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II - Fermenti di riforma nei paesi arabo-musulmani prima dell'indipendenza

I paesi del Maghreb sono stati gli ultimi popoli arabo-musulmani a conquistare l'indipendenza: Marocco e Tunisia nel 1956, Algeria nel 1962. La volontà di costruire uno stato moderno su basi nazionali, di modellare una nuova coscienza di popolo entro rinnovati quadri socio­economici è stato, e lo è ancora, il travaglio di molti popoli musulmani alienati alla loro identità o per decadenza interna o per lunghissimi anni di sfruttamento coloniale. L'opera di ricostruzione doveva investire i punti cardine dell'unità socio-culturale d'una nazione. La famiglia, la sua configurazione interna e i rapporti che viene a stabilire col nuovo assetto sociale, ha subito rappresentato il banco di prova di siffatta volontà nazionale. L'urgenza poi d'affrontare una riforma della legislazione familiare era resa ancor più acuta nei giovani stati del nord-Africa sia dal secolare immobilismo della giurisprudenza tradizionale che dal condizionamento di tessuti sociali prevalentemente agnatico-patriarcali e tribale-autarchici. Se si aggiunge l'estrema suscettibilità della coscienza musulmana in materia demandata alla legislazione divina espressa nel Libro sacro, si capisce come il problema famiglia potesse coagulare intorno a sé tutte le angustie e tutte le potenzialità esplosive d'una profonda crisi di fede. Una fede chiamata a confrontarsi con un mondo nuovo in circostanze che, maturate repentinamente, trovavano impreparata tale fede e rendevano forzoso il confronto.

Così alla vigilia della seconda guerra mondiale la famiglia maghrebina è retta, in tutta la sua estensione, dalla sharî'a (legge religiosa coranica) applicata con spiccata tendenza rigorista dalle Scuole giuridiche (malekismo e hanaismo) seguite in quei paesi. Essendo una legislazione di marca confessionale, essa è ovviamente applicata solo ai soggetti di fede musulmana. Per le minoranze religiose, vigono parallelamente codici familiari delle rispettive confessioni, con propri tribunali e giudici. Così esiste il codice mosaico-rabbinico per gli ebrei, il codice per i cristiani (diverso per le diverse confessioni). E bisogna aggiungere le non indifferenti «variazioni» apportate alla sharî'a dagli usi e costumi delle tribù berbere. Si noti questa caratteristica del diritto familiare dei paesi musulmani. Essendo il matrimonio di «dominio religioso» - oltre che contratto intrafamiliare - l'unificazione del diritto al livello nazionale è una impresa estremamente difficile. In pratica lo stato riconosce la propria incompetenza in fatto di diritto matrimoniale, ammettendo un pluralismo legislativo riallacciato alle varie confessioni religiose e demandando a giudici e tribunali religiosi l'amministrazione giudiziaria del diritto di famiglia. Si pensi al caso limite del Libano dove tutt'oggi sono in vigore una quindicina di codici familiari, quante sono le confessioni religiose rappresentate (musulmana sunnita, sètte sciìte, israelita e ben undici tra confessioni e "riti" cristiani!).

Tornando al Maghreb, bisogna subito dire che fermenti di rinnovamento in fatto di legislazione matrimoniale risalgono agli inizi del secolo, quando il movimento di rinascita islamica tentò di scuotere i popoli musulmani dal sonno d'una lunga decadenza. Non c'è dubbio che la presenza dei colonizzatori occidentali e lo scambio culturale che l'élite musulmana intrattenne con l'Europa dovette costituire una massa d'urto per le nuove generazioni del nord-Africa. E il confronto con molti modelli occidentali dovette essere uno stimolo non indifferente per una coraggiosa riforma ab intra, come lo fu per baldanzose sortite apologetiche in campo non musulmano.

Qualunque possa essere stato il ruolo svolto dai modelli occidentali, pare più giusto affermare che il ripensamento avvenne all'interno stesso della fede musulmana, in una confrontazione e con l'ideale coranico spesso offuscato da incrostazioni storiche e con le capacità proprie di una fede di riasserire se stessa, rinnovata e credibile, all'uomo di un mondo nuovo. Di fatto saranno le idee e i tentativi di riforma maturati nel primo dopoguerra presso i fratelli di fede del medio oriente che filtreranno nell'Islàm maghrebino ponendo le premesse per un'evoluzione del diritto familiare.

Bisogna qui ricordare l'enorme influsso esercitato dal grande riformatore egiziano Muhammad 'Abduh (1849-1905) che patrocinò con ardore l'uguaglianza dei diritti della donna, contestò la poligamia, promosse restrizioni nell'uso del ripudio unilaterale, nell'intento di liberare la famiglia musulmana da abusi introdottisi negli strati impuri dell'islamizzazione. Ma M. 'Abduh andò ancora più in là e sostenne che nessuna riforma familiare avrebbe messo la donna al riparo da soprusi se non fosse stata promossa la sua istruzione e il suo inserimento a pieni diritti nella vita della società. Dichiarò ingiuste e contro lo spirito del Corano certe forme di assolutismo del marito, d'imporre - per esempio - il velo alle donne e di proibir loro d'uscir di casa. Rashîd Ridâ († 1935), discepolo di 'Abduh e continuatore del famoso commentario coranico al-Manâr, modificò non poco le posizioni del maestro ricacciandole in un retroterra più tradizionale se non addirittura fondamentalistico. In un responso giuridico (fatwâ) indirizzato ad un musulmano d'America, R. Rida difese l'istituto della poligamia. Questa è giustificata - egli dice tra l'altro - dalla «natura dell'uomo» il quale «aspira alla donna più di quanto la donna aspiri a lui». La «natura della donna» infatti riduce il tempo della fecondità di ogni sposa. Ora «se non fosse permesso di sposare più d'una donna, l'uomo si vedrebbe rifiutato, durante metà della sua vita, il bene della progenitura, cosa appunto ricercata nel matrimonio» (Tafsîr al-Manâr, t. 4. pp. 351-358; Statut..., p. 58). Chi diffuse invece nel gran pubblico le idee riformiste di M. 'Abduh fu Qâsim Amîn († 1908). Nel suo libro L'emancipazione della donna si legge tra l'altro:

«Non ci sono né precetti né orientazioni nella religione musulmana che debbano condurre alla decadenza della donna. Al contrario, quei precetti le assegnano una posizione privilegiata... Se la religione avesse di fatto esercitato autorità e influenza sui costumi, le donne musulmane sarebbero oggi alla testa delle donne del mondo» (Tahrîr al-mar'a, pp. 11, 13; Statut, p. 65).

Nel frattempo i paesi del medio oriente vedevano sorgere i primi movimenti femministi. Poi su tutto l'Islàm, si abbatte, tra universale sgomento, il ciclone della rivoluzione turca. All'insegna d'un laicismo arrabbiato e d'una aperta sfida alla religione, Mustafà Kemal sopprime sultanato e califfato, e promulga nel 1925 un Codice di diritto familiare su basi strettamente laiche. Vi si fissa l'età minima per il matrimonio (18, 17 anni), si sopprime la poligamia, il matrimonio è celebrato davanti all'ufficiale di stato, è eventualmente disciolto dal giudice civile (divorzio), è abolito il diritto del ripudio unilaterale, si introduce l'istituto giuridico dell'adozione (inesistente nella sharî'a; cf. Cor. 33,36-37).

E' difficile stabilire in che misura l'esempio della Turchia abbia ispirato altri paesi musulmani alla riforma del diritto familiare. La «via turca» al rinnovamento è rimasta comunque isolata all'interno dell'Islàm moderno. Quel che è venuto maturandosi negli altri paesi musulmani, più che un taglio netto di matrice politico-militare porta i tratti d'un faticoso e sofferto travaglio di coscienza. Qui il movimento d'una fede che tenta di rinnovarsi ha imboccato la via della classica Krisis religioso­culturale, processo tuttora in atto. Vi si possono scorgere le tipiche vicende storiche d'una fede in ricerca del nucleo originale e valido di se stessa; che tenta di rifarsi portatrice, nel mondo d'oggi, di germi evolutivi e di conquiste umane; capace anche d'affrontare il crogiuolo della metanoia per liberarsi di impurità e indebite accrezioni storiche. L'Islàm si sta creando cosi uno spazio nuovo per riaffermarsi con la sua riguadagnata autenticità e con la sua credibilità, a confronto con i valori che altre culture umane son venute conquistando dall'umanesimo ad oggi. Ci sembra pertanto che le spinte di riforma presenti nel vasto movimento della rinascita musulmana (Nahda) siano all'origine dell'evoluzione della famiglia nel Maghreb più che i colpi di scena del militarismo turco. E i paesi del medio oriente, soprattutto Egitto e Libano, filtrarono le esigenze di rinnovamento in moduli esegetici e stampi dottrinali recepibili dalla coscienza musulmana. Si capisce così come, pur negli innegabili prestiti, il modello occidentale viene sistematicamente criticato dall'apologetica musulmana, nell'intento di recuperare dal cuore stesso dell'Islàm e in assoluta autonomia di fede, l'ispirazione per una riforma di famiglia non più differibile. E tutto questo concorda con le caratteristiche generali della rinascita musulmana del secolo XX, che si sviluppa non come pedissequa copia dell'«occidente cristiano» ma come riasserita validità d'una religione rinnovantesi nel confronto autonomo col mondo moderno.

In codesto giuoco di stimoli storici e di trasalimenti di coscienza squisitamente musulmani, va valutato il «caso Haddâd». Questo scoppia, per cosi dire, all'interno non solo geografico dei paesi maghrebini, ma all'interno d'un conflitto di fede che si qualifica specificamente sia per gli elementi che al conflitto concorrono sia per le risultanze che ne emergono. Siamo a Tunisi nel 1930. Al-Tâhir al-Haddâd pubblicista e sindacalista militante nel partito del Vecchio Dastûr, pubblica un'opera che fa scalpore: La donna nella Legge (sharî'a) e nella società. Nell'intento di recuperare la genuina legislazione coranica, nella sua intenzionalità come nei suoi possibili trattamenti esegetici, l'autore tenta di smascherare quello che l'arabismo ha surrettiziamente introdotto nella pratica musulmana della vita familiare. Vi appare la distinzione - possibile di formidabili applicazioni - tra arabizzazione e islamizzazione dei popoli nordafricani. Secondo Haddâd l'Islàm assegna alla donna un posto d'onore nella società; e ricorda i diritti civili come quello di testimoniare, d'esercitare la magistratura, di contrattare legalmente, di poter ereditare, ecc. Essendo riprovata in Islàm ogni forma di fornicazione (zinâ), il matrimonio è collocato su vette di perfezione; e data per scontata la libertà di scelta dei contraenti, la vita coniugale mira all'unione di due esseri umani e alla procreazione. Il Corano, bene interpretato, non ammette la poligamia, e lo scioglimento del matrimonio non può avvenire che di fronte al giudice e sancito dal tribunale civile.

Haddâd asseriva tutto questo alla luce d'una rinnovata esegesi coranica, all'insegna del «ritorno all'Islàm», e nella prospettiva storica di spazzar via i residui dell'arabismo pre-islamico risultati di grave pregiudizio per la dignità della donna. Un'inchiesta condotta tra gli 'Ulamâ (dottori della Legge) intendeva raccogliere consensi anche dagli interpreti ufficiali o semiufficiali della sharî'a. Alcune asserzioni tratte dalla conclusione del libro possono offrire un'idea del contesto dottrinale e della sfera di fede entro cui si muove l'argomentazione di Haddâd:

«Noi abbiamo precisato quali siano i diritti espliciti di cui la donna gode in Islàm e quale sia lo spirito di simpatia e di stima, anzi d'uguaglianza, di cui tali testi sono pieni. Abbiamo similmente mostrato quale sia la situazione della donna da noi e come il suo avvilimento è generatore di miserie nella vita coniugale, familiare ed educativa».

« L'oriente conosce oggi una rinascita nel corso della quale ha preso coscienza del bisogno che aveva di questa donna perduta nell'oscuro dei ginecei, come un tesoro che la terra dissimula... » (ed. araba, Tunisi 1930, p. 139).

Haddâd intendeva recuperare le «voci perse» in seno all'autentico Islàm attraverso un coraggioso ijtihâd (re-interpretazione coranica operata dallo «sforzo» esegetico dell'individuo), uno sforzo di costante comprensione e d'inventiva esegetica a cui i musulmani e i giuristi di professione non avrebbero dovuto rinunciare nel corso della storia. Così «noi potremo forse trarre una lezione dagli avvenimenti del nostro tempo e arrivare ad educare la donna e riconoscerle i diritti legittimi davanti ai tribunali, conformemente al testo del Corano e alla volontà espressa dalla religione musulmana» (ib. p. 73; Statut, pp. 123-138).

Intorno al libro si scatenò una vera tempesta. Al di là dello sparuto coro dei consensi, furono lanciate accuse d'eresia e di deviazione dalla Legge divina (sharî'a). Una commissione istituita dall'università del1a Zaytuna (università islamica di tendenza conservatrice) ritenne le tesi di Haddâd contrarie all'insegnamento coranico e chiese che l'autore fosse dichiarato «empio» (tafkîr). Dietro richiesta della medesima università il Primo ministro decretò il sequestro e l'interdizione del libro (ottobre 1930). Esposto all'ira del popolino manovrato da elementi conservatori, accusato di kufar (peccato d'incredulità, d'apostasia), al-Tâhir al-Haddâd fu esonerato anche dai suoi incarichi professionali, e messo in pratica al bando da una sorta di scomunica sociale (p. 143).

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