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Crisi ideologica del Pakistan
e rilettura di Nazìr Akbarabadi († 1830
),

«Vita sociale» 29 (1972) 530-49.

1

La «rilettura»

5

Sua personalità artistica

2

Un popolo in serca di sé

6

Piccola antologia poetica

3

Muhammad Iqbàl

7

Nazìr Akbarabadi, Admi-Namah = Il poema dell'uomo

4

La poetica dissonate di Nazìr | Mirza Ghalib | Nasikh

 

ﺁﺩﻣﻲ ﻧﺎﻣﺔ

il testo  | ë

1.  La «rilettura» sta diventando, nella critica contemporanea, un fenomeno letterario di estremo interesse. Un testo dimenticato, uno scrittore o poeta passato in sordina, o addirittura ignorato dai contemporanei, tornano alla ribalta con una urgenza di messaggio che s'impone al lettore d'oggi. S'impone finanche al critico che spesso è costretto a verificare la validità dei propri strumenti d'analisi proprio là dove una breccia improvvisa ha fatto crollare la presunzione d'imprendibili fortezze. Capovolgimenti storici e osmosi di strutture sociali creano una sfasatura di stratificazioni di messaggi culturali in cui una voce fuori campo s'inserisce, con insospettata scelta di tempo, denunciando la rottura e affermando nel contempo la propria significanza. Si opera allora il recupero storico, non come cammino a ritroso inteso a rilevare fatti e messaggi così come congelati nel monumento archeologico, ma come sensibilità critica a cogliere il rientro in fase, di un movimento perduto, nel ritmo di composizione dell'oggi. Il critico  -  per riprendere il discorso della «rilettura»  -  si trova a saggiare il messaggio di un testo in un quadro referenziale che accetti un movimento, per così dire, a spola: un continuo confronto cioè tra il locus storico-culturale in cui il testo venne alla luce e il locus storico-culturale che al medesimo offre le condizioni di lettura. Un testo, si sa, vive nella lettura che di esso si fa. Ma lettura è essenzialmente opera d'interpretazione o, perlomeno, di decodificazione. Le condizioni culturali  -  le chiavi di decodificazione, appunto  -  che assecondano una lettura e quindi un'intelligenza del valore semantico di un testo, entrano così di diritto e nell'analisi dell'oggetto del tecupero e tra gli elementi che si presume costituiscano l'assetto tecnico di una critica letteraria.

Questo ci pare tanto più vero qualora il testo in questione si situi in un'area geografica dove condizioni sociali e tradizioni culturali danno poco spazio all'autonomia di vita del testo come tale. In culture, vogliamo dire, dove la scolarizzazione non ha ancora monopolizzato l'istruzione e dove la traditio orale  -  sostenuta da un eccezionale potere mnemonico  -  è lo scrigno vivo di una letteratura.

Ci riferiamo alle letterature orientali, di cui in questo articolo si offre un saggio. La pubblicistica occidentale opera una frettolosa mistificazione nei riguardi delle culture orientali quando intende fare il bilancio dell'istruzione e civilizzazione di quei popoli sulla base dell'analfabetismo. Non sarà superfluo notare che se la scuola e la carta stampata non definiscono ancora il tipo tecnico d'istruzione di molti paesi asiatici, ci sono invece altri formidabili e autoctoni mezzi di comunicazione sociale a noi estranei e tanto efficaci quanto i nostri. In connessione con la letteratura urdu si può citare il caso della musha'ira, pubblica competizione poetica. La popolarità di essa, la particolare tecnica del verso urdu fortemente mnemonico fanno della poesia un mezzo di circolazione d'idee la cui efficacia e rapidità è per noi inimmaginabile. «Un poemetto rivoluzionario di Iqbàl )  -  letto in una riunione politica la mattina  -  la sera era già, senza editori e senza stampa, sulla bocca di tutti...» (A. BAUSANI, Il Poemia Celeste di M. Iqbal, Bari 1965, p. 29).

Qui l'esegesi è costretta a ricostruire il messaggio del testo sulla scia mobile di una tradizione vivente, di cui il testo segue le vicende. Il testo è strappato all'autore ed è privato di quella nettezza di contorni e veicolazione protettiva assicurata dalla redazione scritta. Esso diventa pubblica proprietà del gruppo socio-culturale, di questo condivide le peripezie storiche, rispecchia l'evoluzione culturale, caricandosi di volta in volta di nuovi e diversi significati.

2. Vorremmo presentare un caso tipo di rilettura proprio nel contesto di una civilizzazione orientale che offre caratteristiche emblematiche di recupero letterario suaccennato. Si tratta di un testo e della personalità di un poeta urdu (lingua franca dei musulmani dell'India e attualmente lingua nazionale del Pakistan): NAZIR AKBARABADI († 1830).

■ La letteratura urdu, poco conosciuta in Europa, merita invece attenzione per la sua ampiezza e per gli eccellenti livelli artistici conseguiti nel corso della sua evoluzione. Per i lettori italiani è consigliabile l'ottima, anche se introduttiva, Storia delle Letterature del Pakistan del prof. A. BAUSANI, Nuova Accademia, Milano 1958. Del medesimo studioso un autorevole saggio critico su uno dei più grandi poeti urdu: La Poesia di Ghalib, in «Orientalia Romana», 3, ISMEO, Roma 1969, pp. 97-167.

Un caso tipo, dicevamo. Perché si presenta sulla scena della critica letteraria urdu e, di più, alla coscienza di una nazione in cerca di se stessa come quella pakistana, con una prepotenza che scompiglia i quadri di critica prestabiliti e angustia le coscienze educate a gonfi ideologismi, nazionali o religiosi che siano. I critici letterari fanno fatica a riquadrare la poesia di un bohémien entro i rigidissimi schemi delle forme poetiche urdu; le nuove generazioni dello stato musulmano del subcontinente (Repubblica Islamica del Pakistan) sono scosse da una voce che, al di là della tronfia letteratura ufficiale e delle demagogie politico­religiose, risuona di una aggressività corposa e di una sincerità tutta populista. Un sensismo estetico di cui è capace solo l'uomo della strada, ma tale di sfidare ogni tipo d'alienazione ideologica, sia essa letteraria çhe religiosa o politica. Il giovane pakistano prende coscienza, alla lettura di Nazìr, d'esser vissuto in una nube gonfiata di slogan e triti ideali, dove calchi consunti di moduli poetici, sogni irreali di restaurazione del medioevo religioso, miti nazionalistici e tentazioni comunali trattengono l'uomo comune in una fase falsa e astorica del suo divenire. Per stringere di più i termini del discorso, la riscoperta di un poeta scomodo ai critici e inutile ai politici, coincide con una profonda crisi della società pakistana. Una crisi definibile, in termini approssimativi, come il crollo dei miti.

Si sa come il Pakistan, sorto dalla partizione dell'India britannica nel 1947, abbia inteso raccogliere le istanze e le speranze dei musulmani del subcontinente indiano che non ritenevano possibile la convivenza con gli indù in un unico stato. Il poeta-filosofo Muhammad Iqbàl († 1938) e la guida politica M. Alì Jinnah († 1948) raccolsero i frutti, eterogenei ma sofferti, di un'autentica rinascita islamica maturata in India durante la seconda metà del XIX secolo.

Muhammad Iqbàl massimo poeta urdu del sec. XX, il Tagorne della comunità musulmana dell'India. In traduzione italiana sono reperibili il Jawed-Namah (Il Poema Celeste, Bari 1965) ed un'antologia poetica (Poesie, Parma 1956), ambedue a cura di A. Bausani.
Cf. W. CANTWELL SMITH, Modern Islam in India, London 1946.

Ma varie circostanze storiche spinsero il movimento islamico, discretamente riformista al suo nascere, a convogliare i fermenti di una genuina Renaissance nella pista restrittiva e mortificante del nazionalismo e massimalismo religioso. Si potrebbe accennare alla crescente insofferenza, spesso trasformatasi in turbolenze di piazza, tra indù e musulmani; al malcelato trattamento di favore che la viceregenza britannica riservava al partito indù; al movimento del Khilafat in India come tentativo revivalistico dell'ideale del Califfato musulmano (idolo infranto in Turchia da Mustafà Kemal nel 1922-1924). Tutte congiunture che spinsero le forze musulmane dell'India a raccogliersi sotto le insegne di una restaurazione fideistica della Ummah (comunità dei credenti), di una tentazione di rinnovare gli antichi splendori degl'imperatori Moghul, di una volontà di ricostruire una polis fedelmente modellata sull'archetipo coranico e medinese.

I venticinque anni di vita della giovane nazione sono stati la storia di una graduale, inesorabile erosione dell'ideologia che aveva proliferato su autentiche istanze di rinascita. La cronistoria del tentativo di varare una definitiva Costituzione Islamica ne può essere un esempio. M. Alì Jinnah, realizzatore dello stato del Pakistan e primo governatote generale, tenta una linea di compromesso tra stato aconfessionale e stato islamico a favore di uno stato musulmano, in pratica con evidenti tinte laiche. Il prestigio personale di Jinnah tiene a bada le punte massimalistiche rappresentate dagli 'ulema (dottori della legge coranica) e dai partiti islamici. Ma dopo la sua morte viene promulgata una costituzione fortemente islamica, tra conflitti di diverse tendenze (Costituzione della Repubblica Islamica del Pakistan, 1956). Il colpo di stato del 1958 segna l'abolizione della costituzione. Ayub Khan, autore del coup e di stretta formazione militare, si sottrae alle disquisizioni dei giuristi e teologi musulmani. Promulga nel 1962 una seconda costituzione. L'aggettivo islamico non appare nella denominazione ufficiale dello stato, ma agitazioni popolari inducono il regime a reinserirlo. Il tono generale è meno confessionale che nella costituzione precedente. Si crea un Consiglio Consultivo dell'Ideologia Islamica col compito di assistere il governo circa l'islamicità del suo operato (A. GUIMBRETIERE, La nouvelle constitution du Pakistan, «Orient » 24 (1962) 29-47). In pratica i partiti religiosi sono tenuti al margine della vita del paese man mano che Ayub forza le libertà politiche. Nell'aprile del '69 lunghi mesi di agitazioni di massa fanno cadere il regime di Ayub. Prende le redini del paese Yahyah Khan, capo dell'esercito, che impone la legge marziale e abolisce a sua volta la costituzione del '62. Gli avvenimenti tragici che accompagnarono il regime di Yahyah Khan sono ancora freschi di cronaca. La rivolta della provincia orientale e lo smembramento del Pakistan sono la denuncia più evidente del bluff dell'unità religioso-ideologica che era servita come copertura ad un vero asservimento coloniale e sfruttamento economico della provincia bengalese.

■ Lo sfruttamento era già stato denunciato in un'opera come quella di GUNNAR MYRDAL, Asian Drama. An Inquiry into the Poverty of Nations, New York 1968 (trad. it. Saggio sulla povertà di undici paesi asiatici, voll. 3, Milano 1971) che il governo pakistano mise al bando al suo apparire.

In Pakistan occidentale le elezioni del dicembre 1970 rivelano un altro incredibile sfaldamento dell'ideologia islamica: i partiti islamici (in particolare il Jama'at-e-Islami del Maulana Maududi) subiscono una dura sconfitta a favore del People's Party capeggiato dal socialista Alì Bhutto. Intanto tendenze regionalistiche tornano ad affiorare con prepotenza (in Pakistan occidentale ci sono ben quattro province etnicamente e linguisticamente differenziate) portando sulla scena politica elementi d'identità regionale e componenti etnico-culturali riallacciabili alla fase pre-islamica della comunità musulmana dell'India. Andato a monte il progetto di Yahyah Khan di far varare una nuova costituzione dai partiti vincenti nelle elezioni del '70, il nuovo presidente Alì Bhutto si trova oggi di fronte all'insoluto problema costituzionale proprio in un momento in cui il paese è, politicamente e ideologicamente, su posizioni capovolte. Difficile prevedere la direttiva che il «socialista» Alì Bhutto imprimerà ad una ennesima costituzione del Pakistan. Più difficile prevedere se le masse popolari, ancora suscettibili di remore religiose massimalistiche, permetteranno il fatidico colpo di volano. Certo è che reazioni critiche tipo «Il Pakistan va in rovina perché i nostri governanti non hanno mai attuato una legislazione totalmente ed unicamente islamica» si fanno sentire anche in settori, per così dire, illuminati. Due personalità come I. H. Qureshi (ex-rettore dell'università di Karachi e storico dell'lslam indiano) e B. Z. Kaikaus, giurista di fama, hanno recentemente avallato proposte di una costituzione a forte tinte revivalistiche.

■ I. H. QURESHI, Ideology of Pakistan, «Daily News», Karachi, Setp. 13, 1971; B. Z. KAIKAUS, Islamic Constitution, «Morning News», Karachi, chap. I, Sept. 27, 1971; chap. Il, Sept. 28, 1971. Ecco alcune proposte costituzionali di Kaikaus: Il Pakistan dovrà essere uno stato islamico fondato sul Corano e sulla Sunnah (Tradizione), col nome di Khilafat-e-Pakistan (Khilafat, califfato, è la vicegerenza che il capo dei musulmani esercita in nome di Allah secondo alcuni, di Maometto secondo altri). La sovranità spetta soltanto ad Allah nel cui nome è esercitato, nella comunità musulmana, ogni potere. Corano e Sunnah debbono fungere da legge costituzionale del paese e nessuna legge può essere promulgata se in conflitto con essi. In quest'ultimo caso Qadi e Mufti (tradizionali giureconsulti musulmani) dirimeranno la questione. Alle sètte musulmane verranno applicati i loro statuti particolari in materia non concernente il bene pubblico (non si fa cenno alla posizione giuridica, in tale stato, dei cittadini non-musuImani i quali verrebbero automaticamente a ricadere nella classe dei dhimmi, protetti, ma in fondo cittadini di seconda classe). Reinserimento nel codice penale delle punizioni coraniche...

Le medesime riflessioni si potrebbero fare a proposito di altri temi della presente rivoluzione culturale del Pakistan. E i medesimi inceppi, frustrazioni, contraddizioni si ripetono invariabilmente. Lo studioso dell'Islam moderno che è W. Cantwell Smith sintetizza così il dramma dell'Islam a confronto col mondo moderno:

«Il malaise fondamentale dell'Islam moderno è la sensazione che qualcosa non abbia funzionato nella storia islamica» (Islam in Modern History, Princeton 1955, p. 41).

Una pista per accostare più da vicino quel «qualcosa» è suggerita da un insigne studioso dell'Islam indiano, Aziz Ahmad (Islamic Culture in the Indian Environment, London 1964; An Intellectual History of Islam in India, Edinburgh 1969). A noi pare che la sua annotazione sia da raccogliere come un valido contributo a scoprire il motivo di fondo che sta all'origine delle angustie e delle inestricabiIi contraddizioni del mondo musulmano contemporaneo. In più ha il vantaggio d'essere una analisi fatta da uno stesso musulmano che tenta di capire il dramma in cui si dibatte la sua comunità di fede.

«Il punto cruciale del problema - scrive A. Ahmad - è quello dell'umanesimo. In termini lati l'umanesimo è definito da Pierre Mesnard 'toute conception théorique, toute attitude pratique qui affirment la valeur exceptionelle de l'homme'. Il suo punto di partenza in Occidente è un 'anthropocentrisme réfléchi', un'attitudine sconosciuta nell'Islam classico. Nell'Islam classico, nella totalità delle correnti tradizionalistiche e fondamentalistiche e nell'insieme del pensiero modernista indo-islamico - eccetto in quello Iqbàl - Dio e non l'uomo rimane la figura chiave dell'universo che domina la vita politica, sociale, economica e culturale dell'uomo» (Islamic Modernism in India and Pakistan: 1857-1964, p. 271).

La cosa non poteva esser detta in modo più chiaro. L'Islam è una cultura che si è arrestata ad una fase pre-umanistica dell'evoluzione della civilizzazione mediterranea e si presenta oggi ad un mondo ad esso irriconoscibile: perché trasformato da conquiste culturali e sociali che vanno dall'umanesimo alla rivoluzione francese. E' forse qui il dramma più profondo che angustia la coscienza islamica moderna. Si fa menzione, nella citazione surrifetita, di Iqbàl . E, data la coincidenza del pensiero di Iqbàl con l'area culturale islamica di cui ci stiamo occupando, non possiamo sorvolare il suo nome.

3. Muhammad Iqbàl (1873-1938), massimo poeta urdu del XX secolo, filosofo, coscienza della comunità indo-musulmana, è colui che ha forgiato  -  e continua a forgiare con le sue opere  -  le menti delle nuove generazioni musulmane dell'India e soprattutto del Pakistan che l'ha proclamato suo poeta nazionale. Immenso è il suo influsso sui giovani e sulle correnti moderniste dell'Islam. La sua poesia  -  popolarissima presso tutti gli strati sociali, analfabeti compresi  -  è portavoce d'una rinnovata coscienza islamica che tenta di recuperare secoli di declino all'insegna di una filosofia dell'azione, del dinamismo, dell'ardire, del valore e autonomia dell'uomo. E a questo proposito c'interessa, nel contesto del nostro discorso, mettere in evidenza proprio la ri-esegesi proposta da Iqbàl dei testi coranici sull'uomo. Ci pare che la parte più originale del pensiero d'Iqbàl  -  per il resto tanto flamboyant quanto nebuloso  -  sia il tentativo di gettar le basi d'una antropologia islamica la cui validità non è solo quella di rendere possibile all'Islam il dialogo col mondo moderno, ma soprattutto di porsi come riflessione che parta dall'interno stesso dell'Islam. E chi conosce l'irritabilità congenita del musulmano nei riguardi di tutto ciò gli viene «dal di fuori» saprà apprezzare il punto. E' a partire infatti da una ri-esegesi del testo coranico che Iqbàl si crea lo spazio, entro l'omnidivorante teocentrismo della teologia classica (tawhìd), per una antropologia che si situi tra un universo in divenire e un Allah dialogante. E questo è appunto il contributo offerto dalla prima delle famose Lectures di Muhammad Iqbàl, raccolte in volume col titolo The Reconstruction of Religious Thought in Islam (citeremo nella ristampa del 1965, Lahore, Pakistan).

La creazione  -  nel pensiero Iqbàl  -  è un impegno di Dio a porre ad extra un rapporto significante perché dialogico. L'universo non è il risultato «of a mere creative sport» (The Reconstruction, p. 10). Esso non è un tutto compiuto e chiuso, ma una realtà germinale con la vocazione alla crescita e allo sviluppo in forza di un dinamismo interno (ib., p. 10, dove si cita Corano: 3, 188; 35, 1; 29, 19. L'ultimo testo parla di una seconda nascita della creazione). L'uomo è posto al centro della creazione come cooperatore di Dio, di cui esercita, nell'universo, la vicegerenza (ib., p. 11: «he (l'uomo) carries within him a great trust». Si cita Corano 33,72). Qui si fa l'autonomia e la grandezza dell'uomo. A p. 12 si riporta il passo coranico caro a tutti i modernisti musulmani: «Dio non opera cambiamento nelle condizioni degli uomini fintanto che questi non operino cambiamento in ciò che è in loro stessi» (Corano 13,12/13,11).

Non intendiamo qui aprire il problema  -  legittimo, peraltro  ­ del valore tecnico dell'esegesi iqbaliana nel contesto della scienza coranica e della traditio islamica (sunnah e hadith). Ci pare, comunque, che lo spazio teologico per una antropologia coranica in nuce è fatto. Le idee iqbaliane meritano d'esser raccolte dal musulmano moderno, enucleate e soprattutto orientate pragmaticamente verso un riassetto interno delle diverse comunità musulmane. Nella prospettiva d'Iqbàl  la teologia islamica classica dell'unità di Dio (Tawhìd), gelosamente e angustamente intra-teologale, acquista uno sbocco geocentrico. La tentazione, sempre ricorrente, del predeterminismo divino  -  dovuto alla nozione di Dio esasperatamente trascendente ed omni-esautorante  -  e del conseguente determinismo e fatalismo etico, è esorcizzata nell'esegesi iqbaliana. E nuovi orizzonti per la crescita e l'autonomo farsi dell'uomo nel mondo sono aperti:

«E' compito dell'uomo prender parte alle profonde aspirazioni dell'universo che lo circonda e fare il proprio destino e quello del mondo, ora adattandosi alle sue forze ora piegando le forze dell'universo per il proprio fine. E in questo processo di evoluzione ascendente Dio diventa co-operante con l'uomo a condizione che sia questi a prendere l'iniziativa» (ib., p. 12).

Nelle opere poetiche gli stessi temi sono ripresi con un affiato ed un impeto propri del potente linguaggio d'Iqbàl.

■ Per risparmiare al lettore non specialista eccessivi tecnicismi di citazioni delle opere originali d'Iqbàl, indicheremo nel testo unicamente la pagina de Il Poema Celeste, a cura di A. Bausani, Bari 1965, a cui rimandiamo per i dettagli bibliografici. Ci scusiamo parimenti con lo specialista per aver rinunciato, dato il contesto dell'articolo, alle notazioni diacritiche nei casi di traslitterazione dall'urdu o arabo.

«Iddio non vive senza il gusto del dialogo... » (p. 270). E se si pensa che questo dialogo si apre tra l'Allah coranico e il muslim (il credente che si abbandona incondizionatamente alla volontà omnioperante di Dio), ci si rende conto del messaggio inquietante che il poeta indo-musulmano propone ai fratelli di fede. La riconquistata autonomia dell'uomo si esprime in accenti conturbanti, quasi blasfemi alle orecchie del pio, tradizionale musulmano:

«Molto ho da fare ora nel mondo, ora sii Tu ad aspettarmi!
E il dì della resa dei conti, di fronte al registro dell'opre,
svergognami pure, Signore, ma vergognati un poco Tu ancora
» (p. 277).

In un famosissimo struggente poema (Shikwah) Iqbàl interroga Dio sul perché del declino e prostrazione dell'Islam attuale. E' un sincero esame di coscienza del musulmano moderno e nel medesimo tempo una Protesta - shikwah, appunto - contro Allah:

«Siamo famosi, noi, per la nostra rassegnazione,
cantiamo storie di dolore, parliamo di destino,
siamo liuti silenti popolati di grida represse.
Se un lamento ci sfugge dal labbro, vogliate ora scusarci.
O Dio! Ascolta, da chi t'è tanto fedele, proteste,
dall' assuefatto alla lode, ora, lagnanze! »
(p. 231).

Sul rapporto uomo-universo:

«Son troppo vecchie queste stelle, troppo consunto il firmamento:
io ho bisogno di un mondo neonato e nuovo!...
Dicon gli sciocchi: Adattati dunque al Destino!
Io dico: A te s'adatti il Destino, altrimenti lotta con lui!»
(p. 280).

«Sì, son lo Straniero, sì, sono il Colpevole, ma
il Tuo desolato deserto non seppero popolare gli Angeli!»
(p. 278).

«Oltre ormai al monotono piacere dell'Unione Eterna, voglio
conoscere il gusto del sospiroso lamento.
Donami la lotta e il bisogno dell'Uuomo, dona il bruciore dell'Uomo
all'animo mio!»
(p. 252).

E con evidente invito al risveglio dei popoli musulmani si conclude il grande inno alla natio islamica (Millat):

«Il canto d'Iqbal sembra segnale di campana:
ecco, la nostra Carovana si mette di nuovo in cammino»
(p. 229).

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