Il dopoguerra pakistano:
«Vita sociale» 29 (1972) 200-07 (44-51). | |||
Premessa | |||
1 | Caratteri generali della riforma | ||
2 | Da una istruzione di élite ad una istruzione di massa | ||
3 | Aspetti salienti della nuova riforma scolastica | ||
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<Premessa>
Il 15 marzo scorso [1972], a soli pochi mesi dagli avvenimenti bellici che hanno travagliato il subcontinente indiano e smembrato il Pakistàn, il nuovo presidente del Pakistan Zulfikar Ali Bhutto ha presentato alla nazione la nuova riforma scolastica.
Ci si aspettava, forse, che dopo la tragica conclusione della guerra le prime preoccupazioni dei nuovi governanti fossero rivolte a più elementari bisogni dell'enorme popolazione. Le condizioni economiche del paese, già ristrette nella morsa di un endemico sottosviluppo, avevano toccato il livello di dissanguamento dopo mesi di guerra civile nella provincia orientale e il conflitto con l'India. Ma a parte il fatto che coraggiosi primi passi per attaccare di petto la cittadella dell'economia feudale del Pakistàn erano già stati fatti (ritiro del passaporto alle poche famiglie di latifondisti, nazionalizzazione - che risultò controllo di stato - dei più potenti raggruppamenti industriali), la riforma scolastica si pone nel cuore di un'eventuale radicalizzazione della politica economica di Bhutto. E le ragioni sono i medesimi condizionamenti culturali così specifici, in un discorso di sviluppo socio-economico, a quei paesi del Terzo Mondo che vivono in una fase fortemente ideologizzata della loro cultura. E l'ideologia è stata la forza - quasi unica - che galvanizzando i Musulmani del subcontinente indiano si pone all'origine del movimento del Pakistàn (creazione di uno Stato Islamico all'indomani dell'indipendenza dell'India). E la medesima ideologia ha mantenuto in vita il paese in questi ultimi venticinque anni ponendosi, alternativamente, ora come potente energia politica e volontà di successo ora come motivo di fratture e travagli interni (esempio ne sia il laborioso tentativo di formulare e varare una definitiva Costituzione Islamica dopo che due di esse - del 1956 e 1962 - sono state già abrogate da successivi governi militari). Una dialettica imposta da un modello fideista e astorico della polis islamica ad una onesta volontà di realizzare uno stato democratico moderno nella scacchiera di giuoco dove forze di stati democratici aconfessionali spingevano a lacerazioni troppo profonde per essere composte in una autenticità di fede. E la dialettica, spesso senza sbocco, si consumava così entro le strettoie di una insuperabile debilitante dicotomia.
Qualunque sia l'attitudine - di giudizio o di umore culturale che l'occidentale a cultura post-ideologica possa nutrire per una nazione che postula l'esistenza e le modalità di essa su una base squisitamente confessionale, il fatto è che lo storico non può non prendere atto che i grandi rivolgimenti che fanno buona parte della storia recente del subcontinente indiano (si ricordi che solo il Pakistàn unito contava circa 120 milioni d'abitanti) abbiano per spinta energetica una volontà di creare strutture e modalità di comunità socio-politica desunte a denti stretti da un modello ideologico di fede (nel nostro caso una ideale natio islamica ).
Dall'altra parte il sottofondo di civilizzazione indiana, comune a tutti i gruppi socio-religiosi dell'India, con il bagaglio di ricchezze spirituali e culturali equipaggia anche l'uomo della strada con una forma mentis istintivamente critica verso novità empiriche incapaci di giustificarsi a livello di valori ultramondani, e altrettanto inquirente della possibile coincidenza o coesistenza delle nuove formule socio-economiche con i modelli ideologici ricevuti da tradizioni millenarie.
La valutazione globale, in termini di validità, di questa struttura della mens indiana è un altro discorso. C'è chi al limite, e forse frettolosamente, la qualifica come zavorra culturale che agirebbe da forza d'inerzia nell'immenso conato di milioni di uomini d'uscire dalla spirale del sottosviluppo. Ma ci si potrebbe ugualmente riconoscere le possibilità germinali per lievitare dall'interno uno sforzo economico-sociale in cui l'uomo non sia fagocitato dal giuoco delle libere forze economiche e dell'impreparato sviluppo tecnologico. Umanizzare e personalizzare dall'interno le condizioni e le componenti dello sviluppo sono una istanza - e un bisogno - irrinunciabile del genio della cultura indiana.
Qualunque possa essere in futuro il ruolo di tale implicito umanesimo culturale nello sviluppo delle masse del subcontinente, è fatto innegabile che ogni tentativo di proporre formule e tecniche di sviluppo a tali popolazioni debba fare i conti con la variabile del condizionamento dell'immensa eredità culturale che ogni indiano porta gelosamente con sè e che potrà agire, secondo il caso e il luogo, o come formidabile deterrente o come lievito umanizzatore. Questo andava detto anche per smacherare la faciloneria dei sociologi da rotocalco che sbandierano la soluzione della fame in India all'insegna della ridicolizzazione delle «vacche sacre» o della « pigrizia» degli indiani.
E allora non parrà strano che ogni discorso di sviluppo di aree depresse a fase ideologica di cultura possa prender le mosse dall'attitudine che l'uomo nutre verso la vita, con tutto ciò che questo comporta, da una filosofia ad una religione, da una ideologia ai caratteri empirici dell'agire, come condizionanti in radice le leve delle forze lavoratrici, produttive, economiche ecc. In questo contesto non ci sembra evasivo che il governo di un paese uscito or ora da una guerra devastatrice di uomini e di beni, inizi lo sforzo ricostruttivo con una programmazione che metta in prima lista la riforma del sistema scolastico.
«L'istruzione - dice Bhutto nel testo della riforma - è la chiave alla porta del progresso». Per chi conosce codesti paesi la frase non è una battuta ad effetto. E' l'allusione a situazioni socio-culturali dove strutture di sfruttamento stratificate sul latifondismo e feudalesimo sono coagulazioni sociali di ataviche credenze (lo sfondo ideologico!) filosofico-religiose. Il passo allo sfruttamento di tali credenze è breve. M. FAYYAZ, ex-rettore della cattedra di sociologia di Lahore (Pakistàn), metteva tempo addietro il dito sulla piaga e accusava il sistema e le istituzioni economiche del Pakistàn di mirare a perpetuare l'ideologia di casta, di strutture tribali e privilegi religiosi per coagulare lo status quo di sfruttamento. E di là da sacche così evidenziate di incidenza della cultura sullo sviluppo economico ci sono infiltrazioni meno appariscenti ma più ramificate e paralizzanti nelle caratteristiche mentali ed emotive che dànno volto ad una attitudine di vita. S. H. ZAIDI, uno studioso pakistano di psicologia sociale, rileva per esempio l'istintivo sospetto che suscita nell'animo del pakistano ogni cambiamento, ogni novità:
«I pakistani sono essenzialmente un popolo retto dalla tradizione. Tutto ciò che esce dal tradizionale è sospettato ed avversato... Il nostro più forte stimolo all'azione può esser manipolato mettendo in relazione il nuovo col vecchio. Esempio ne sia il nostro cercare nel Corano e nella Sunnah la legittimazione dei metodi anticoncezionali» (S. H. ZAIDI, Cultural transmission through education, Karachi 1967, p. 19).
Tutto questo ci è parso opportuno premettere per inquadrare la riforma della scuola del nuovo presidente pakistano in un contesto più ampio che, lumeggiando le premesse culturali d'ambiente, desse rilievo al contenuto della riforma e, nel medesimo tempo, intelligenza delle intenzionalità socio-politiche suggerite dalle circostanze in cui la riforma cronologicamente si colloca.
1. Caratteri generali della riforma.
Il tono generale del documento ci sembra rispecchi fedelmente le tonalità e gli umori di cui è imbastita la carriera politicha dell'uomo Bhutto: sufficientemente rivoluzionario ma non troppo da perdere la credibilità delle masse retrive; severamente critico della politica scolastica precedente ma furbamente moderato nel non promettere l'impossibile; incorregibilmente pomposo (gli aggettivi magniloquenti di piazza non mancano) ma misuratamente assertivo per riinfondere gli spiriti di self-confidence in un popolo prostrato ma vocazionalmente nazionalistico; baldanzosamente profetico nel progettare vaste realizzazioni a lunga scadenza e nello stesso tempo discretamente accorto ai problemi di portafoglio per rimanere al di qua dei limiti permessi da una salutare demagogia. Insomma i classici ingredienti della leadership orientale dove il profeta la vince sul politico (si pensi alla figura di Bashani del ex Pakistàn orientale), l'arte della parola e del rito sulla logica e l'evidenza. Il tutto messo a servizio di una sincera volontà di cambiare finalmente le cose in Pakistàn.
Tre considerazioni d'ordine generale introducono il documento (il testo che seguiamo è quello pubblicato dal quotidiano di Karachi Dawn del 16 marzo 1972):
a) Evitare pregiudizialmente d'impianiarsi in questioni come quella della language policy, da rimandare alla decisione delle Assemblee (le Camere non ancora costituite). Si ricordi che l'urdu, lingua ufficiale del Pakistàn, non è la lingua madre degli attuali abitanti del Pakistàn (se non in misura insignificante). Sentimenti regionalistici e rivendicazioni d'autonomie regionali hanno recentemente risollevato con prepotenza il problema della lingua nazionale, propugnando l'adozione dei dialetti regionali a lingue ufficiali delle rispettive province. E sarebbero quattro le province che presentano specificità etnico-linguistiche profondamente marcate. (Nel Sind durante recenti agitazioni a carattere regionalistico la furia dei dimostranti spazzò via non solo scritte inglesi ma perfino quelle urdu).
b) La riforma intende proporre un minimo essenziale (the barest minimum) della nuova politica scolastica rimandando all'Assemblee problemi più specifici e assicurandosi così le possibilità di una pratica effettuazione.
c) La riforma non intende proporre norme statiche e definitive, ma è di natura essenzialmente sperimentale, aperta a revisione e rifacimento man mano che l'esperienza stessa mostrerà o no la validità di tale o talaltra norma.
2. Da una istruzione di élite ad una istruzione di massa.
E' senza dubbio qui che il "socialista" Bhutto ha modo d'operare una potente sterzata dalla rotta seguita dai precedenti governi e d'introdurre una nuova radicale visione dell'istituto scolastico nella più vasta prospettiva di società senza privilegi e discriminazioni. La posizione base è quanto mai categorica:
Dobbiamo trasformare l'istruzione da privilegio di un'élite ad un diritto di tutti. Tale possibilità appartiene ad ogni cittadino senza considerazione di razza, di religione, di sesso; senza considerazione di origine o nascita (introd.).
L'idea viene successivamente ripresa e sviluppata:
E' impensabile al giorno d'oggi il perpetuarsi d'istituti dove accesso alla conoscenza e alla cultura debba dipendere in altri fattori che non siano il merito (n. 6).
<Le scuole> saranno aperte a ragazzi quotati provenienti da ogni parte del paese senza riguardo né allo stato finanziario né alla provenienza sociale... Ogni scuola ammetterà studenti capaci provenienti da ogni regione del paese, cosicché istituzioni scolastiche che in passato dividevano la società sulla base della ricchezza terranno ora unita la nazione sulla base delle doti di mente (ibid.).
E' ciò che Bhutto chiama democratizzazione della scuola: liberare l'istituto scolastico dalla cerchia chiusa dei pochi benestanti e farlo un patrimonio di tutti, a cui tutti i cittadini possono accedere sull'unica piattaforma del merito e capacità.
La coraggiosa scelta della democratizzazione dell'istruzione si colloca nel cuore di una società divisa da profondi squilibri umani e sperequazioni sociali. Abbiamo accennato alla forma di latifondismo feudale. Ed è facile intuire che se da una parte solo una sparuta minoranza elitaria può accedere all'istruzione superiore (accaparrandosi in partenza i posti chiave di potere), dall'altra lo straripante proletariato fatto di braccianti agricoli non ha né mezzi né voglia d'impartire fosse pure una elementare istruzione ai figli quando questi, lavorando fin da giovanissimi, possono contribuire a migliorare l'irrisorio salario del capofamiglia. Ma un'altra nefasta eredità coloniale è venuta marcando il divario tra le due compagini di base della società pakistana (si noti che praticamente non esiste in Pakistàn una classe media): la cosiddetta scuola di English medium, cioè istituzioni scolastiche con l'inglese come mezzo d'insegnamento e in genere d'ispirazione culturale fortemente anglofila per indirizzo e per contenuto. Erano le scuole che gli occupanti inglesi avevano istituito per crearsi una classe di fedeli burocrati, impiegati e ufficiali della macchina amministrativa dell'allora British India. Tali scuole sono rimaste nelle infrastrutture statali dei nuovi paesi sorti con l'Independence act del 1947, continuando a servire alla classe abbiente come piedistallo - unico ed esclusivo - per raggiungere le leve dell'economia e del potere. Non si vuole qui negare il ruolo positivo - quasi di bisogno - che codeste scuole potrebbero svolgere nello spezzare l'isolazionismo culturale di paesi arretrati, ma si contesta l'ingiustizia che s'annida in un sistema in cui le scuole urdu (intese per le masse non privilegiate) vengono ad aggiungersi su una linea di parallelismo subordinato, operando un discriminativo dualismo pedagogico-culturale, e in cui le possibilità sociali e finanziarie d'accedere alle scuole inglesi sono d'esclusivo monopolio della ristrettissima élite dirigente (proprietari terrieri, industriali e ufficiali dell'esercito).
Il secondo punto chiave della riforma è costituito da una specifica scelta d'indirizzo didattico del sistema di scuola come tale. Bhutto riconosce che il mondo si avvia verso un maggiore benessere grazie allo sviluppo delle scienze moderne e della tecnologia. L'allargamento della piattaforma d'istruzione a tutti i cittadini non deve restare una intrapresa senza volto e specificità:
«Mentre espandiamo l'istruzione dobbiamo correlarla, nella forma e nel contenuto, alla natura e area del nostro sviluppo economico». E, concretamente, «un massiccio spostamento deve operarsi da una educazione generale e inqualificata ad una valida educazione agro-tecnica (meaningful agro-technical education)» (intr.).
Non credo che Bhutto voglia lanciarsi a teorizzare, nell'ambito di una visione
socialista della comunità umana, il rapporto economia-cultura, nel qual caso
mostrerebbe di dibattersi entro un palese dualismo proprio nel momento di
ricerca di un concordismo. Ma, suppongo, davanti ad una società per strutture di
classi ben lontana dal modello socialista fortemente condizionata da ancoraggi
ideologici (si pensi solo al fattore ideologico-religioso Islam) accetti invece
una metodologia di sano empirismo. Tenta cosi di prospettare un sistema
educativo che, tenuto conto delle condizioni socio-economiche del paese, si
modelli nella forma e nel
contenuto in rispondenza agli immediati bisogni del paese stesso. Accettando
così il criterio empirico dei problemi immediati da risolvere come chiave della
riforma scolastica, si sottrae alla tentazione di teorizzare un sistema modello
astratto che porterebbe in sé il verme roditore dell'ideologismo proprio là
dove, geograficamente e tradizionalmente, la suscettibilità del confronto
ideologico ha toccato più volte, dall'inizio del secolo ad oggi, i limiti
dell'esasperazione. Due fatti sembrano corroborare questa interpretazione:
a)
l'aver lasciato alla riforma un carattere sperimentale, suscettibile di
emendamenti man mano che la sua messa in opera lo richieda;
b) l'aver
praticamente ignorato - o sorvolato - ogni discorso sulla religione di stato che
nelle precedenti legislazioni era il centro d'ispirazione della politica
scolastica della Repubblica Islamica del Pakistan. (Cf. Report of the
Commission on National Education, Karachi
1959).
Nel penultimo capoverso si dice solo che «importanti passi verranno fatti perché l'educazione religiosa... non rimanga una semplice materia isolata nelle nostre scuole» e che «i valori e lo spirito della nostra fede debbono formare il tessuto del nostro sistema educativo». Ma a parte il fatto che l'osservazione suona come un'appendice del tutto estranea al nucleo ispiratore del documento, è sintomatico che non si dica né di quali valori si tratti né di quale fede né di quale religione, visto che non si fa menzione dell'Islam né qui né altrove nel testo.
La caratterizzazione del sistema di scuola in chiave agro-tecnica mi pare che calzi rigorosamente con i bisogni e le possibilità attuali dell'economia del Pakistàn (ma rimetterei un giudizio più approfondito a competenti in scienze economiche): le risorse locali sono quasi unicamente confinate all'agricoltura (il Pakistàn è un'immensa pianura alluvionale che geograficamente coincide con la valle dell'Indo); l'industrializzazione, in una politica che intenda allargare le occasioni di progresso agli strati delle masse popolari, deve operare una scelta di tecnicizzazione elementare capace d'assorbire le forze lavoratrici del proletariato. Così la riforma parla dello studente che dopo la classe VIII abbia acquisito una certa perizia tecnica da diventare un migliore agricoltore e un migliore artigiano; dello studente che dopo la classe X sia capace d'inserirsi nel contesto economico del paese come un buon tecnico o un qualificato operaio della classe media.
3. Aspetti salienti della nuova riforma scolastica.
Ed ecco alcuni provvedimenti pratici in cui la nuova politica scolastica prende corpo.
a) Istruzione gratuita fino alla classe X. Ma, viste le limitate risorse economiche, il piano sarà realizzato in due scadenze: dal 1 ott. 1972 scuola gratuita fino alla classe VIII; dal 1 ott. 1974 per le classi IX e X.
b) E' programmata l'istruzione universale fino alla classe V; entro il 1979 per i ragazzi, il 1984 per le ragazze. Questo comporterebbe l'obbligatorietà della scuola. Il presidente pakistano non si nasconde gli enormi problemi connessi con un tale ambizioso programma in un paese dove le infrastrutture scolastiche sono irrisorie di fronte ad una popolazione di 55 milioni e ad un analfabetismo che si aggira sull'85 %. La povertà estrema delle aree rurali non facilita certo la realizzazione di siffatto programma, quando i genitori mandano volentieri i figli a lavorare nei campi (la raccolta del cotone sembra il lavoro ideale per ragazzi!) per arrotondare il misero salario. (E' l'esperienza dei missionari cattolici: scuole gratuite aperte in zone rurali sono disertate o pochissimo frequentate. I medesimi missionari indicano il 3% o 5% circa della percentuale di frequenza in tali zone. E si ricordi che la popolazione rurale costituisce il 77,5% della popolazione totale del Pakistàn). D'altronde in un paragrafo del documento della presente riforma il problema è onestamente - anche se discretamente - accennato:
«A causa delle esorbitanti (far-reaching) implicazioni nella struttura socio-economica così come oggi è costituita, tali problemi hanno bisogno d'essere discussi e decisi dalle Assemblee» (n. 1).
c) Scuole e colleges privati saranno nazionalizzati a partire da sett.ott. 1972.
Gli istituti privati d'educazione sono quasi esclusivamente di proprietà e management dei cristiani; in discreta proporzione - soprattutto tra i cattolici - nelle mani di missionari stranieri. Il discorso sul posto e ruolo delle «scuole missionarie» nel settore educativo della società pakistana è complesso e meriterebbe da solo una specifica trattazione. Ci limitiamo a dire che la nazionalizzazione delle «scuole missionarie» era già stata ripetutamente richiesta ai governi precedenti da gruppi e partiti islamici con ovvie argomentazioni. Non è facile intendere che cosa il nuovo governo si riprometta dalla nazionalizzazione delle scuole private. Potrebbe essere tanto il risultato di una coerente politica socializzante quanto un gesto politico mirante a tener buone le opposizioni di destra con un facile contentino. Le numerose e qualificate scuole missionarie sarebbero per ora un onere finanziario troppo grave per il governo; molti d'altra parte ne riconoscono il valido contributo all'elevazione culturale del paese e alla preparazione di dirigenti qualificati. La seguente clausola potrebbe far pensare che il presidente Bhutto - la cui scaltrezza è ben nota - non intenda legarsi le mani senza lasciarsi la possibilità di sciogliersele a suo piacimento:
«Il governo può esentare dalla nazionalizzazione qualsiasi scuola o college privato che, a suo giudizio, è diretto su basi genuinamente filantropiche e non commerciali» (n. 5).
Altri provvedimenti riguardano la creazione di tre nuove università (attualmente in Pakistàn ci sono quattro università), un programma d'incremento dei centri di scuola per adulti, biblioteche pubbliche, miglioramento delle condizioni degli insegnanti, ecc.
Evidentemente la realizzazione in pieno della riforma, le cui vaste proporzioni e implicanze non sfuggono alla conoscenza del governo, dipende in massima parte dalla disponibilità delle risorse finanziarie. Il presidente programma un convogliamento del reddito nazionale nella realizzazione progressiva della riforma scolastica. Prevede che durante il primo anno della riforma la spesa globale per l'educazione sia doppia rispetto agli anni precedenti. Negli anni successivi l'aumento è fissato al 15% per annum.
Sono sicuro - dice il presidente Bhutto - che nessuno vorrà rammaricarsi per il fatto che la scuola assorba tanta parte delle risorse nazionali proprio in questa svolta critica del nostro sviluppo socio-economico. Da parte nostra faremo il possibile per mobilizzare le risorse necessarie. Agli studenti, insegnanti, genitori non chiediamo alcunché in cambio se non l'assicurazione che l'ampio investimento, che una nazione povera come la nostra sta per fare, sia ritenuto come un debito d'onore alla nazione (p. 19).
E noi non possiamo che augurargli pieno successo nel contesto più ampio dell'elevazione umana e sociale di un paese così popoloso e così provato.
Roma, marzo 1972.