⌂ III - I nuovi Codici di diritto familiare del Marocco e Tunisia
Conseguita l'indipendenza politica (marzo 1956), Marocco e Tunisia si affrettano a raccogliere i molti fermenti di riforma che pur tra alterne vicende eran venuti maturando soprattutto nel periodo tra le due guerre. A due anni dall'indipendenza, Marocco e Tunisia hanno una nuova legislazione familiare. Il caso delle due riforme emergenti parallelamente dal movimento di rinascita musulmana è tipico. Ambedue si muovono entro una comunità nazionale che, nella base come nelle strutture di governo, intende riconfermarsi musulmana, anche se il confessionalismo statale (specie in Tunisia) viene discretamente contenuto. A differenza della riforma turca (ma più che di riforma si trattò d'una sostituzione violenta della matrice ideologica), quella maghrebina si muove all'interno della fede, nello sforzo di riaffermare da una parte la fedeltà all'Islàm e dall'altra di rinnovare una legislazione che per molti lati sembrava refrattaria ai quadri socio-culturali d'una nazione moderna. Ma i risultati raggiunti dai Codici dei paesi suddetti sono sorprendentemente divergenti in non pochi punti. Evidentemente le rispettive tradizioni e correnti riformistiche si sono coagulate nei nuovi codici in diverso dosaggio. La forza di trazione degli elementi fondamentalistici è stata diversamente contenuta. Soprattutto si è fatto diverso uso della strumentazione esegetica, in particolare della «re-interpretazione individuale» (ijtihâd) nei riguardi del testo coranico e del suo condizionamento storico. Si è esercitata una diversa sensibilità critica a sfruttare la distinzione tra le molteplici stratificazioni giuridiche: quella prettamente coranica, quella del fiqh (successiva elaborazione della giurisprudenza islamica) e quella dell'apporto dei costumi e condizionamenti della società araba coesistente all' islamizzazione.
Premesso questo, lascerò al lettore di notare e di seguire l'evoluzione giuridica nei due codici in riferimento al modello della legislazione classica come sopra descritta. Si costaterà la tendenza del codice marocchino ad un moderato riformismo dove non si ricalcano fedelmente le linee del diritto tradizionale; dall'altra, la volontà innovatrice del codice tunisino pur nel desiderio di riconfermare la propria fedeltà religiosa. Nell'esporre i punti salienti dei due codici seguirò il metodo sinottico di raffronto affinché meglio risaltino le rispettive peculiarità.
CM: Codice di statuto familiare del Marocco (Mudawwana), promulgato per parti ed entrato in vigore, per quel che riguarda la materia strettamente matrimoniale, il 1.I.1958.
CT: Codice di statuto familiare della Tunisia (Majalla), promulgato nell'agosto 1956 e in vigore dal 1.I.1957.
Ecco, per cominciare, come il CM (art. 1) definisce il matrimonio:
« Il matrimonio è un contratto legale col quale un uomo e una donna s'uniscono in vista d'una vita coniugale comune e duratura. Esso ha per scopo la vita nella fedeltà e purità, e il desiderio di procreazione attraverso la costituzione, su basi stabili e sotto la direzione del marito, d'un focolare che permetta agli sposi di far fronte ai loro obblighi reciproci nella sicurezza, pace, affetto e mutuo rispetto».
Oltre agli utili raffronti possibili con la definizione classica di matrimonio (visto quasi esclusivamente come legittimazione di prestazioni sessuali), si noterà qui una formulazione giuridica a forti tinte etiche (il diritto islamico, di matrice religiosa, non opera una netta distinzione tra jus e morale), e il superamento della nozione di matrimonio come contratto di esclusiva competenza familiare.
III.1 Impedimenti al matrimonio.
I due codici riprendono la legislazione classica in fatto d'impedimenti permanenti. Il CM (art. 25) elenca inoltre due impedimenti ignorati dal CT, e cioè: l'impedimento che sorge da relazioni sessuali avute con donne in stato di 'idda (continenza della donna divorziata per tre cicli mestruali), e quello che sorge con la donna ripudiata dal marito attraverso «giuramento» sulla di lei infedeltà e sconfessione della paternità della prole (li'ân); tale donna è perpetuamente interdetta al suo ex-marito.
Per quel che riguarda gl'impedimenti temporanei:
CM (art. 29) dichiara nullo il matrimonio d'una musulmana con un non-musulmano. Il CT ignora questo impedimento, sebbene interpretazioni restrittive d'un settore della magistratura vorrebbe riintrodurlo.
Il discorso sulla poligamia s'inserisce nella trattazione degli impedimenti temporanei, essendo formulato come proibizione d'una «quinta» moglie finché una delle preesistenti quattro non sia deceduta o altrimenti divorziata. Ecco come il CM (art. 29) formula la cosa: «E' proibito avere contemporaneamente un numero di mogli superiore a quello autorizzato dalla Legge» (sharî'a). Ora il Corano così si esprime: «Se temete di non esser equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piaccione, due o tre o quattro, e se temete di non esser giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo sarà più atto a non farvi deviare» (4,3; trad. A. Bausani, ed. Sansoni, Firenze 1961).
Il CT, operando una coraggiosissima svolta nella giurisprudenza musulmana, stabilisce laconicamente: «La poligamia è interdetta» (art. 18).
Il travaglio che accompagnò questa decisione raccoglie tutti i nodi del modernismo islamico. Abbiamo visto come al-Tâhir al-Haddâd proponendo un riassetto delle tecniche e prospettive esegetiche, aveva già sostenuto che la poligamia non era permessa dal Corano qualora questo fosse «correttamente» inteso. Il Corano infatti prevede la monogamia qualora il marito tema di non poter essere giusto con più mogli (Cor. 4,3). E più esplicitamente: «Anche se lo desiderate non potrete agire con equità con le vostre mogli» (Cor. 4,129). Sussumendo a posteriori l'impossibilità psicologica e affettiva per un uomo d'esser «equo» con tutt'e quattro le mogli, e argomentando dalle cambiate strutture socio-economiche della moderna società, si conclude all'abolizione della poligamia sulla base dell'autorità scritturaria. Certo, l'argomentazione sed contra dei giuristi conservatori ha pure le sue probabilità di coerenza deduttiva: «la legge umana dello stato non può proibire ciò che la Legge divina permette nel Corano». Inoltre il giudizio circa la praticabilità o non della richiesta «equità» sembra rimesso alla discrezione del marito, e in più con una ingiunzione di natura parenetica e non giuridica. Ma - si potrebbe controbattere - né il fiqh (= diritto islamico) né la pubblica amministrazione della giustizia si son mai sottratte nel corso della storia alla casistica imposta dal punto in questione. La cosa del resto ha troppe e troppo immediate ripercussioni sul sociale perché ogni decisione sia lasciata all'insindacabile coscienza del marito. Il Corano stesso d'altronde sembra implicare in 33,51 una giustizia distributiva dei «favori maritali» tra le co-spose. Le Scuole giuridiche fissano il tempo che il marito deve dedicare a ciascuna delle mogli. Lo Statuto egiziano dichiarava: «Il marito è obbligato a trascorrere alternativamente nell'abitazione di ciascuna delle spose 24 ore o 3 giorni o 7 giorni, secondo la durata o l'ordine che egli ha stabilito». Solo al Profeta fu accordato, per permissione divina, piena libertà in fatto di «turno» maritale (Cor. 33,51). Eccezioni alla regolarità dei turni erano previsti nel diritto tradizionale: la sposa novella si vedeva concesse sette notti consecutive, la moglie indisciplinata poteva esser punita con l'omissione del suo turno, una moglie poteva cedere il diritto al turno ad una co-sposa; il marito, in caso di malattia o di viaggio, fruiva del diritto a scegliere anche tra le mogli «fuori turno»...
Quali che siano gli argomenti pro e contro, anche il CM, fortemente conservatore in materia, prevede qualche clausola restrittiva. Similmente, altri codici musulmani contemporanei realizzano in fatto di poligamia un compromesso di vario dosaggio. Per il CM (art. 30) la poligamia è interdetta se c'è adito a ingiustizia nei riguardi delle spose (ma non è detto chi debba giudicare dell'ingiustizia). Al momento del matrimonio la donna può chiedere il «diritto d'opzione», cioè di promuovere divorzio in caso che il marito le associ una co-sposa. Una seconda sposa ha diritto d'essere informata, prima del contratto matrimoniale, dell'esistenza d'una prima moglie. Il codice irakeno demanda al giudice la valutazione dei motivi per un matrimonio poligamico e l'autorizzazione a contrarlo validamente.
Altri impedimenti recensiti dal CM (art. 29) sono la consanguineità tra le co-spose e il cosiddetto «periodo di continenza» conseguente la vedovanza o il ripudio (di cui si fa dettagliata descrizione negli art. 72-79). Per le fonti coraniche, vedi Cor. 2,228.234.235.
Ultimo viene il lambiccatissimo impedimento del cosiddetto «triplice ripudio»: una donna è interdetta all'uomo-A che l'abbia sposata e ripudiata per tre volte. Ma detta donna, se è stata successivamente sposata e ripudiata da un altro uomo-B, può essere validamente risposata dal suo ex-marito (A) (Cf. Cor. 2,230). Tale legislazione è ripresa dal CM (art. 29,3). Il CT, innovatore anche qui, «pone fine - a detta del Borrmans a numerose e sinistre commedie», e dichiara interdetta per sempre la donna ripudiata tre volte (art. 19).
III.2 Età e consenso.
I codici moderni M e T sopprimono il matrimonio degli impuberi. Fissano l'età minima per il matrimonio a 18 anni finiti per l'uomo e 15 per la donna. In un decreto-legge del 1964 la Tunisia portò l'età legale a 20 anni per l'uomo e 17 per la donna. E' ritenuta la «tutela paterna» (o del parente maschio più prossimo) per la ragazza pubere; questa però deve dare il suo assenso al matrimonio proposto dal tutore. Il CM ritiene il «diritto di costrizione» (jabar) solo in caso di cattiva condotta della ragazza. Il CT invece abolisce ogni forma di jabar e stabilisce perentoriamente che «il matrimonio non è formato che dal consenso dei due sposi» (art. 3). Importanti le innovazioni riguardanti l'atto del contratto matrimoniale. Questo è da espletarsi alla presenza dell'ufficiale di stato civile che ne stilerà regolare certificato. Nel diritto tradizionale - si ricordi - il matrimonio era considerato un contratto intrafamiliare.
III.3 Dote.
I due codici riprendono la legislazione classica che si riduce ai seguenti punti: al marito è fatto obbligo di dare la dote alla sposa; costei ha diritto a tutta la dote se il matrimonio è stato consumato, e in caso di decesso del marito anche prima della consumazione; diritto a metà della dote se il matrimonio, validamente contratto, non è stato consumato; nessun diritto alla dote in caso di annullamento di matrimonio non consumato, o in caso d'apostasia o adulterio della donna.
III.4 Effetti del matrimonio.
Caratteristiche più salienti della «vita a due» degli sposi sono: perfetta separazione dei beni; la donna ha piena potestà d'uso sulla dote; il sostentamento della famiglia è tutto a carico del marito. Nella lista dei diritti dell'uomo è inclusa la fedeltà coniugale della moglie (CM, art. 36), mentre non si fa menzione di essa tra i diritti della moglie da parte del marito. Alla donna è assicurato il «diritto» di equanimità in caso di poligamia (CM, art. 35,2; ma la cosa, vista dalla parte del marito, è una raccomandazione etica), il diritto di far visita ai suoi e di riceverli in casa nei limiti della convenienza (art. 35,3).
III.5 Scioglimento del matrimonio.
Il vero flagello della famiglia musulmana, a detta degli stessi musulmani, non è tanto la poligamia (in pratica poco diffusa) quanto la facilità con cui nel diritto islamico può esser sciolto il vincolo matrimoniale. La cosa acquista poi un grave sapore d'ingiustizia se si pensa che nella legislazione classica le possibilità dello scioglimento sono rimesse quasi tutte all'arbitrio insindacabile del marito (talâq: ripudio unilaterale).
Ci si rifaccia a quanto descritto sopra per quel che riguarda il diritto
tradizionale. Oltre al caso di decesso d'uno dei coniugi, lo scioglimento del
vincolo è possibile per:
a) ripudio in senso stretto (talâq);
b) ripudio
«convenuto»;
c) divorzio (tatlîq) decretato dal giudice.
Il CM riprende tutt'e tre le forme di scioglimento, in una prospettiva decisamente conservatrice, anche se qua e là introduce novità giuridiche che sanno più di «miglioria» che di riforma. E' riconosciuto dunque al marito il diritto del talâq. Praticamente nessuna condizione è imposta all'esercizio legale del ripudio, tranne l'attesa del periodo di «purità» mestruale della moglie. L'atto del ripudio può esser posto sia personalmente dal marito che da un suo rappresentante, sia verbalmente che per iscritto. Notifica dell'avvenuto ripudio dev'esser fatta a due notai. Invalido è il ripudio fatto in istato d'ubriachezza, d'estrema collera, o estorto con coercizione (CM art. 44-49). Negli articoli 67-71 viene codificata la legislazione coranica del ripudio detto sunnita o ortodosso (Cor. 2,228239): esso è revocabile, se il marito ritorna sulla sua decisione prima dello scadere del «periodo di continenza» che la donna deve osservare dall'intimazione del ripudio; irrevocabile, alla scadenza del detto periodo. Ma in un ulteriore contratto matrimoniale, l'uomo può risposare la medesima donna (da lui precedentemente ripudiata). Se però matrimonioripudio d'una medesima donna si sono susseguiti per tre volte, tale donna non è ulteriormente risposabile dal suo ex-marito. Ora proprio in connessione con quest'ultima clausola, aveva dato prova di sé l'acume della giurisprudenza postcoranica. Questa aveva escogitato una «scorciatoia» al triplice ripudio che, affrettando i tempi, ne assicurasse i medesimi effetti legali. E' il cosiddetto «ripudio innovato», contrario alla tradizione ortodossa ma praticamente ammesso o tollerato nella legislazione corrente. Esso consiste nell'autorizzare il marito a pronunciare in occasione dell'intimazione di ripudio una triplice formula che assomma i medesimi effetti giuridici di tre reali e successivi ripudi. Ora il CM interviene con volontà d'innovazione né più né meno che in questo intermezzo di commedia semiseria ed equipara gli effetti giuridici della formula «triplice» e quelli d'un ripudio singolo. Abolisce in pratica il «ripudio innovato» (art. 51). Ma non mette fine alla commedia. Il medesimo codice infatti (art. 71) dichiara possibile e legale il matrimonio tra l'uomo e la donna da questi sposata e ripudiata tre volte, a condizione che la donna sia stata nel frattempo sposata e ripudiata da un terzo.
Il ripudio «convenuto», così come inteso nel fiqh tradizionale, è fedelmente riprodotto dal CM (art. 61-63).
Qualcosa di nuovo occorre invece in relazione al terzo modo di dissoluzione del vincolo: per sentenza giudiziaria, o divorzio (tatlîq, tafriqa). Data l'ampia autonomia concessa al marito dall'istituto del talâq, il divorzio ha in vista i diritti della donna. Bisogna ricordare però che la causa di scioglimento promossa dalla donna, a differenza del talâq, è di competenza del giudice e a questi spetta emettere la sentenza. Il CM prospetta i seguenti casi di scioglimento per divorzio:
a) per difetti inabiIitanti d'uno dei coniugi, antecedenti al matrimonio, occultati o semplicemente sconosciuti alla controparte. Vengono espressamente nominate le malattie contagiose, l'impotenza, l'elefantiasi, la lebbra, la tubercolosi, la demenza. Il giudice pronuncia il divorzio se, dopo un anno di trattamento medico, non ci sia stata guarigione; lo pronuncia subito se la malattia riguarda gli organi genitali dell'uomo di cui non si possa sperare la guarigione (art. 54);
b) nel caso che il marito non assicuri il dovuto sostentamento, per assenza del marito dal focolare protrattasi per più d'un anno, per abuso dell'autorità maritale risultante in maltrattamenti, sevizie, dissensi, impossibilità d'ulteriore convivenza (art. 53, 56, 57).
Il CT al contrario abolisce ogni forma di ripudio e libera così, con un colpo di spugna, il diritto musulmano da intricate casistiche. L'unico modo di sciogliere il matrimonio è, per il CT, il divorzio pronunciato dal tribunale civile. La donna vi ha uguale accesso e uguali diritti dell'uomo (art. 30-31).
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Per quanto sommaria e riduttiva, questa carrellata sul diritto matrimoniale musulmano ha fatto intravedere - spero - gli intricati problemi coinvolti nel tentativo di far evolvere le forme della famiglia tradizionale. Anche il profano si sarà reso conto che in giuoco non è semplicemente la volontà di sostituire norme nuove a norme vecchie. Nel caso del diritto musulmano c'è un nodo che rende problematica, al livello di fede, l'evoluzione giuridica; ed è la compresenza di nozioni-valori ora giuridici ora eticoreligiosi che s'intrecciano inestricabilmente a tessere il tutto che è la Legge divina (sharî'a). Questa, nella sua unicità omnicomprensiva, copre la normatività di tutti i settori e di tutti i livelli della condotta umana, da quello familiare a quello sociale, da quello giuridico a quello culturale. Il caso del ripudio è tipico. Vi s'invita il marito alla equità prevenendolo sull'estrema difficoltà d'esserlo di fatto (livello etico), e si tematizza giuridicamente il talâq (livello legale). Il previsto e riprovato abuso maritale trova modo di rifluire nella formulazione giuridica, mentre l'intuizione etica non è spinta a concretizzarsi in termini di cogenza giuridica.
All'origine di tutto ciò c'è l'univocità della fonte legislativa: la volontà di Dio che si esprime antecedentemente e fnori dell'inventività storica dell'uomo-credente. Come pure la sua coestensività con tutte le dimensioni e tutte le fasi dell'agire umano. La coscienza del credente vi trova certamente uno stimolo d'incomparabile efficacia per la sua condotta. Ma la riaffermazione d'un tale sistema, compiuto e monolitico, entro i quadri mobili d'una comunità nazionale in costuzione, impone una critica che muova dai suoi elementi portanti. E impone similmente una ridistribuzione delle forze traenti e dei valori d'una fede impegnata a sopravvivere. Il problema, visto dalla parte dei soggetti umani coinvolti in codesta avventura, esige un titanico sforzo dell'intellectus fidei e una non comune duttilità di coscienza storica. E chi oserebbe allora rifiutare ai fratelli musulmani la propria simpatia - ed eventualmente la propria collaborazione - anche se per oggettività storica dovesse registrare titubanze, compromessi e persino momentanei indietreggiamenti?
L'esempio della Tunisia ci pare illuminante a1 riguardo. Nella sincera volontà di muoversi all'interno d'una tradizione di fede, tenta una ridistribuzione dei vari strati che concorrono al tutto che è il «fatto» Islàm. L'uso privilegiato, ma non sovvertitore, dell'ijtihâd come principio giuridico-esegetico capace di storicizzare la strumentazione che media l'esegesi coranica, contiene in nuce ricchissime potenzialità d'evoluzione. Si è visto quali nuove argomentazioni e quali nuovi «luoghi teologici» l'ijtihâd tunisino abbia cooptato all'atto esegetico dell'intellectus fidei per legittimare l'abolizione della poligamia. Soprattutto, il metodo tunisino si èsaputo creare un assetto esegetico il cui status logicus è d'esser evolutivo, d'essere cioè in permanente attitudine a cogliere le suggestioni per una «rilettura» della legge musulmana man mano che le provocazioni indotte da nuovi fatti sociali premono per un'ulteriore azione legislativa. Così, senza sobbalzi e senza irritare oltre misura gli elementi fondamentalisti, la Tunisia ha prima incorporato i tribunali religiosi musulmani nel sistema giudiziario statale, ha soppresso poi i tribunali rabbinici ed è arrivata infine all'unificazione nazionale dello statuto familiare (ottobre 1957). Questo è applicato oggi a tutti i «cittadini» tunisini, qualunque sia la loro religione. Un considerevole passo avanti verso la deconfessionalizzazione dello stato. Soprattutto un'audace innovazione nella storia della società musulmana. Con la legge del 26 maggio 1959 si porta un attacco alla struttura agnatica [= parentela stabilista per discenza maschile] della famiglia arabo-musulmana. Si decreta che ogni cittadino tunisino abbia, oltre al nome proprio, il nome patronimico.
«La definizione tradizionale della persona attraverso il nasab (discendenza) che la riallaccia al padre e ascendenti maschi, fa posto ad un'identità personale dove nome e patronimico son sufficienti a situare la persona nella società senza più ricorrere alla sua filiazione paterna che testimonia, a suo modo, a favore dell'agnatismo» (p. 343).
Nuovo è anche l'istituto giuridico dell'adozione, inesistente nel diritto classico per il motivo suaccennato. Infine, di non poco conto è la legge dell'8.III.1968 per il cambiamento di mentalità che rivela. Essa modifica un articolo del codice penale che prevedeva sanzioni solo per l'adulterio della donna, e dichiara che donna e uomo sono ambedue perseguibili dalla legge per il crimine d'adulterio. Il che non è che riscoprire - ma per quali strade! - quanto già stabilito dal Corano (24,2).
Il rinnovamento del corpus etico-giuridico dell'Islàm è giovane di pochi decenni, dopo lunghi secoli di stagnazione. Ha ancora molto cammino da percorrere per provare definitivamente che la fede musulmana può accettare senza timore la sfida del mondo moderno. Non si possono far previsioni né anticipare conclusioni a cui eventualmente approderanno le legislazioni dei paesi musulmani. Molte sono le sollecitazioni, come opposte le direzioni delle forze traenti. Non si può comunque non nutrire simpatia per l'enorme processo di rivoluzione interna che l'Islàm ha avuto il coraggio d'intraprendere. E di coraggio si tratta veramente se i musulmani devono operare, in tempi corti e a tappe forzate, quel medesimo rinnovamento che i cristiani son venuti realizzando distributivamente, nel tempo e nei contenuti, dal rinascimento all'illuminismo, dal modernismo al Vaticano II.
Il lavoro del P. Borrmans ha suggerito queste riflessioni sparse. Troppo ricca e troppo stimolante la sua opera per poterla esporre sistematicamente. E la forma sintetica e selettiva qui adottata mi ha imposto non poca libertà redazionale e critica. Spero comunque di non aver tradito lo spirito con cui l'A. ha intrapreso e portato a termine questo fondamentale contributo allo studio dell'evoluzione della famiglia musulmana nel Maghreb.
in pp. 346-48 (86-88), qui omesse, pubblicavo alcuni testi da antiche fonti islamiche pertinenti al tema