Tutto questo rende storicamente e letterariamente legittimo accostare più da presso i testi tomasiani attraverso il passo del commentario a san Matteo (di cui in apertura) e luoghi paralleli della letteratura evangelica.
La lectura va collocata nel secondo soggiorno parigino, con grande probabilità durante l’anno scolastico 1269-1270 (Bataillon, RSPT 44 (1960) 145-46; Torrell, Initiation 495). Se si tien conto che il commentario a san Giovanni (1270-1272) è di ben altra stoffa e serve altri propositi, la scelta di s.T. caduta su Matteo - tra i vangeli sinottici - è di non poco significato. Si sa peraltro che s.T. non ha mai commentato gli altri sinottici. È che san Matteo, insieme agli Atti degli Apostoli, fu il testo scritturistico più frequentato dai riformatori evangelici dei sec. XII e XIII. E le lotte più accanite, incentrate sul ministero della predicazione e la povertà apostolica, vertevano proprio sull’interpretazione di cap. X di san Matteo. Difatti nel commento tomasiano si ritrovano tutti i temi dell’evangelismo medievale e dell’ecclesiologia del tempo. Ma ci sono altresì, nel retroterra, i nuclei d’un’ermeneutica nuova che fa qui la sua prima apparizione.
Il passo tomasiano che c’interessa è il commento a Mt. 10,9-10, luogo classico della missio apostolica e della povertà evangelica.
Testo della volgata (Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, ed. R. Weber – R. Gryson, Stuttgart4 1994): «(v. 9) Nolite possidere aurum neque argentum neque pecuniam in zonis vestris. (v. 10) Non peram in via, neque duas tunicas, neque calciamenta, neque virgam. Dignus enim est operarius cibo suo». Comm. tomasiano in EP t. 10, 98 A - 99 A.
Vi si possono fissare due fasi di lettura: quella prettamente critico-testuale che tende a stabilire i contorni grammaticali e sintattici del testo; quella esegetica che abbozza tre possibili strumentazioni ermeneutiche. Il passo merita d’essere analizzato a distanza ravvicinata. Si presti attenzione all’articolazione formale dell’uso del linguaggio; al recupero del messaggio attraverso controproposte testuali; alle marcature logiche che determinano l’inclinazione del piano semantico del testo; ai trapassi storici ed ermeneutici che giostrano su nuove circonferenze tracciate all’interno della scienza ermeneutica medievale. Li metteremo in risalto redazionalmente e con brevi annotazioni laddove necessario.
1. Sono anzitutto evocate le discrepanze con i luoghi paralleli di Marco 6,8-9 e, più oltre, di Luca 22,35-36. Non si nascondono le difficoltà né ci si lascia tentare dalla scappatoia dell’allegorismo. «Ideo haec verba sunt dubia et difficilia» (EP 10, 98 A).
2. La forma grammaticale dell’ímperativo Nolite etc. non lascia dubbi sulla natura ingiuntíva del discorso. La povertà rigorosa («nec calceamenta neque virgam») è un precetto del Signore rivolto a chiunque intraprenda la predicazione apostolica.
3. Oggetto del precetto («Iesus praecipiens eis») sono evidentemente gli apostoli. Ma la suppositio è bivalente. Gli apostoli in quanto tali o in quanto fedeli? Non in quanto fedeli, altrimenti tutti vi sarebbero obbligati. L’esclusione del secondo lemma della dicotomia è raggiunta tramite un richiamo eresiologíco (un fatto di storia della Chiesa subentra per creare nuove relazioni oppositive tra i termini del testo): l’eresia degli Apostolici secondo i quali, a detta di san Agostino, «nullus posset salvari nisi hi qui nihil possident» (ib. 98 A), e l’altra secondo cui «nemo salvatur nisi discalceatus pergens» (ib.). Ambedue le posizioni sono da rigettare, sebbene l’errore consista non in ciò che esse comandano ma nella ingiustificata riduttività del condizionamento che deducono dal precetto del Signore. «Et haec fuerunt haereses non quia malum praeciperent, sed quia non observantibus praecludebant viam salutis» (In Matth. 10,10; EP 10, 98 A).
Se il precetto tocca gli apostoli in quanto tali allora tutti i loro successori ne sono astretti. Ma non c’e la testimonianza in contrario della condotta dell’apostolo Paolo «qui portabat et accípiebat a quibusdam ut aliis daret»? (Questa volta è l’auctoritas dell’esempio apostolico che suggerisce il richiamo extratestuale. Cf. Contra imp. c. 7, 1171-1204). E la difficoltà ritorna, di rimbalzo, al livello testuale: «ideo difficultatem habent haec verba» - è detto per la seconda volta. Non resta che tentare una soluzione ermeneutica.
1. La prima via, sulle orme di Girolamo, è un’esegesí letterale, exponendo ad litteram. Il precetto più che terminare direttamente alle persone è ordinato all’officium apostolatus. Nella formulazíone poi di Mt. 10,10, esso non è assoluto (de necessitate simpliciter) ma circoscritto a una particolare situazione storica (ad tempus). La prima missione apostolica infatti era diretta agli ebrei. E poiché presso costoro usava provvedere al mantenimento dei loro magistri, di conseguenza è fatto obbligo agli apostoli di non portare alcunché nelle loro peregrinazíoni apostoliche. Ma dopo la passione, il Signore invia gli apostoli presso i gentili. La missione si adatta alla nuova circostanza, come è testimoniato dalla «discordanza» di Lc 22,35-36.
Restano da chiarire le rationes d’una siffatta povertà ingiunta agli apostoli (il trapasso dall’alternativa precettistica “bastone sì bastone no” raggiunge le intenzioni evangeliche della povertà). Le rationes sono scovate nell’analisi serrata e aderente a Mt. 10,10. Dove l’arrabbiato letteralismo degli Spirituali rigetterà il discorso sulla facies precettistica del testo (“scarpe sì scarpe no”) l’esegesi ad lítteram di s.T. raccoglie una messe preziosa di valori evangelici, ricomposti nel tutto armonico della vita cristiana.
Ed ecco le rationes della rigorosa povertà degli apostoli (ib. 98 B):
perché la purezza della predicazione non fosse compromessa dalla cupidigia del denaro;
perché la sollecitudine delle ricchezze non fosse d’intralcio alla parola di Dio;
né bisaccia né due tuniche, perché fosse manifesta la potenza del Signore;
niente calzari, perché gli apostoli spartissero l’abiezione dei più poveri d’Oriente;
ne bastone, perché riponessero tutta la forza della predicazione nella fiducia nel Maestro.
Una ratio est, quia Dominus mittebat pauperes ad praedicandum: ideo posset aliquis credere quod non praedicarent nisi propter quaestum (…). Item ad tollendam solicitudinem: quia si essent circa hoc minus soliciti, impediretur verbum Dei.
Neque peram in via (…) ut ostenderet virtutem suam.
Neque calceamenta (…). Duplex est causa (…): Dominus mittebat cos ut apud omnes pauperes reputarentur (…). Ideo voluit quod abiecti essent: pauperes enim in partibus orientis vadunt discalceati; utuntur tamen quibusdam quae sandalía dicuntur, et fiunt de paleis. Ideo volebat ut irent sicut pauperes illius patriae.
Sed neque virgam (…): ut firmaret eos (…); ut in ipso totaliter confiderent» (In Matth. 10,10; EP 10, 98 B).
Per la diversa soluzione esegetica di san Bonaventura (De sandaliis Apostolorum) v. infra II, c. 2.
E se altrove - Mc 6,9 - l’apostolo è autorizzato a portare il bastone, siffatta permissione ricade parimenti nelle categorie pro loco et tempore né più ne meno che la sua controparte negativa.
I binomi antitetici “bastone sì bastone no” e simili, non creano più relazioni oppositive - e quindi significazioni potenziali - né possono conseguentemente presumere di trattenere l’intenzione significativa sulla superficie del sistema dei segni. Emerge allora il controtesto delle rationes. È qui lo strato semantico del discorso. La lettura non può che portarsi sul controtesto. Ed è proprio nelle rationes che l’esegesi tomasiana stabilisce la semantica dellla pericope.
2. Augustinus per aliam viam vadit (98 B). È il secondo tipo d’esegesi. La forma imperativa del discorso (Nolite etc.) ha come lemma sintattico d’opposizione il diritto dell’apostolo alla sussistenza in forza del ministero (Dignus est enim operarius...). L’opposizione allora tra “portare e non portare”, che originava la dicotomia etica precetto/consiglio, si risolve in permissione supererogatoria. «Quia vos habetis potestatem accipiendi ab aliis; et ideo non est necessarium ut portetis». Gl’imperativi si sciolgono sintatticamente in forme consecutive: supposto il vostro sostentamento da altra fonte, Nolite etc., id est non est negotium ut... possideatis; come dire, «non c’è motivo di...». La marcatura sintattica del discorso cade sul diritto dell’operaio alla mercede più che sugli imperativi della povertà apostolica.
Se poi Marco è per il “bastone sì” di contro al “bastone no” di Matteo, nulla impedisce che la medesima cosa sia talora detta ad litteram (in Matteo) talaltra mystice (in Marco: «quod scilicet non ferant temporalia sed habeant potestatem accipiendi ab aliís»: ib. 99 A).
3. «Tertia expositio est: Nolite possidere aurum, idest saecularem sapientiam...». In sei righe dell’EP 10, 99 A, san Tommaso licenzia asciuttamente l’esegesi allegorica di repertorio.
Un tributo al passato, certo. Ma la sua irrilevanza, di fronte all’appassionata disamina che ha coinvolto Tommaso nel primo saggio esegetico (exponendo ad litteram), marca - redazíonalmente e letterariamente - una preferenza ermeneutica dell’Aquinate che non lascia dubbi.
Semnpre nel contesto della polemica sulla povertà evangelica, Mt 10,9-10 è ripreso in De perfect. c. 21. Sono riproposte, più concisamente ma con estrema fedeltà, le prime due soluzioni. La terza, l’allegorica, è ignorata. Cf. anche Contra doctr. c. 15; EL 41, C 69-71; Contra imp. c. 6, ob. 16; c. 7, § 8.
Riprendiamo Mt. 10,9 ma in lettura dall’orientamento opposto. Nel commento In Matthaeum s.T. si rivolgeva ai letteralisti della povertà che volevano imporre modi storici e discrezionali di vivere la povertà evangelica come assoluti, condizionanti addirittura la salvezza («nemo salvatur nisi discalceatus pergens... ). Le motivazioni e gl’intenti della povertà apostolica erano stati scovati dall’esegesi tomasiana attraverso un’interpretazíone che, scavalcando l’apparentemente ovvia composizione testuale, raggiungeva messaggi nelle zone preter-metaforiche del linguaggio di Gesù. Nel Contra doctrinam retrahentium a religione (1271) c. 15 gl’interlocutori sono, al contrario, dei lassisti (paupertatis impugnatores: c. 5, vv. 1-2); identificabili negli eretici Gioviniano e Vígilanzio, nei catari e nei dottori secolari che oppugnano la povertà dei frati Mendicanti (Contra imp. c. 6, rr. 197-257). I Secolari sostengono che deroga alla perfezione evangelica una povertà che rinunci finanche alla proprietà in comune (Contra doctr. c. 14). La risposta di s.T. (ib. c. 15) seconda un’argomentazione teologica composta gelosamente sui ritmi storíco-evangelici della doctrina et exemplum Christi (vv. 16-136), della missio et conversatio apostolorum (vv. 137-224) e dell’exemplum primitivae ecclesiae (vv. 225-354). L’esegesi di Mt. 10,9 è nei rr. 137-189 di Contra doctr. c. 15. Sulla traccia d’Eusebio di Cesarea, Girolamo e Crisostomo, si afferma la natura del messaggio di Gesù inteso a guarire l’uomo dalle sue radicali cupidigie. Gli apostoli, doctores verae religionis (v. 160), dovevano esser modello e anticipazione viva della perfezione cristiana. L’assoluta povertà degli apostoli mirava a creare le condizioni di credibilità e d’efficacia del kerygma:
a) che non fossero sospettati, gli apostoli, di tener dietro a profitto umano mentre predicavano la parola del Regno;
b) che fossero tutto dediti alla predicazione, distolti da qualsivoglia sollecitudine terrena;
c) che l’efficacia della loro parola risiedesse non nell’appoggio di potenze terrestri («subsidii saecularis adminicula»: rr. 170-71), ma nella persuasione insita nei precetti evangelici («praeceptis evangelicus suadetur»: v. 169) (rr. 164-173).
I possedimenti - immobili e terrieri - avrebbero intralciato l’operosità degli apostoli, messo in forse la credibilità della loro parola, dislocato il centro d’efficacia dell’annuncio evangelico (rr. 173-181).
Conclusione:
Manifestum est igitur secundum expositiones praemissas apostolis interdictum fuisse ne agros vel vineas vel alia huiusmodi bona immobilia possiderent. Quis autem dicat, nisi haereticus, primam discipulorum instructionem a Christo perfectioni evangelicae derogare? (rr. 181-86).
«Haec est igitur summa paupertatis perfectio, ut ad exemplum Christi aliqui homines possessionibus careant, et si aliqua reservent ad pauperum usum, praesertim quorum eis cura incumbit; sicut Dominus praecipue suos discipulos propter ipsum pauperes effectos, de hiis quae sibi dabantur reservans, sustentabat» (Contra doctr. c. 15,73-79).
Mt. 19,16-26 (r. 21: Si vis perfectus esse, vade et vende omnia quae habes... et veni sequere me) è un altro testo frequentatissimo dalla letteratura d’ispirazione evangelica. Nel commento a Matteo due interessi specifici sembrano contenere l’esegesi tomasiana: a) la sincerità o non del giovane ricco che, se da una parte afferma d’aver messo in pratica il comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, dall’altra non si risolve a tutto vendere e seguire Gesù (EP 10, 178 B - 179 A); b) il gusto di fissare la scala dell’ordo dígnitatis all’interno dei ranghi ecclesiastici che compongono, secondo una gerarchia ben ordinata, l’unitas ecclesiastica: quale lo status più perfetto, quello dei prelati o dei religiosi, quello dei religiosi o dei presbiteri curati? E costoro sono costituiti in statu perfectionis? (ib. pp. 179-80). È ovviamente il tributo che ha da pagare chiunque ripensi la fede all’interno e con gli strumenti della propria cultura.
Ma il medesimo testo viene ripreso con insistenza nella polemica antisecolare e commentato secondo una tattica - per così dire - di progressivo accerchiamento da postazioni su circonferenze concentriche.
Contra doctr. c. 7, vv. 1-42. S’intende controbattere l’asserzione dei Secolari per i quali non è lecito ricevere in religione chi non sia antecedentemente esercitato nei precetti (c. 2). Mt. 19,16-26 cade a proposito. Tommaso riferisce l’opinione di san Girolamo sulla insincerità del giovane ricco, e quella d’Origene secondo cui la noncuranza del giovane nei riguardi della miseria altrui testimoniava per un’osservanza imperfetta dei precetti. Per s.T. è l’occasione esegetica per illustrare l’urgenza della vita cristiana al massimo della sua espressione, e le gradualità soggettive del movimento verso la perfezione. Precisamente:
a) è impossibile conciliare la ricchezza smoderata con l’osservanza rigorosa (implere) del precetto Diliges proximum tuum sicut te ipsum. «Impossibile est enim implere mandatum quod dicit “Diliges proximum tuum sicut te ipsum” et esse divitem, et maxime tantas habere possessiones. Sed haec intelligenda sunt quantum ad perfectum modum observantiae huius praecepti» (Contra doctr. c. 7,26-31).
b) ma ci sono fasi intermedie del cammino dell’uomo - e della comunità degli uomini - verso la perfezione; il giovane ricco si trovava, presumíbilmente, in uno stadio ímperfetto dell’osservanza dei precetti; il che lo scagiona dall’accusa d’insincerítà. «Nihil autem prohibet dicere eum imperfecte praecepta prius observasse, et quantum ad hoc eum non fuisse mentitum, sicut Chrysostomus [Super Matth., hom. 63, n. 1: PG 58, 603] et alii expositores dicunt» (ib. vv. 31-34).
c) l’invito al consilium perfectionis non impone che il soggetto abbia precedentemente realizzato la forma perfetta dell’osservanza dei precetti, quasiché solo a costui sia riservato il privilegio dello status perjectionis. «Nec tamen quia exercitato aliqualiter in observantia mandatorum Dominus perfectionis consilium dedit, ideo necessaria forma praescribitur, ut solis talibus aditus ad consilia pateat; quia etiam Matthaeum non exercitatum in pracceptis, sed potius in peccatis conversatum, ad consilia sequenda vocavit, ut sic nec peccatoribus nec innocentibus perfectionis viam praecluderet » (ib. rr. 35-42. Cf. ib. 137-45). «Cum enim Dominus paupertatis consilium daret, his verbis est usus “Si vis perfectus...” ; ubi manifeste apparet quod paupertatis assumptio perfectionem non praeexigit, sed ad eam ducit» (De perfect. c. 22, 62-67).
Altrove si eluciderà il rapporto tra consigli e precetti, e si affermerà nel contempo la strumentalità dei primi rispetto ai secondi. Qui, contro una visione immobilistíca della vita cristiana e il pericolo di ricacciare la vita religiosa nella cerchia privilegiata dei “perfetti”, si stabilisce la gradualità etico-psicologica della via perfectionis e la strumentalità dei consigli evangelici rispetto ad acquisizioni sempre più alte del modello cristiano. E se la perfezione evangelica è dimensione normale della vocazione cristiana, allora l’invito Si vis perfectus esse non può esser né mononopolizzato da caste di sorta né sottratto ai “semplici fedeli” da una mentalità riduttiva della vocazione cristiana. Peccatores e innocentes sono entrambi chiamati con pari rigore ad implere il mandato dell’amore di Dio e del prossimo. In altre parole. Una teologia della perfezione cristiana non può affermare l’alterità specifica della vita “religiosa” rispetto a quella “cristiana” sul continuum unico ed essenziale della santità evangelica. Affermerà invece la legittimità di forme storico-empiriche con cui quella offre la propria strumentalità a questa.
Contra doctr. c. 9, rr. 119-151. Si risponde a coloro che intendono frapporre indugi all’entrata in religione argomentando: «ante religionis ingressum oportet diu et cum multis deliberare» (c. 8). Al di là dei problemi critici e della legislazione canonica del tempo circa l’ammissione in religione dei pueri (c. 3), la risposta di T. è formalmente centrata sulla promptitudo, una risolutezza spirituale, un abbandono senza esitazioni di sorta alla chiamata del Maestro. Sono rievocate la prontezza con cui gli apostoli tutto abbandonano e seguono il Signore (Mt. 4,20; 9,10), l’alacrità che la sequela del Cristo comporta (Mt. 8,21-22; Lc. 9,59; 9,61) (Contra doctr. c. 9, rr. 1-93).
Ex quo evidenter accipitur quod nihil humanum nos debet retardare a servitio Dei (ib, rr. 28-29).
Si passa quindi all’esegesi di Mt. 19,21 (ib. rr. 119-151). L’invito alla perfezione (Si vis perfectus esse) fu rivolto esclusivamente al giovane ricco o a tutti i discepoli? (rr. 119-23). Alla luce di Mt. 19,27-29, la presa di posizione di s.T. e tanto perentoria quanto sorprendente - se si pensa quanto l’universo mentale degli ordines fosse logicamente corrivo all’appropriazione dell’officium perfectionis da parte d’uno dei ranghi ecclesiastici. Il perseguimento della perfezione cristiana - dice s.T. - è vocazione-compito d’ogni discepolo di Cristo, così come l’invito Si vis perfectus esse fu in qualche modo rivolto a ciascuno di noi.
Non minus ergo sequendum est hoc consilium ab unoquoque, quam si unicuique singulariter ex ipsius ore dominico proferretur (Contra doctr. c. 9, 129-32).
L’interlocutore di Gesù fu certo il giovane ricco, ma il consilium fu indirizzato universaliter a tutti i credenti.
Sic igitur consilium adolescenti a Domino datum sic est accipiendum ac si omnibus ex ore Domini proponeretur (Contra doctr. c. 9, 148-51). Quamvis autem adolescenti loquens singulariter ad ipsum verba protulerit, alibi tamen idem consilium universaliter protulit... [Mt. 16, 24] (ib. c. 9, 136-40).
De perfectione spiritualis vitae c. 8: quale il posto della povertà nell’ídeale cristiano? La risposta ruota ancora intorno a Mt. 19,21. La lettura ne è fatta dall’angolo prospettico del rapporto “povertà/perfezione cristiana”. Le ricchezze - si dice - sono di grave intralcio alla perfezione cristiana (c. 8, rr. 1-58); è cosa quanto mai difficile per il dovizioso non attaccarsi ai propri beni e non rischiare così la salvezza eterna (vv. 59-70). Eppure Matteo, Zaccheo erano stati ricchi; Abramo addirittura morì che era possessore di beni materiali (Gen. 25,5-6). Che ne è della loro salvezza e della loro perfezione? (rr. 71-82).
L’interpretazione di Mt. 19,21 proposta da T. - se si tien conto degli estremismi nella disputa sulla povertà e della tentazione di sopravvalutare la mendicità per se stessa - è d’una sapienza teologica che raccoglie e l’intuizíone dell’essenza della vita cristiana e la sensibilità storica a non forzare forme empiriche di povertà in ípostasi atemporali.
Quae quidem quaestio solvi non posset, si perfectio christianae vitae in ipsa dimissione divitiarum consisteret; sequeretur enim quod qui divitias possidet, non possit esse perfectus.
Sed si verba Domini diligenter considerentur, non in ipsa divitiarum dimissíone perfectionem posuit; sed hoc ostendit esse quasi quandam perfectionis viam, ut ipse modus loquendi ostendit cum dicitur «Si vis perfectus esse, vade et vende omnia quae habes et da pauperibus, et sequere me», quasi in sequela Christi consistat perfectío, dimissío vero divitiarum sit perfectionis via (De perfect. c. 8, rr. 82-94).