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  4.  Pensiamo che sia questo il contesto culturale dell’attuale comunità musulmana del Pakistan ‑ riscoperta del valore dell’uomo e della sua autonomia nel costruire la città terrestre ‑ che ha favorito la rivalutazione e la rilettura di un poeta come Nazìr Akbarabadi, di un secolo anteriore a Muhammad Iqbàl (1873-1938). Ma ‑ diciamolo subito ‑ Iqbàl e Nazìr, per quanto contraddittorio possa sembrare, hanno ben poco in comune. Se l’uno e l’altro disdegnano i clíché della trita tematica convenzionale e ritrovano la freschezza della vena poetica nella riscoperta dell’uomo e del suo dramma storico, lo fanno per vie del tutto diverse, se non addirittura opposte. Scolastico ed accademico l’uno, autodidatta e antintellettualista l’altro; aristocratico e rifinito l’uno, popolano e grezzo l’altro; idealista Iqbàl ‑ il filosofo dell’Io e dell’Uomo ‑, concreto e corposo Nazìr ‑ il cantore del bottegaio, del venditore ambulante, dell’amico incontrato per istrada... ‑; impegnato l’uno alla revivificazione dell’Islam e al risveglio sociale e politico dei musulmaní, bohémien l’altro, vagabondo del mondo, senza ideali da svendere o politiche da appoggiare, acuto ed ironico descrittore dei volti anonimi, eppure reali, che brulicano nelle vie di Delhi o nel bazar di Agra; profetico l’uno nel preconizzare la perfetta immagine dell’uomo di domani, immediato ed empirico l’altro nel cogliere la miseria e le angustie della folla umana di oggi; stilista e persianeggiante l’uno, populista ed incolto l’altro, nei temi come nel linguaggio. In breve, la poesia sgorga in Iqbàl da una fantasia dal fervore profetico, in Nazìr da un bruciore epidermico per il gusto dei sensi. Il resto è evidente di suo.

Ma veniamo più direttamente a Nazìr.

Ecco come un critico pakistano, in un’eccellente opera sulla letteratura urdu, introduce Nazìr Akbarabadi:

«Nazìr è stato guardato con freddezza dai vecchi critici perché un eccentrico che non quadrava entro gli schemi della poesia tradizionale. Egli fu un outsider e subì la sfortuna di chiunque non sottoscriva ai gusti imperanti del tempo. Con l’affrancamento della poesia da vecchie convenzioni, il suo merito è stato riconosciuto. E, come è naturale in casi del genere, il pendolo ha oscillato a tal punto nella direzione della lode da far sorgere il timore che (Nazìr) venga stimato oltre il merito» (MUHAMMAD SADIQ, A History of Urdu Literature, Oxford 1964, 111).

E infatti ci sembra alquanto esagerato il giudizio del prof. Bausani che considera Nazìr «uno dei migliori, se non il migliore poeta di tutta la letteratura urdu classica» (Letterature del Pakistan, in Storia delle Letterature d’Oriente, Vallardi, Milano 1969, 603). Più nuancé il giudizio del sopraccitato critico pakistano. Questi, dopo aver notato che il verso di Nazìr non offre ulteriori suggestioni poetiche al di là della sua tenue trasparenza, conclude sinteticamente:

«La sua (di Nazìr) poesia è la sublimazione del genio dell’uomo ordinario. Se un uomo della strada divenisse, per una misteriosa trasformazione, poeticamente vocale, scriverebbe come Nazìr» (MUHAMMAD SADIQ p. 116).

E, infatti, se l'immediato sensismo estetico di Nazìr da una parte dà freschezza e verità ai suoi versi, dall’altra consuma tutta la carica poetica nella tenue tessitura del verso stesso. Nessuna dimensione di paradigma, o sistema associativo ‑ per rifarci alla nozione saussuriana dei due assi del linguaggio ‑ crea un qualsiasi spazio evocatico di riserva poetica che si ponga al di là delle componenti grammatico‑sintattiche del verso naziriano. E questo proprio nel cuore d’una tradizione letteraria urdu, che ‑ sulla scia della poesia persiana ‑ trova il gusto del poetare nella frangia estrema della sfera d’associazione del linguaggio, là dove il fervore evocativo raggiunge il suo acme. Ne risulta una tecnica elaboratissima dove il simbolismo più sbrigliato, evocato ab extra, rifluisce sulla tessitura sintattica del verso facendovi opera di disturbo fino a scompigliare i nessi semantici, e creando nel medesimo tempo la meraviglia poetica. In condizioni stilisticamente ottimalí, la qualità di siffatta poesia potrebbe raggiungere vette altissime d’emozione. Ma molte sono pure le probabilità di rischio. La forza dell’ondata straripante dal “fuori campo” asseciativo potrebbe riversarsi sul sintagma con tale capricciosità da travolgere il tenuissimo filo del discorso sintattico. Sarebbe allora la conflusione e il sovvertimento assoluto del rapporto sintagma‑sistema (necessario, del resto, per ogni enunciato che abbia senso). In tal caso tutto significherebbe tutto. Al di là dell’unico rifugio possibile, il silenzio, sarebbe il non‑senso della pura equivocità e la dissoluzione stessa della poesia.

Chi ha dimestichezza con la letteratura persiana, e di quella urdu sulla scia del persianismo, sa che codesta poesia si è mossa, con equilibrismo più o meno fortunoso, sullo spartiacque del massimo simbolismo e della pura equivocità (tutto può essere metafora di tutto). La maturazione di tale stile poetico coincise con la fine del XVIII e inizio del XIX secolo, e quindi col periodo del poetare di Nazìr Akbarabadí. Mirza Ghalib segnò il massimo del perfezionismo estetico e l’apogeo della poesia urdu classica. Fu colui che sfruttò appieno le potenzialità poetiche della fascia associativa del linguaggio, premendo la parola verso arditissime zone di polisemia ma evitando, con un salvataggio dell’ultima ora, lo scoglio della dissoluzione del linguaggio. Ma non tutti i poeti seppero mantenere l’equilibrio sulla corda tesa. E la poesia urdu rimarrà, anche in esperienze recentissime, vocazionalmente ghalibiana. Il campo simbolico‑associativo sarà praticamente il registro unico di tutta la poesia urdu.

Questo andava detto per situare la poesia di Nazìr a partire da una analisi interna al suo linguaggio e all'uso che egli ne fa. A nostro avviso Nazìr è una curiosa isola poetica della storia della letteratura urdu, perché l’unico che costruisca il suo verso respingendo da esso il rigurgito del campo metaforico e affidando quasi esclusivamente al composto grammatico‑sintattico le possibilità di emozione estetica. L’atteggiamento dei critici del tempo, i qualí o ignorarono o disdegnarono Nazìr non sapendo dove “collocarlo” criticamente, corferma il nostro giudizio. Sbagliarono invece costoro a negare ogni valore alla poesia di Nazìr sull’assunto (meglio, esperienza culturale univoca) che non ci fosse altro modo di far poesia se non quello, per intenderci, ghalibiano.

Per rendere meno astratto il discorso, diamo alcuni esempi della poesia di Ghalib. Lo riteniamo doveroso, perché il lettore abbia la possibilità di constatare la complessità, l’elaboratezza, la smaliziata compattezza formale della poesia urdu, e non sia lasciato con l’impressione che la poesia di Nazìr, strutturalmente e formalmente del tutto elementare, costituisca il tipo di poesia urdu, che anzi ‑ l’abbiamo detto ‑ va considerata un’eccezione. Nel contempo il lettore potrà cogliere per contrasto la singolarità propria del poeta Nazir nella geografia critica della letteratura urdu.

Da Mirza Ghalib (Agra 1797 ‑ Delhi 1869) scegliamo a caso alcuni sha’r (unità completa di verso, di due emistichi; il ghazal è composto di più sha’r, ma questi sono per lo più formalmente compiuti e quindi unità poetiche autonome):

1. La Coscienza distenda pure quanto vuole la rete dell’Udire:

il Significato è la Fenice della sua propria Parola.

Potrà sembrare sibillino al lettore occidentale, ma una volta afferrati i riferimenti «fuori campo» dell’esasperato simbolismo di tale poesia, la coerenza semantica della sua tessitura stilistica è facilmente assicurata. Qui: il significato profondo è inesprimibile con parole, essendo esso l’inesistente uccello (Fenice) e cioè il silenzio della sua possibile espressione (II emístichio). Ogni tentativo di carpire la parola è inutile così come gettare la rete ad un uccello inesistente (Fenice) (I emistichio).

2. Ho tentato di trattenere i Sospiri, ma a fiotti sono rigurgitati;

son divenuti ora la Sutura della mia «Lacerazione del colletto».

Disperazione e follia (= metafora della lacerazione del colletto) sono state coperte dai sospiri. Questi, esseri... filiformi (e qui è assicurata la coerenza della metafora), fanno ora da appariscente filo di sutura della «lacerazione del colletto», quando avrei voluto farli passare inosservati.

3. Vorrei andarmene dove non ci sia nessuno,

nessuno che mi parli o sappia la mia lingua.

Vorrei costruire una casa senza porta né muri

dove né guardiano ci sia né prossimo.

A parte l’arditezza di protendere l’immagine della casa (che pure è ritenuta) fino al limite della sua dissoluzione (impossibile una casa senza porta e muri!), c’è qui nell’originale urdu un’altra sorprendente evocazione fuori campo, e questa volta al livello puramente lessícale. Prossimo o vicino di casa, è in urdu ham‑saya, letteralmente «co‑ombra», colui cioè che è con me sotto la medesima ombra. Se l’inesistenza del guardiano è introdotta nel tessuto verbale per un richiamo logico (mancanza di porta, quindi... ), l’inesistenza del prossimo (co‑ombra) emerge dal campo associatívo puramente lessicale‑etimologico, al massimo del formalismo poetico. La co‑ombra non può esistere là dove ombra non c’è, visto che si tratta di una casa... senza muri!

Siamo al limite delle potenzialità poetiche scovate negli sfasamenti dei due assi del linguaggio. E non tutti i poeti urdu escono indenni da siffatte arditezze. Nasikh († 1838) ad esempio, contemporaneo di Nazìr, rischia di sovvertire a tal punto le costanti del linguaggio da concludere ad una commistione dissolvitrice della poesia stessa (si pensi all’arzigogolo della poesia secentistica italiana). Eccone due esempi:

1. Mi son dissolto nel fiume d’amore.

Mi basterà per tomba la cupola d’una bolla!

La coerenza del tutto è affidata al labile filo della rotondità e quindi somiglianza d’una bolla d’acqua con la cupola del mausoleo‑tomba!

2. Arde perfino il riflesso della tua faccia di fuoco:

il mercurio s’è liquefatto dietro lo specchio.

Si suppone che l’ardentissima amante (dalla faccia di fuoco!) stia rimirandosi nello specchio, che ne subisce le... disastrose conseguenze di cui al secondo emistichío.

Dai testi poetici di Nazìr, che riporteremo più avanti, il lettore avvertirà d’istinto come ci si muova in tutt’altro mondo poetico. Non intendiamo con questo introdurre una valutazione preferenziale per l’uno o l’altro modo di far poesia, ma ci premeva illustrare e determinare il registro tecnico‑formale proprio di Nazìr. Questi contrae al massimo la propria emozione poetica entro il semplice supporto grammatico‑sintattico del verso (piano sintagmatico del linguaggio). Acquista immediatezza, efficacità plastica, verismo. Ma la sua poesia si consuma in ciò che il verso grammaticalmente significa. Non ci sono altre zone poetiche di contorno, che accompagnano ‑ allargandola ‑ la sintassi del verso. Questo è letto, ed è già esaurito.

5.  Nazìr Akbarabadi (Akbarabad era chiamata dai musulmani la città di Agra) nacque a Delhí nel 1740 circa. La famiglia, per sfuggire ai disordini politici e militari che tempestavano la capitale dell’impero moghul ormai in decadenza, riparò ad Agra (sud‑est di Delhi). Agra fu la scena umana della poesia di Nazìr, e ad Agra egli morì nel 1830, anni in cui gli inglesi portavano a termine la quasi totale soggezione dell’India.

Due fatti vanno subito notati per fissare la fisionomia della personalità artistica di Nazìr. Primo, egli non fu poeta di corte. L’importanza di ciò è decisiva se si tien conto che tutta la letteratura urdu, ad eccezione di quella del XX sec., è una letteratura che vegeta, si sviluppa e si modella sulla vita delle corti musulmane ‑ imperiali o vassallatiche ‑ dell’India. E delle corti risente l’atmosfera come pure le vicende politiche. I poeti urdu sono regolarmente stipendíati a corte, e al servizio del mecenate ‑ imperatore o nawab che sia ‑ spendono il loro talento poetico. La letteratura urdu ebbe per culla le corti dei regni musulmani del Deccan (1400‑1600), fiorì poi nell’India del nord presso la corte dell’imperatore moghul di Delhi. Sullo scorcio del ‘700, l’insicurezza di Delhi, bersagliata militarmente da più fronti e a più riprese, favorì un vero e proprio esodo dei poeti che rifugiarono presso stati vassallí più quietí ‑ Hyderabad, Rampur, Bhopal e, più vicino, Oudh. Ogni corte originò così una “scuola” con caratteristiche e temperamento poetico‑letterario propri. Nazìr, caso unico nel periodo classico della letteratura urdu, non è al soldo di alcuna corte, e di conseguenza non si riallaccía ad alcuna scuola. Caso impensabile di extravagans per i critici del tempo, che lo ignorano non riuscendo ad incasellarlo entro i rigidissimi schemi della poesia di maniera.

Secondo fatto. Nazìr, fuori della serra della vita di corte, vive la propria esperienza poetica tra il brulichio delle masse popolari, vagabondo spensierato e scapigliato nelle strade rigurgitanti di vita e di miseria dell’oriente, nei bazar pullulanti delle angustie e dei brevi piaceri dei poveri, nelle mille botteghe in cui si litiga lo spicciolo ed il pezzo di pane: nel cuore, insomma, della “commedia umana”, nella sua più densa corposità, di contro alla vacua esistenza dei privilegiati del paradiso delle corti.

L’incidenza di ciò sulla poesia di Nazìr è facilmente intuibile. Costituzíonalmente ostile e anticonformista nei riguardi della sussiegosa poesia cortigiana, impone ‑ con scandalo di tutti ‑ forme strofiche e tecniche di versificazione insolite (il nazam, agile poemetto a strofe con versi e rime scorrevoli, di contro al costrettissimo ghazal, modello della poesia dotta e ufficiale). Immerso fino al collo nella vita del popolino, capovolge i temi poetici. Questi, cristallizzati nella tematíca della vita di corte, avevano esaurito la propria capacità di suggestione poetica favorendo una produzione tanto massiccia quanto vieta. Si ricorre con più frequenza al plagio dei modelli persiani, ma tutto termina ad una colluvie di diwan (raccolte di ghazal) dove si rifriggono, fino alla nausea, i temi dell’amata lontana, del canto dell’usignolo, del lirismo floreale, e si saccheggiano logore metafore di repertorio, come quelle della candela‑falena, dell’amato-omicida, dell’efebo‑anfitrione ecc. Nazìr, con scorno di tutti, fa poesia ‑ e degnissima poesia ‑ cantando il cetriolo di Agra, il cocomero del bazar, la farina e cicerchie (bellissimo è appunto il poemetto su ata‑dal), i quattrini, l’oppio, le feste popolari, le stagioni, la povertà, l’amore di suburra, la morte... Un’altra innovazione di Nazìr: il lessico. Di contro un tronfio snobismo dei poeti cortigiani che rimpinzano il loro urdu di arabo e persiano (le lingue dotte) credendo di dar lustro a sé e alla lingua, Nazìr spalanca all’urdu la porta del linguaggio popolare, immettendo nella lingua letteraria uno spesso strato di lessico vernacolo (prevalenza di termini hindi, lingua del popolo). E l’urdu acquista elasticità, nitidezza e varietà proprie delle lingue che si rinnovano nel contatto vivo col suolo umano‑sociale di una cultura. Soprattutto ha inizio il fenomeno della socializzazione dell’urdu. Questo, svincolandosi dal monopolio di palazzo (urdu‑e‑mu’alla, lingua appunto del campo o corte imperiale) guadagna strati sempre più popolari contribuendo a creare l’amalgama linguistico‑culturale della comunità musulmana dell’India.

Non è possibile qui presentare un’antologia dell’opera di Nazìr. Cercheremo invece di raccogliere alcuni temi sparsi nel tentativo di fissare il punto focale della sua poetica: la meraviglia e l’amore per l’uomo. Dove uomo sta non per un ideale astratto né per una infinzione poetica, ma per chiunque ‑ o tutti ‑ di una folla umana si muova sulla scena del mondo consumando la propria vita dietro i banalissimi bisogni umani. È in atto l’ingenua funzione poetica dello sguardo del popolano che riconosce la medesima materia umana dietro i tenui (tenui all’ironia del poeta!) sipari ‑ il mestiere forse, o il censo, la casta, la religione, la razza ‑ che spaccano verticalmente la comunità degli uomini. Qui un universale livellamento è prodotto ad opera della curiosità e ironia poetica di Nazìr. Lo sguardo del popolano restituisce la solidarietà agli attori della scena del mondo. Una solidarietà riscoperta non per una vocazione etica o ideologica, ma per l’ostinata impertinenza di mettere a nudo le elementari, ingloriose concupiscenze che accomunano gli esseri umani. È la funzione ironica della simpatia di Nazìr. E l’ironia, ora benevola ora amara, fa da catalizzatore poetico alla variopinta galleria umana che scorre davanti all’occhio del poeta. E qui si fa, anche al livello formale, l’unità del genio poetico di Nazìr, spesso accusato di dispersione nella sua incontenibile curiosità. L’ironia dà compattezza formale alla girandola dei mille colori che ritraggono la vita e l’agitarsi dell’uomo. E così tutto ciò che è irrinunciabilmente e quotidianamente umano trova posto nei versi del popolano Nazìr: debolezze e bisogni, ansie e cupidigie, miserie e follie; pane, lucro, casa, affari, amore, povertà, morte ... ; e le mille e mille cose che fanno il teatro della vita dell’uomo: strada, città, feste, tempo, stagioni, cielo ‑ quello che intende il contadino, il saltimbanco, il rivendugliolo... E da questo panorama del mondo emerge, compatta e vera, la figura dell’uomo che lo stampo poetico dell’ironia naziríana accomiata con un tocco finale di profonda simpatia.

Ma una simpatia ed una commozione che non si fanno mai coinvolgimento, mai moralismo. L’ironia è là a contenere le emozioni entro l’area poetica della pennellata leggera, dell’emozione annuita, dell’annotazione veristíca ma mai cruda, dell’accoramento per l’affamato e il meschino ma che non si fa né prostrazione né ribellione. Si definiscono qui sia i termini della grandezza di Nazìr che i limiti del suo temperamento artistico. Il gusto del dettaglio umoristico, dell’angolatura deformante, della commistione grottesca, della contaminatio irriverente escludono il piglio dantesco, ma in compenso danno alla “commedia umana” del poeta di Agra un tono che non trova riscontri nelle letterature d’occidente.

Una connaturale simpatia, dunque, per l’uomo, chiunque e comunque sia. Non certo umanesimo nel senso europeo della parola. Ma la riscoperta ingenua e pre‑critica del valore dell’uomo come tale, così com’è, in una società dove forme religiose alienanti tendevano a polverizzare l’uomo al cospetto di un teismo esasperato (fosse di marca islamica o indù). La riaffermazione dell’uguaglianza di base degli uomini, laddove stratificazioni di casta e privilegi feudali avevano spaccato la socíetà in raggruppamenti culturalmente ed economicamente schizofrenici. La trepidazione per l’uomo senza volto del popolo, trascinato a guerre che non lo riguardavano, consunto in una povertà endemíca, fagocitato dagli altrui interessi, ignorato infine dai poeti, per i quali evidentemente la poesia non aveva nulla da spartire con l’ingloriosa esistenza dell’uomo del volgo.

Né si può parlare di socialismo nel caso di Nazìr Akbarabadi. Lo scioperato e scanzonato poeta di Agra non nutriva né teorie né ambizioni di profetismo sociale. Né deriva la curiosità intellettuale d’analisi degli squilibri della sua società. Si può parlare forse di un populismo estetico. Una viscerale simpatia a cogliere il variopinto mondo dell’uomo comune, a registrare con meticolosità e arguzia i suoi ingredienti, il suo dimenarsi, il suo crescere, il suo morire... E oggi è forse proprio questo che, in una società dove ideologie crollano per avere scavalcato l’uomo, ridà a Nazìr Akbarabadi un posto onorevole nella lettura e nella critica contemporanea urdu.

6.  Ma lasciamo al lettore il gusto d’apprezzare da sé il poeta di Agra. Ecco una succinta antologia del cantore dell’uomo comune.

Da La Pagnotta. Roti è il pane a forma di schiacciata rotonda, tuttora nutrimento base delle popolazioni dell’India. Comprensibile la forza... evocativa che il roti esercita sugli stomachi affamati, come provano i due versi finali.

Quando van giù nel ventre sàpide le pagnotte

non resta più un angolo in corpo cbe non riempiano le pagnotte.

Fanno ammiccare con gli occhi alle belle, le pagnotte,

e invitano le mani a lisciare il bel petto, le pagnotte.

    Insomma quanti son gusti, tutti li dànno le pagnotte!

Senza pagnotte nel corpo, non c’è più gusto all’azione

non piace vagar nelle fiere, passeggiare nei prati.

In cuore al famelico non c’è attrazione per Dio.

È vero quel che disse qualcuno, non è falsità:

   Persino Dio fanno venir in mente, le pagnotte!

Se domandasse qualcuno a qualche affamato fachiro

per che cosa creò Dio questo sole e la luna,

quello direbbe: «Bravuomo, ti benedica Iddio!

A me quelli non sembrano affatto né luna né sole:

   Bravuomo, a me sembra proprio che sían pagnotte!».

(traduz. Bausani, Le Letterature del Pakistan, Milano, 1958, 152).

Aggiungiamo, di nostra traduzione, un'altra strofa interessante per la contaminatio che la parola nur  -  luce spirituale, divina nella terminologia religíosoteologica urdu  -  introduce nel bel mezzo del contesto culinario:

Forni, fornelli, pentole e marmitte:

qui si squaderna la virtù del Creatore!

Lo splendore, alla bocca del forno, è la Presenza (di Dio).

Fra le tante luci (nur), specialissima è questa:

   in questa luce (nur)... compaiono a vista pagnotte!

Da La Povertà:

Ditemi un pò, ora: quel Sapiente dalla gloria sovrana,

al quale s'ínchinano nababbi e khan reverenti...

se diventa povero? Povero, non vale nulla Loqman

e se pur fosse un Gesù, non lo guarderebbero in faccia:

   Sì, soffoca anche la saggezza del saggio, Povertà!

Quando quel brutto giorno s'abbatte su una bella fanciulla,

distribuisce a tutti per amore o per forza baci a destra e sinistra,

e mai a nessuno viene in cuore affetto per lei.

Se ha una bellezza che valga mille rupie... ahimè,

   a quale alto prezzo, nel mondo, si vende, la Povertà.

(Bausani, 153-154).

Da Paisa, l'inno ai quattrini (paisa è l'unità monetaria della valuta indo‑pakistana):

Là dove i soldi han disteso le loro reti potenti,

s’impigliano l’ali e le penne pure degli angeli!

Davanti ai soldi, che contano queste graziose fanciulle?

I soldi fan pure uscire le fate dai loro castelli di sogno!

   I soldi sono forma e bellezza, i soldi sono ricchezza

   se non avesse soldi, l’uomo sarebbe schiacciato dal cielo!

Per che si levan le lance e gli scudi? Pei soldi.

Per che volteggian le spade e le frecce? Pei soldi.

E la gente si piglia ferite sul campo... Pei soldi!

Sino al punto che si fan tagliare le teste... Pei soldi!

   I soldi son forma e bellezza, i soldi sono ricchezza

   se non avesse soldi, l’uomo sarebbe schiacciato dal cielo!

(ib., p. 152).

Dall’Inno al Cocomero (Tarbùz) significativa è la strofa seguente dove, ad opera di una metatesi d’immaginí, è creato un effetto di surrealismo tutto moderno tra l’orrido e il giocoso:

Spietata e crudele è quell’amante sanguinaria,

fa un massacro, notte e giorno, dei suoi trepidi amanti.

Ieri proprio m’avvenne di passare nella sua strada

e tal magazzino di teste tagliate di martiri a mucchi

vidi colà, proprio come al bazar cocomero sopra cocomero!

(ib., p. 156).

Da La Morte (Maut):

Uno il mondo s’è goduto, ed è morto

un altro nelle strette è vissuto, ed è morto anche lui.

Il dòtto t’ha tenuto a lezione, ed è morto

il deficiente che il petto batteva, è morto anche lui.

Morto è lo sventurato, morto il gaudente.

Chi è rimasto in vita? Chiunque è venuto andato se n’è!

(Traduciamo dall’antologia naziriana in A.L.Siddiqi, Nazir Akbarabadi: unka ‘ahad aur sha’iri (N.A.: la sua epoca e la sua poesia), Lahore, II ed., 1967 (in urdu). L’autore, attuale preside della facoltà urdu all’università di Karachi, è il critico più autorevole di Nazìr e l’artefice della sua rivalutazione).

 

Due strofe da un altro nazam che, per il suo ritornello, potrebbe essere una parafrasi del «Pulvis es...»:

Giace la salma del ricco in una cassa di zinco

nel ventre della nuda terra il povero è sepolto.

Che dire, amici? Entrambi li divora la polvere.

   Chi di polvere è fatto, polvere torna!

Uno giace in un sudario da mille rupìe

un altro, derelitto, nudo è sepolto.

Carne e cuore d’entrambi rodono i vermi.

   Chi di polvere è fatto, polvere torna!

Dalla famosa Città del Terrore (Shahar ashob) traduciamo alcune stanze. Non si tratta di finzione poetica - estranea del resto al temperamento artistico di Nazìr - ma di una descrizione di fatti reali. La città in questione è Agra. Si è cercato di datare la poesia in riferimento ad un'invasione militare o carestia particolare. Ma il tentativo sembra votato a sicuro insuccesso. Dalla morte di Aurangzeb (1707), che segna l'inizio del declino dell’impero moghul, al grande mutiny del 1857 il tratto della pianura gangetica che va da Delhi, Agra a Luknow e oltre, è teatro d’incursioni, guerre, saccheggi e carestie d’una crudeltà e frequenza inimmaginabili. Nadir Shah di Persia, Shah Abdali Afghani attaccano a più riprese l’India settentrionale ordinando massacri e saccheggí; i Sikh si organizzano in forza militare, si ribellano al sultanato di Delhi e combattono per l’indipendenza del Panjàb; dal sud i bellicosi Marathi scatenano quattro guerre successive nei territori dell’impero moghul (dal 1775 al 1818); popolazioni tribali, i Rohilla, assaltano dal nord; e intanto gl'inglesi stringono il cerchio da est. In tale miserevole stato di cose, gli eredi fantocci dei grandi Moghul e i numerosi nawab (principi vassalli) assistono indifferenti, nel lusso e nella corruzione della vita di corte, agli ultimi singulti d'un mondo in sfacelo. E i poeti assoldati distraggono i cortigiani con sollazzevoli ghazal. Fuori, la miseria e la prostrazione di milioni d’esseri umani sfruttati e dimenticati. Solo Nazìr registra le loro sofferenze.

Dalla Città del Terrore:

Oggi non ho animo neppure di parlare

immerso come sono in tetri pensieri, notte e giorno.

Il mare ondoso della mia parola s’è sedato.

E come potrebbe la lingua non esser incollata nella bocca

   quando la gente di Agra non sa come sfamarsi?

Neppure il pane quotidiano, ecco quale miseria!

Non è un trucco; è palese come la luce del giorno, la miseria!

Tra muro e porta s’è insediata la miseria

    al punto che ogni casa ha inondata la miseria!

Dopo aver detto che in città è sparito ogni bene, persino «il pericolo dei ladri e il timore degli scippatori» - l'ironia rifà capolino anche in una poesia dal tono accorato -, Nazìr continua:

Cambiavalute, mercanti, gioiellieri e banchieri

trafficavano in contanti, vivono a credito ora.

Polvere a manciate è caduta nel bazar.

Seggono oziosi i merciai in bottega

   come tanti ladri inquadrati a giudizio.

Operai e impiegati d’alto rango

neppure una giornata racimolano, i meschini!

Seduti sino a vespro se ne stanno al negozio

s'alzano poi esclamando: «Scarogna!

   Lo fortuna, impotente, ci ha abbandonati!».

Divenuta di nessuno, votata è Agra alla rovina:

dìrute le case, rifugio aperto la città!

Opra del giardiniere è custodire il giardino:

e non diverrebbe, questo, deserto

   qualora né giardiniere ci fosse, né padrone, né recinto?

Perché, amici, questo vento ha spirato sulla nostra città?

Tale una miseria che senno e sensi ha perso la gente

e chi dissennato era digià, tale è rimasto.

   Sapiente tu sei: prova a sciogliere il nodo!

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