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  I - Il matrimonio musulmano secondo la Legge religiosa (sharî'a)

Ritengo utile introdurre il problema con uno sguardo d'insieme alla legislazione musulmana classica in fatto di famiglia e matrimonio, cosi come il fiqh (= diritto islamico) l'aveva elaborata e come è stata applicata sino ai nostri giorni - e lo è ancora in alcuni paesi musulmani che rifiutano innovazioni in proposito. Ai fini di questo saggio riterrò, del codice di statuto personale, solo la sezione strettamente matrimoniale.

Annotiamo: il diritto islamico (fiqh) ha elaborato il corpus legislativo sulla base della sharî'a, o legge religiosa. Questa, consegnata nel Corano e nella Tradizione (sunna) che si riallaccia a Muhammad e ai suoi primi compagni, è ritenuta legge divina positiva, cogente per ogni «credente» (muslim), definitiva e assoluta, dato che il libro sacro (Corano) è l'ultimo e perfetto stadio («sigillo») della rivelazione divina. Il diritto musulmano fu praticamente codificato entro il II e III secolo dell'egira da quattro famosi giuristi che hanno dato origine a quattro «Scuole» giuridiche (madhab), tutte legittimamente riconosciute in Islàm, e non poco divergenti tra loro in fatto di legislazione matrimoniale. Il quadro qui presentato corrisponde alla codificazione della Scuola malekita (dal suo fondatore Màlik Ibn Anas, † 795) con variazioni della Scuola hanafita (da Abu Hanîfa, † 767). Sono appunto le due scuole giuridiche seguite dai musulmani del Maghreb.

I.1  Il matrimonio (zawâj, nikâh), situato nella categoria dei contratti a prestazione reciproca, è definito come contratto col quale l'uomo s'impegna a versare una dote ad una donna, a provvedere al suo sostentamento, in cambio della prestazione lecita di relazioni sessuali (p. 15). Nessuna età minima è fissata come condizione necessaria per contrarre validamente il matrimonio. La consumazione, con gli effetti giuridici che ne seguono, è stabilita in base alla potentia generandi quantunque esista precedentemente la potentia - e l'usus - coeundi. Gli impuberi sono soggetti al «diritto di costrizione» (jabar) da parte del tutore, padre o parente più prossimo nella linea maschile. Questi sceglie la controparte e decide del matrimonio di suo pieno arbitrio. E' detto walî mujbir, letteralmente «tutore coercente». L'assenso, o «diritto d'opzione», della donna alla decisione del tutore è richiesta in caso che questa sia pubere non più vergine, secondo la scuola malekita, e pubere in ogni caso, secondo la scuola hanafita. La celebrazione del matrimonio non comporta alcun rito civile o religioso ma solo lo scambio del consenso dei contraenti; un walî matrimoniale esprime il consenso in nome della sposa, presso i malekiti; altrimenti - secondo un hadîth - «la vergine acconsente col silenzio, la non-vergine esplicitamente». E' richiesta la presenza di due testimoni maschi (ma due donne possono sostituire un testimone maschio, secondo Corano 2,282). Si noti come il matrimonio sia un contratto che si situa più nella sfera della famiglia che in quella sociale.

I.2  Impedimenti al matrimonio.

a) Permanenti: Consanguineità. Il codice marocchino dello Statuto personale (1958), riprendendo fedelmente le prescrizioni coraniche in proposito (Cor. 4,23), così stabilisce la parentela dirimente: «E' proibito (invalido) il matrimonio d'un uomo con le sue ascendenti; con le discendenti; con le discendenti in infinitum delle sue ascendenti di primo grado e le discendenti di primo grado delle sue ascendenti in infinitum» (art. 26). E' dunque permesso il matrimonio tra cugini, raccomandato dalla società tribale per salvaguardare l'unità di patrimonio della «grande famiglia» (p. 18, nota 11). In forza dell'affinità sono pure interdette per un uomo le ascendenti e discendenti della sua o sue mogli. L'allattamento crea il medesimo impedimento della parentela di consanguineità.

b) Temporanei: «Periodo di continenza» durante il quale è interdetto il matrimonio; esso dura fino al parto per la donna incinta. quattro mesi e dieci giorni per la vedova (Cor. 65,4; 2,234), tre cicli mestruali per la donna ripudiata o divorziata ('idda; Cor. 65,4; 2,228) e un solo ciclo per chi avesse avuto relazioni illecite o per errore (istibrâ). Disparità di religione: una musulmana non può sposare un non-musulmano (Cor. 60,10), un musulmano non può sposare un'idolatra (Cor. 2, 221) mentre può sposare una donna delle «Genti del Libro» (cristiana o ebrea; Cor. 5,5). Una quinta moglie è interdetta finché l'uomo non abbia ripudiato una delle quattro mogli e osservato il periodo di continenza ('idda) conseguente tale rottura. Affinità collaterale: é interdetto «il matrimonio simultaneo con due donne nei medesimi casi in cui una delle due, se fosse di sesso maschile, si sarebbe visto proibito il matrimonio con l'altra» (Codice Marocchino, art. 29; v.s. l'impedimento di parentela). La donna ripudiata tre volte è interdetta al suo ex-marito fintanto che essa non sia stata sposata e successivamente ripudiata da un terzo (Cor. 2,230).

Bisogna aggiungere, per la sola Scuola malekita, due ulteriori impedimenti: quello della sacralizzazione (ihrâm) esistente per il fedele durante il compimento del pellegrinaggio alla Mecca (hajj), e quello cosiddetto della malattia mortale in forza del quale è nullo ogni matrimonio in articulo mortis. Non esiste «dispensa» in diritto musulmano.

I.3  Effetti del matrimonio.

Oltre alla legittimità della prole (che è esclusivamente del padre) e ai diritti d'eredità, il matrimonio validamente contratto crea nel marito il dovere di sostentare moglie e figli (nafaqa), il dovere di pagare una dote (sadâq, mahr) alla moglie. La dote viene antecedentemente stabilita dai contraenti. La donna acquista piena ed esclusiva proprietà della dote alla consumazione del matrimonio o per decesso del marito anche prima della consumazione; ne acquista il diritto a metà qualora fosse ripudiata prima della consumazione. Così il diritto. In pratica - annota il Borrmans - e nella maggior parte dei casi, è il padre o la famiglia della sposa che usufruisce della dote (p. 21). E questo dà al matrimonio musulmano la parvenza di «compera».

I.4  Dissoluzione del vincolo matrimoniale.

Oltre allo scioglimento per decesso d'uno dei coniugi, il fiqh (= diritto islamico) stabilisce tre modi di dissoluzione (talâq) del matrimonio.

a) Ripudio unilaterale (talâq in senso stretto). E' così definito dal Borrmans: «privilegio, riconosciuto al marito, di metter fine al matrimonio in forma discrezionale, cioè senza che questi sia tenuto a motivare la sua decisione e senza ricorrere alla giustizia, non essendo del resto richiesto il consenso della moglie» (p. 24). Testi coranici: 2,226-232; 2,236­237.241; 4, 128-130; 34,4.49; 58,2-4; 61,1; 66,5. La tradizione musulmana non ha mancato d'esprimere riserve sul ripudio, ritenuto a volte «moralmente riprovato» (makrûb). Un hadîth (testi o logia della Tradizione) dice: «Il talâq è l'atto lecito più aborrito da Dio». Il marito, pubere e sano di mente, può ripudiare o per sé o per mandatario, secondo le Scuole di diritto. L'amente può esercitare il diritto di ripudio solo negli intervalli di lucidità. Il 3iritto di ripudio è cedibile alla moglie o futura sposa sotto forma di «diritto d'opzione» o di «cessione» (khiyâr, tamlîk ).

b) Ripudio convenuto (khul') risultante da un accordo dei coniugi, o loro rappresentanti, per iniziativa dell'uno o dell'altra. Normalmente della donna, la quale è tenuta alla compensazione (khul' = riscatto) in cambio del concesso ripudio (Cor. 2,229).

c) Scioglimento giudiziario o divorzio (tatlîq, tafrîq): per richiesta d'uno dei coniugi (il diritto ha evidentemente in vista la donna), il giudice può sciogliere il matrimonio nei casi previsti - con notevole divergenza, invero - dalle Scuole giuridiche. I più comuni sono: esistenza di gravi difetti fisici, mancato versamento della dote, assenza prolungata del marito dal focolare, mancato sostentamento, impossibilità di convivenza per disaccordo...

I.5  Filiazione.

Nel quadro di una struttura familiare essenzialmente agnatica [= parentela per discenza maschile], il figlio si riallaccia per discendenza unicamente alla linea paterna. Il patronimico non è che il nome proprio dell'ascendente o ascendenti maschi. La prole è del padre. Il potere paterno sui figli è di conseguenza esclusivo: diritto d'educazione, di correzione, di jabar (costrizione matrimoniale), diritto sui beni dei figli fino all'emancipazione (25 anni per l'hanafismo). In caso di dissoluzione del vincolo, la madre ha il diritto di tutela (hadâna), di ritenere cioè i figli presso di sé per le cure materne, a condizione che essa nel frattempo non contragga nuovo matrimonio. La tutela dura fino al settimo anno del ragazzo e al nono della ragazza, secondo gli hanafiti; fino alla pubertà del ragazzo e alla consumazione del primo matrimonio della ragazza, secondo i malekiti.

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