosanti di Dio e illuminato coi riflessi aurei dell'orpello della santità della legge divina.

Dio mio, che confusione! Non si sa più ciò che è di Dio e ciò che è nostro; le parti s'invertono facendo allegramente la spola tra Dio e noi, e arrivano all'identificazione. E siccome il mio egoismo è più forte di me, nella legge di Dio vedo solo la mia parte. Non so più riconoscere Dio nella legge, né i suoi diritti. E questo con l'anodino di coscienza che tutto faccio per la legge di Dio. Mentre proprio allora son fuori della legge perché non riconosco più la legge. Proprio allora i miei occhi son sotto il bendaggio del mio egoismo e non vedo né la vera realtà della legge né Dio nella legge.

A questo punto della mia perversione (l'unica attenuante, o Signore, è che si sia prodotto in me un processo incosciente più forte della mia coscienza) posso detestare gl’idoli perchè mi fa gola depredarne i templi (Rom. 2, 22), posso gloriarmi della legge nel momento stesso in cui violo la legge (ib. 2, 23), posso far bestemmiare Dio dai Gentili a causa mia e imputare la bestemmia all'empietà dei nemici di Dio (ib. 2, 24).

A questo punto posso insorgere alla difesa della legge con tanta bile da non accorgermi che issofatto sono fuori della legge perché sono fuori della carità; posso sciorinare sotto il naso del mio prossimo tutti i punti della legge senza accorgermi che al mio prossimo non oppongo la legge ma me stesso nascosto dietro le quinte della legge; posso uccidere Dio in nome di Dio senza accorgermi che ho preso il posto di Dio. E tutto questo posso farlo con le spalle al sicuro, convinto di agire con la legge e per la legge. Un'azione "legale" fuori la legge.

Mi ritrovo nel sommo sacerdote Ananìa che fa percuotere in faccia Paolo accusato al Sinedrio di diffondere la dottrina di Cristo; ma non riesco neppure lontanamente a sospettare la mia scandalosa contraddizione rinfacciatami da Paolo: «Dio percuoterà te, muraglia imbiancata! Tu sei seduto per giudicarmi secondo la legge e violi la legge ordinando che mi si percuota» (Atti 23, 3). (E quanti casi simili negli Atti nel racconto delle reazioni dei Giudei all'apostolato di Paolo!).

A tal punto di perversione non mi meraviglia più il pensare che con tutto il mio amore per Dio e per la sua legge, anzi appunto per questo avrei potuto smanettare anch'io sotto la loggia di Pilato per chiedere la morte di Gesù. E forse oggi l'ucciderei un'altra volta se mi si ripresentasse sotto le spoglie del trentenne dai calzoni a tubo e dalla cravatta a righe. Se non altro l'uccido nel mio prossimo, dalla mattina alla sera, ogni volta che appello alla legge di Dio per far trionfare me stesso attraverso la legge.

O Signore, dàmmi la pienezza della legge nella sua purità e nella sua santità; che la tua legge, cioè, sia solo Tu stesso cosicché con la luce stessa della tua legge io possa scoprirti e riconoscerti in ogni tua manifestazione.

Allontana da me la pazzia di sostituirmi a Te nella tua legge; allontana da me la paura di uccidere legalmente, in Gesù e nel mio prossimo, Dio in nome di Dio.

Emilio Panella OP


Pisa 20.VIII.2017, dalla dott.ssa Marina Soriani: «Bell'articolo, caro magister! Colmo di giovanile entusiasmo e di reverenziale timore di non saper interpretare la legge divina. E' forse possibile che gli esseri umani la rispettino e la applichino nella 'giusta misura'? Nel momento stesso in cui ci ergiamo a giudici, corriamo il grave pericolo di sbagliare, questa è sempre la nostra paura.

Grazie per avermi offerto questa lettura, che mi fa meditare (calura estiva permettendo!) sui nostri egoistici rapporti col prossimo. Con i più cari saluti».


https://www.giunti.it/catalogo/hello-jesus-9788809886988

 

 


Recensione SEMERANO, 1963

https://www.academia.edu/11806562/G._SEMERANO

= G. SEMERANO, Civiltà di una nuova Europa: recensione in «Vita sociale» 20 (1963) 135-136, sotto il nome di Raffaele Vela OP [† 13.V.2009]; in realtà recensione dello studente fra Emilio Panella, dietro preghiera dello stesso padre Vela, allora reggente degli studi in San Domenico di Pistoia, in rapporti "diplomatici" col Semerano.

■ testo della recensione ricuperato in novembre 2018, 55 anni dopo! ■

«Vita sociale» 20 (1963) pp. 135-136:

GIOVANNI SEMERANO, Civiltà di una nuova Europa. Cappelli Edit., 1962, L. 2.400.

«L’Europa nel corso dei secoli ha cercato ansiosamente se stessa; realizzare finalmente l’unità viva è la più grande aspirazione e il più grande compito della  nostra vita». Il volume del Prof. Semerano inizia con questa affermazione di André Chamson la quale resta come l’idea ispiratrice e conduttrice di tutto il lavoro.

Difatti l’Europa, la nostra civiltà d’Europa e la sua unità sono lo sfondo della sottile e coraggiosa analisi dell’A. Ma lo scopo più immediato dell’opera è la trattazione dello stato attuale della cultura e della civiltà del nostro paese in rapporto ad un inserimento più vitale e più attivo nel complesso armonico della costruzione e dell’integrazione della civiltà europea. Civiltà intesa nel suo più ampio e reale significato, che raccoglie cioè in sé e riconduce a unità organica ogni espressione dello spirito umano: dalla letteratura alla filosofia, dalla scuola alla stampa, dalla cultura scientifica a quella religiosa.

Questi temi ed altri sono trattati dall’A. con spirito aperto e coraggioso, affrontando i problemi con estrema schiettezza, mettendo chiaramente a nudo inadeguatezze e deficienze di organi e persone che dovrebbero dare il tono alla vita dello spirito di una nazione. A chi è avvezzo a crogiolarsi entro l’appannaggio di uno sterile narcisismo, certi giudizi e certe strapazzate del Prof. Semerano potrebbero sembrare frutto di un autolesionismo di cattivo gusto. In realtà è un’analisi sincera ed appassionata della vita spirituale del nostro paese, dove giudizi drastici e suggerimenti costruttivi si alternano e prendono senso da una non comune sensibilità e da un altrettanto equilibrio dell’A. che gli vengono dalla sua vasta cultura e formazione classica.

In una scorsa veloce sulla letteratura europea, è messa in confronto la nostra letteratura con quella di altri paesi e vi è indicata la grave flessione – in senso qualitativo, ben inteso – della produzione letteraria nostrana asfissiata da uno pseudo-realismo che mal riesce a mascherare la sua vuotaggine e bassezza. L’A. addita la via per un’autentica rifioritura: «Il richiamo alla perennità dei valori spirituali, che hanno alimentato l’arte dei millenni, rischiarerà la nuova traccia nel cammino della creazione che educa e conforta» (pp. 72-73).

La parte centrale del volume si occupa del problema della scuola affrontato in tutta la sua estensione: dalle università alle elementari, dall’insegnamento della filosofia a quello della religione, dalla matematica alla storia, dall’educazione fisica al latino. Vi è rimproverata l’ottusa (e incosciente) persuasione nel corpo insegnante e direttivo di voler perseguire la serietà della scuola con un irrazionale sovraccarico di lezioni e di misurare la maturità degli alunni con un barbaro sistema d’esami. Ci si limita – e si crede d’aver fatto tutto – a sommergere gli studenti in una colluvie senza fiato di cose-nozioni |p. 136| piuttosto che a creare in loro un “habitus” di studio. «La nostra scuola non insegna certo metodicamente a lavorare, cioè a studiare, mentre questo dovrebbe essere il suo primo compito» (p. 113). Di un simile addebito non va esente nelle nostre scuole neppure l’insegnamento della religione, mentre invece «nessun altro insegnamento potrebbe creare le premesse sincere per realizzare una sempre più vasta, armonica convivenza» (p. 242). Pagine attualissime e utilissime, piene di spunti e di prospettive di rinnovamento che consigliamo caldamente alla lettura dei Professori, dei Presidi e di quanti hanno responsabilità nella scuola italiana.

Dopo il problema della scuola, quello dell’organizzazione e dell’efficienza delle biblioteche pubbliche (vero prolungamento della scuola), della stampa, dell’amministrazione della giustizia, ecc.

Tutti questi problemi, e le loro possibili soluzioni, sono inquadrati e illuminati dalla realtà della “charitas christiana” la sola capace di riordinare ed elevare a valore eterno le molteplici manifestazioni dell’attività umana. «È l’educazione al bene, alla generosità, all’altruismo, a quello che il cristiano chiama invano charitas» (p. 302) che può fondare e vitalizzare un’autentica, perenne civiltà di una nuova Europa.

R.  VELA

 


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