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(I.2) De perfect. c. 11, rr. 60-81. Ancora Mt. 19,21. L’accento è qui messo su «Si quis vult venire post me». L’atto d’adesione al Cristo dev’essere così intimo e radicale da stabilirsi esclusivamente sui consensi più profondi della propria libertà.

Sicut enim dicit Matth. XIX « Si vis perfectus esse, vade et vende omnia quae habes», non necessitatem imponens, sed voluntati relinquens; ita dicit «Si quís vult post me venire, abneget semet ipsum». Quod Chrysostomus exponens [PG 58, 541] dicit «Non coactivum facit sermonem; non enim dicit: Si vos volueritis et non volueritis, oportet hoc vos patí» (rr. 62-69).

Esempìo di perfetta adeguazione della propria libertà sulla misura della volontà del Padre è lo stesso Cristo (ib., rr. 144-47). In un crescendo esegetico, i testi classici della oboedientia Christi centrano la natura cristologica dell’etica neotestamentaria dell’obbedienza: Rom. 5,19; Filip. 2,8; Mt. 26,39; Giov. 6,3 (rr. 148-68).

Si potrebbero moltiplicare all’infinito le testimonianze d’un’esegesi di fede; d’uno sforzo cioè ad interpellare il testo sacro da una posizione che accoglie ad un tempo testo ed esegeta nel presente della Chiesa in crescita. Un’esegesi decisamente intraecclesíale. Non perché funzionale alla confessionalità, bensì perché sollecita del giudizio critico della lex perfectionis.

Così come si potrebbe obiettare all’impazienza dell’atto esegetico d’avanzare oltre termine sul terreno del testo, sollecitandone sotto comando o condizionandone in qualche modo il rilascio del messaggio. La scienza esegetica moderna - dal Rinascimento in poi - ha foggiato la propria nozione d’oggettività del documento; questo è interpellato con tecniche euristiche che mirano a contenere al massimo le intrusioni ab extra dell’esegeta. È una nozione ed un esercizio “scientifico” della critica letteraria. Si potrebbe notare che qui l’assetto ermeneutico trae ispirazione da una semantica che professa - o suppone - una nozione reificata del significato: un testo “ha” un senso, lo contiene e lo porta in sé, indipendentemente dal complemento saturativo dei controtermini del sistema significante; antecedentemente, comunque, all’atto ermeneutico di chiunque volesse decifrarne il messaggio.

Ma a parte l’improbabilità teorica di siffatte premesse, una tecnica di critica testuale “scientifico-oggettiva” si situa più nella fase della restituzione del documento che in quella dell’interpretazione. In ogni caso, un’esegesi di fede su una Parola affidata più alla praedicatio che alla scriptura, preservata più in una comunità vivente nel tempo che nello scrigno dei monumenta, ha i propri luoghi dove depositare il messaggio, le proprie stagioni in cui maturare frutti in origine solo promessi («Ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non potete portarle»: Giov. 16,12-13), ha la propria dialettica tra sé e l’auditor verbi collocata nelle mille vicende della peregrinatio huius saeculi. Non c’è pertanto da stupirsi - tantomeno da allestire apologie del caso - se il medievale entra nel testo biblico con un pesante fardello d’intenzioni e con uno schema culturale dai netti contorni per scrutinare i “sensi” della Scrittura. Esiste, tra il medievale e la Scrittura, una consuetudine che sfiora l’appropríazione. Vi è, certo, in agguato un’audacia ermeneutica. Ma vi è altresì una passione di fede. Si scorrano temi qualsivogliano d’esegesi patristico-medievale. I medesimi testi scritturali sono ripresi, senza posa e senza fastidio, nel corso dei secoli. Quasi rigenerati dalla memoria celebrativa della fedeltà di famiglia. Insorge allora il gusto della variazione, che assopisce ogni sorpresa di discrepanza, e talora di palese contraddizione. L’assetto esegetico costruito sul rapporto “testo sacro - comunità viva della Chiesa” più che su quello “testo - atto esegetico depersonalizzato” rendeva meno irriverentí alla coscienza del contemporaneo le prevaricazioni osate dalle situazioni di vita sulla lettera della Scrittura, e meno conturbanti le variazioni interpretatíve che ovviamente ne risultavano. Le Distinctiones bibliche e loro collezioni erano entrate, per diritto di consuetudine scolastica, nel bagaglio dell’esegeta medievale; così come del predicatore.

Riprendiamo i saggi d’esegesi tomasiana sopra recensiti. È opportuno individuare almeno talune tra le molteplici situazioni esegetiche a cui il medievale in stato d’evangelismo affida le intenzioni base del testo biblico prima che le tecniche euristiche del tempo (divisiones, definitiones, rationes, quaestiones) ne prendano possesso.

Una selezione dei libri sacri e dei passi scritturali si delinea con nettezza nella letteratura tomistica legata alla questione dei Mendicanti. Il contesto più ampio della Chiesa impegnata nella riforma e dei movimenti evangelici in effervescenza suggerisce una orientazione teologica stabilita sulla forza direttiva dei testi neotestamentari (si scongiura l’equiparazione soteriologica delle leges vetus e nova, e dei codici cultuale, etico, giuridico che ne dipendono); sposta la pastorale della Chiesa sull’atto della praedicatio - quindi dell’evangelizzazione - di fronte al dilagare delle “eresie”, di fronte alla novità sociale delle classi urbane che contestano l’immobilismo della cristianità carolingia, di fronte alle novità culturali (dall’aristotelismo alle università) che fanno del Millecento e Milleduecento i secoli del  rinascimento medievale.

Fuit autem mea intentio in boc opere non solum sensum litteralem sed etiam mysticum ponere; interdum etiam errores destruere, nec non confirmare catholicam veritatem. Quod quidem necessarium fuisse videtur, quia in Evangelio praecipue forma fidei catholicae traditur et totius vitae regula cbristianae (Catena aurea super Matth., epistola dedicat.).

La proposta dei teologi secolari - che argomentavano da uno schema ecelesiologíco di rigido verticalismo - è contestata da T. (nelle misure consentite ad una contestazione ab intra) con la controproposta di un’immagine di Chiesa secundum regulam apostolorum. Un discursus argomentativo a composizione storico-genetico sovverte i luoghi teologici classici a sostegno sia dei modi d’esercizio dei ministeri sacri che della legittimità di nuove forme di vita cristiana all’interno delle compagini ecclesiastiche gia esistenti. Similmente gli officia dei membri della Chiesa sono dibattuti non secondo la logica della competenza o appropriazione per distribuzione gerarchica, ma secondo la sacramentalità dei munera e l’equiparazione essenziale dei credenti quanto alle esigenze della perfectio evangelica.

Così forme strumentali d’essere Chiesa in un momento della storia e quadri referenziali (dalla cultura popolare, al pensiero filosofico, alle strutture sociali ecc.) possono essere, secondo casi e gradi diversi, ora interpreti ora oggetti di giudizio evangelico; ora diversioni ora richiami delle fasi autorevoli della storia sacra; ora ipoteche concilianti esegesi di comodo ora trasalimenti che sfaldano il monolito del testo in strati plurími di “sensi” . E non soltanto le situazioni di fede della comunità dei credenti, ma personaggi (Paolo o i sancti della storia sacra) e fatti di cronaca del giorno possono riversarsi sul testo scritto per crearvi alterni rapporti compositivi, e quindi signíficantí. Può essere il comportamento degli apostoli - e di chi ne perpetua l’esempio - a sollecitare tale o talaltro senso del testo; come può essere l’ansia del contemporaneo di fissare misure e modi concreti dell’ídeale evangelico in riferimento ad un conflitto del giorno - la povertà evangelica, ad esempio. Parimenti la distribuzione delle crescite cristiane dell’uomo sull’arco del tempo (l’osservanza perfetta ed imperfetta dei precetti!) spezza una teorizzazione delle classi ecclesiastiche all’insegna d’un essenzialismo astratto ed immobilistico (si è o non si è). Il che introduce nel testo sacro l’indice del tempo per intendere i ritmi dell’incarnazione, le densità soteriologiche delle fasi progressive della dispensatio salutis, il giudizio della lex nova sulle situazioni concrete e sempre nuove della vita apostolorum in tempi e luoghi diversi, la denuncia di regressioni (la relaxatio), il diritto alla resumptio del modello della primitiva Ecclesia... Contra doctr. cc. 15-16 è tipico, fin nella peculiarità del lessico, di tale preoccupazione compositiva. Categorie quali «prima» e «dopo» l’ascensione del Signore, «in occasione» delle persecuzioni, predicazione rivolta agli «Ebrei» prima e ai «Gentili» dopo, la «relaxatio» a motivo dei deboli, la «dormitatio» alterna della perfezione evangelica nel corso della storia, i «congruentia adminicula» con cui la Provvidenza seconda persone, luoghi e tempi diversi (e si fa riferimento a fatti individui, quali la donatio Constantiní e il monachesimo d’Egitto: c. 15, rr. 259-354): siffatte categorie, dunque, sono altrettante postazioni esegetiche che inclinano il piano semantico del testo biblico a favore della normatività della lex nova e come criterio di lettura della parola di Dio e come scrutinio della vita dei fedeli. Non sarà superfluo leggere un passo tomasiano  uno fra tanti - da questo angolo visuale.

Quod etiam quinto [c. 14, ob. 5] propositum est, quod christiana perfectio non dormitavit a tempore apostolorum usque ad praesentia tempora, certum est eam non dormitasse sed in plurimis viguit, et in Aegypto et in aliis partibus mundi. Numquid aliquis Deo modum imponere potest, ut vel omnes, et omni tempore et omnibus locis, homines ad se trahat? Quín ímmo secundum suae sapientiae ordinem, quo suaviter universa disponit, singulis temporibus congruentia adminicula providet humanae saluti. ... Numquid... quicquid boni tempore aliquo intermissum fuít, illicitum erit resumi? (Contra doctr. c. 16, rr. 70-88).

In  Summa I-II, q. 106, a. 4, si dirà con rapidissimo giro di categorie essenziali che lo status novae legis è vario secondo le altrettali circostanze di luogo, tempo e persone così come queste variamente partecipano della gratia Spiritus Sancti.

C’è, come si vede, una molteplicità di concorrenze sull’atto esegetico che testimonia la totalità con cui l’uomo di fede interpella se stesso e la parola di Dio. Il testo sacro appare simultaneamente e multiformemente animato nelle sue potenzialità significative. Si rende ragione delle dissimili accentuazioni, della decomposizione in piani multipli, dei richiami allogeni per marcare divergenze, comporre discordanze, stabilire subordinazioni, dei rinvii ad altre situazioni di vita come ad altre possibilità interpretative.

È che l’atto esegetico è correlativo alla Scrittura sacra. Ora questa - così come giace, nella sua redazione multiforme, nella varietà di stile e lingua, nella distribuzione progressiva sull’arco di secoli - è un testo letterario oggettivamente arduo da leggere. Perché non riconoscerlo onestamente? E perché non prevenire l’uomo della strada, cosicché acceda al testo sacro con consapevolezza se non vuol rischiare una lettura fuorviante? Sottrarre un bene pubblíco a chicchessia col pretesto che non ne è “all’altezza” sa di sopruso. Non procurargli i mezzi per trarne profitto sa di beffa. Tommaso afferma la complessità compositiva e interpretativa della Scrittura con una schiettezza sconcertante:

Verítas fidei in sacra Scriptura diffuse continetur et variis modis, et in quibusdam obscure; ita quod ad eliciendum fidei veritatem ex sacra Scriptura requiritur longum studium et exercitium (II-II, 1, 9). Cf. Quodl. VII, 14, ad 2.

Dà il senso, l’esegesi di s.T., di “complessità”, per via delle molteplici riprese esegetiche a combinazione alterna. Farebbe sospettare fluttuazione, irrisolutezza, ripetitività. Così come l’imperizia moltiplica le frecce quando fallisce il bersaglio. Nel caso della povertà evangelica, ad esempio. Non sarebbe stato più giudizioso farsi un prontuario per sic et non? Oro, argento, bisaccia, bastone, tuniche, sandali di cui in Mt. 10,9-10. Perché non ci si dice una buona volta per sì e per no, senza chiose senza distinguo senza quisquilie, se all’apostolo à dato o no calzare sandali? Un sì e un no tondi come l’uovo, che valgano per chicchessia per sempre per ogniddove. E si porrebbe fine alla lite dei “calzari sì calzari no” -  che ha inquietato gli Apostolici del III secolo, i Valdesi, i Poveri Cattolici di Durando di Huesca, i Poveri Riconciliati di Bernardo Prím, i seguaci di Francesco d’Assisi e giù giù fino ai Carmelitani “scalzi”. Al punto che le umili calzature, fattesi ardite, hanno osato varcare le soglie di documenti pontifici e di trattati teologici (Innocenzo III, PL 215, 1513 B; san Bonaventura, De sandaliis Apostolorum, Quaracchi 8, 386-90). Il popolo ama discorsi semplici e chiari. L’uomo della strada ha la passione del taglio netto, del tutto o niente, dell’epica in bianco e nero. E il grosso dell’evangelismo medievale era costituito da strati sociali umili, dai rudes, rustici, idiotae et illitterati! (infra II, c. 2). Col medesimo ardore e col medesimo candore ci s’era lanciati sul testo biblico imponendo un letteralismo frutto, a suo modo, di generosità ma che alla lunga avrebbe fatto il gioco delle strutture sociali ed ecclesiastiche restie alla riforma. Se gli apostoli era idiotae et illitterati (Atti 4,13) è che la grazia della vocazione cristiana scavalca steccati di casta e di privilegi. Ma continuare a menar vanto d’essere idiotae et illitterati in una società che registra crescite umane e culturali a tutti i livelli rischia l’emarginazione. Ma rischia altresì il congelamento o la regressione dell’intelligenza della fede. Questa riafferma nei contenuti attuali dell’universo umano la legge dell’incarnazione, e la possibilità quindi di decifrare gli ulteriori messaggi dispensati dalla parola di Dio nel tempo della Chiesa.

Ci si può, certo, rammaricare della degenerazione che la disputa sulla povertà decretò all’evangelismo del secondo Duecento. Ma il peccato d’origine fu d’aver privato l’intelligentia fidei delle maturazioni del tempo - forme nuove del sapere e vivere umano -; e conseguentemente degli strumenti atti alla lettura critica della società-chiesa del tempo e alla riproposta non velleitaria del verbo apostolico. La noncuranza, il fastidio, talvolta il disdegno da parte di leader della riforma di consolidare le loro acquisizioni in sapere teologico costruito sui ritmi culturali del sec. XII e XIII sono non poco responsabili degli insuccessi, dei ripiegamenti, delle deviazioni di taluni tentativi di riforma. La critica al sopruso della potestas ligandi et solvendi ripiega in settarismo di cronaca politica; la denuncia dell’appropriazione pretersacramentale dei ministeri sacri è ritirata quando si scavalca il sacramentum della Chiesa storica per riparare nella ecclesia spiritualis; l’impeto dell’ideale apostolico all’interno d’una respublica christiana si scarica ora nell’ingenuo quando affidato alla parenèsi del  “siate buoni”, ora nel ridicolo quando litigioso di pesi e misure della povertà.

Ci si sente allora riconciliati non solo con l’insistenza con cui Tommaso rivendica ai Mendicanti il diritto allo studio, ma con l’ardimento con cui afferma il munus theologicum all’interno della Chiesa di Dio tra l’attività pastorale del presbitero e l’officium gubernii del vescovo. Non ci si batte per privilegi di parte ma per la convinzione che la riflessione sistematica di fede, come munus professionale (è equiparato alle artes liberales!), è consustanziale alla vita della Chiesa per spronarne la crescita di fede, ed esserne eventualmente coscienza critica. Nell’edificio spirituale della Chiesa - si dice in Quodl. I, q. 7, a. 14 - i presbiteri curati sono come operai addetti al servizio sacramentale; i vescovi, quali architetti principali, soprintendono alla costruzione con autorità direttiva; i theologiae doctores, anch’essi quasi principales artifices, sono dediti alla ricerca e allo studio (inquirunt) per poi comunicare agli altri (docent) i modi e le occasioni specifiche (qualíter) della salvezza nella multiforme geografia umana.

In aedificio autem spirituali sunt quasi manuales operarii, qui particulariter insistunt curae animarum, puta sacramenta ministrando, vel aliquod huiusmodi particulariter agendo; sed quasi principales artifices sunt episcopi, qui imperant et disponunt (…); et similiter theologiae doctores, qui inquirunt et docent qualiter alii debeant salutem animarum procurare. Simplicíter ergo melius est docere sacram doctrinam et magis meritorium, si bona intentione, quam impendere particularem curam saluti huius et illius (Quodl. I, q. 7, a. 14 c.). Quodl I è della pasqua ’69.

Una sapienza direttiva accanto ad un’autorità direttiva. Un compito ecclesiale dell’intellectus fidei. C’è un insegnamento catechetico-pastorale fatto ex officio praelationis; ma c’è altresì una ricerca ed un insegnamento della fede a confronto con il sapere umano fatti ex officio magisterii. Chi fa professione dell’evangelismo apostolico-mendicante non può dispensarsi dalla notitia Scripturarum, anzi dalla scientia duorum Testamentorum (Contra imp. c. 11, 188).

(Ad quartum dicendum quod) docere sacram Scrípturam dupliciter contingit. Uno modo ex officio praelationis, sicut qui praedicat, docet; non enim licet alicui praedicare nisi officium praelationis habeat, vel ex auctoritate alicuius praelatíonis babentis... [Rom 10,15]. Alio modo ex officio magisterii, sicut magistri theologiae docent (In IV Sent. d. 19, q. 2, a. 2, q.la 3, sol. 2, ad 4). Sed religiosus... potest assumi ad praelationis officium... ; cum ergo praelationis officium sit maius quam officium doctoris quod magistri legentes in scholis exercent..., non debet inconveniens reputari si monachus auctoritate eius ad quem spectat ad praedictum doctrinae officium assumatur (Contra imp. c. 2, 246-56; cf. ib. rr. 446-50). (Dionysius) vocat enim actiones sacras ecclesiastica sacramenta... [De eccl. hier. c. 4; c. 5 par. 3; PG 3, 504 B], et haec dispensare non nisi praedictis ordinibus (episc., presb., diac.) licet; sed docere in scolis non est de istis sacris actionibus de quibus Dionysius loquitur, alias nullus posset docere ín scolis nisi esset diaconus vel sacerdos. Item monachi... possunt docendi officium uti, ad quod sacer ordo non requiritur (ib. rr. 569-81).

« Pauperibus Christi maxime competit notitiam Scripturartun habere, ut patet per Jeroninum in Prologo Hebr. quaest. super Gen. [PL 23, 936 A]. Eis autem com petit docere qui notitiam habent Scripturarum; ergo religiosis qui paupertatem profitentur maxime competit docere (Contra imp. c. 2, 212-21).

Né la comunità della Chiesa ha motivo di diffidare dell’eccedenza dei doctores. L’intelligenza della Parola è la misura della sua crescita.

Quanto autem doctores magis multiplicantur tanto utilitas communis quae ex doctrina provenit magís crescit (Contra imp. c. 2, 273-75).

Officia diversa sunt in Ecclesia sicut diversa membra in corpore... [I Cor. 12, 12 ss]. Sicut autem oculus est in corpore ita doctores sunt in Ecclesia (ib. c. 3, 201-204).

Ci si sente riconciliati anche con proposte teologiche che traggono sapienza cristiana e realismo storico da un’esegesi che accetta la sfida della complessità di quanto concorre all’esistenza umana. E appunto tra le vicende dell’esistenza umana la Chiesa conduce la sua peregrinatio. La complessità degli eventi e delle parole. In quelli e in queste si manifesta - in ultima istanza - l’Evento e la Parola.

Restiamo al caso della poverta evangelica. L’esegesi tomasiana scavalca a piè pari la tematica tipo “calzari sì calzari no”. E vi è - implicito - un giudizio d’irrilevanza. L’accerchiamento esegetico ai testi scritturali della povertà apostolica si chiude - ahimè! - non per sì e per no, sempre e dappertutto; ma in una formulazione progressiva, articolata, addirittura laboriosa, di sapienza teologica. La povertà vi è riasserita con fermezza, ed è ricomposta in rapporti distribuiti rispetto sia alle misure della temporalità della fede sia all’essenza della perfezione cristiana. E verrebbe da aggiungere: rispetto altresì alle occasioni che il vir evangelicus del tempo poteva realisticamente presumere di strappare ad una cristianità pesantemente infeudata senza lacerarne la comunione ecclesiale.

Ecco in sommi capi le articolazioni della teologia biblica della povertà come s.T. l’enuclea, amorosamente e faticosamente, in innumerevoli riprese esegetíche.

1.      Fa parte della perfezione cristiana la pratica della povertà evangelica.

Manifestum est igitur ad cumulum perfectionis pertinere quod aliqui possessiones non habeant, nec proprias nec communes (Contra doctr. c. 15, 352-54). Illum autem qui amat et in eis (divitiis) confidit, impossibile est intrare in regnum caelorum (In Matth. 19, 23-24; EP 10, 180 B).

2. Della perfezione evangelica la parte non solo la povertà abituale ma anche quella attuale (Contra imp. c. 6, 270 ss).

3. Gesù ha stabilito gli apostoli «in perfecta paupertate» (Contra doctr. c. 15, 181-86; c. 16, 61-67); l’imitazione degli apostoli ci assicura la sequela del Cristo (ib. rr. 41-60).

4. Le esigenze della povertà evangelica possono spingersi fino alla rinuncia d’ogni possedimento sia in proprio che in comune; è lecito pertanto, a cristiani che così volessero, far «professione» comune di povertà evangelica al servizio della predicazione della parola di Dio (Contra imp., passim).

Ex quo etiam apparet ad rígorem evangelícae disciplinae pertinere, quod aliquis careat omni possessione terrena (Contra doctr. c. 15, 222-24; cf. Contra imp. c. 6; II-II, 186, 3).

5. Siffatta povertà sussiste, come valore cristiano, anche qualora il lavoro manuale come mezzo di sostentamento fosse sostituito da altra professione (Quodl. VII, a. 17; 3, a. 9; Contra imp. 7, 727-34).

6. I prelati non derogano alla perfezione dello status pontificalis se posseggono e amministrano beni temporali in servizio della comunità dei fedeli (De perfect. c. 20, 45-60; c. 21, 50-195; cf. II-II, 185, 6-7).

7. La perfezione cristiana non si definisce in forza della povertà ut sic; la povertà è uno strumento, o meglio un exercitium perveniendi ad perfectionem (In Matth. 19,21: EP 10, 179 A; II-II, 188, 7); conseguentemente modi e gradi della povertà sono fissati alla luce del fine propostosi da ciascuna forma di vita cristiana (II-II, 108, 7). La perfezione cristiana consiste e si consuma nella carità (De perfect. c. 2).

Relinquere omnia non facit perfectionem, sed relinquere omnía et sequi Christum» (In Matth. 19, 21). Consistit autem principaliter spiritualis vita in caritate, quam qui non habet nihil esse spiritualiter reputatur (De perfect. c. 2, 27-29).

8. Tutto abbandonare non è di suo una condítio sine qua non della perfezoine cristiana.

In sequela Christi consistit perfectio, dimissio vero divitiarum est perfectionis via (De perfect. c. 8, 93-94). Dilectio Dei est perfectio, sed dimissio rerum est via ad perfectionem (In Matth. 19, 21; EP 10,179 A. Cf. II-II, 186 3, ad 1).

9. La misura della povertà cristiana non è avere e non avere, dare e non dare (Contra imp. c. 6, 750-54). Quanto alle forme concrete della povertà, esse sono di volta in volta, da luogo a luogo, da società a società, fissate - e mutate - secondo la regola d’oro «Habere de rebus exterioribus, sive mobilibus sive immobilibus, quantum sufficit ad simplicem victum, perfectionem religonis non impedit» (II-II, 188, 7). Anche il frutto della mendicità deve limitarsi ad «ea quae pertinent ad cotídianum et simplicem victum» (Contra doctr. c. 16,136-37; cfr. II-II, 187, 4-5).

10. Le intenzioni etiche (rationes) che costituiscono la povertà in valore cristiano sono quelle che la orientano al servizio, alla credibilità, all’efficacia della predicazione del Vangelo (Contra doctr. c. 15, 137-89; In Matth. 10, 10: EP 10, 98 B).

Haec est igitur summa paupertatis perfectío, ut ad exemplum Christi aliqui homines possessionibus careant, etsí aliqua reservent ad pauperum usum (Contra doctr. c. 15, 73-76).

Una volta tradotto l’entusiasmo evangelico in semplicísmo esegetico, era giocoforza che istanze di rinnovamento ecclesiastico finissero per mortificare la stessa ispirazione evangelica: «nemo salvatur nisi díscalceatus pergens»!

Certo, si continuava ad appellare al modello degli apostoli. Ad instar vitae apostolorum! Ma l’uso del testo sacro aveva trasformato l’ispirazione in plagio, l’emulazione in caricatura.

Un’osservazione conclusiva, intesa a sottolineare la frammentarietà, persino la singolarítà delle occasioni di vita su cui s’esercita il giudizio della coscienza cristiana alla luce della lex evangelii (altri esempi in s.T. saranno dati infra, c. 5). Le scelte hic et nunc possono rivelarsi effimere e solitarie, come le occasioni di vita che le generano. Eppure solo l’occasione è il luogo della storia. Sollevarsi fosse pure d’un palmo per legare due occasioni in un sol nodo, sarebbe tracciare un segmento di già troppo lungo perché una teologia della storia possa utilmente aspirare a porsi coscienza direttiva dell’agire cristiano e dei fatti di Chiesa. L’esiguità della misura del tempo e l’umiltà d’una storíografia sacra, così come l’economia del linguaggio è la legge dell’astrazione. Si rileggano poche pagine tra le più belle del trattato De lege della Summa. Si tratta di I-II, 108, aa. 1-2, circa il rapporto tra lex nova ed exteriores actus. La legge nuova - vi si dice - è precettiva solo di quegli atti esteriori che o inducono la grazia (sacramenti) o hanno una relazione di necessità con la grazia interiore. Laddove manchi siffatta necessità, la determinazione degli atti esteríori è rimessa alla discrezione dell’individuo, o del presidente della comunità. La lucida bellezza compositiva dei due articoli termina in acquísizioni delle più preziose nella teologia della legge nuova (I-II, 108, a. 1, in fine; a. 2, ad 3). Ma il conflitto di Chiesa chiedeva una presa di posizione circa i praedia e la povertà (e le forme di povertà!) della Chiesa, le condizioni evangeliche del diritto di predicare, la precettistica dei calzari e bastone, così come la bolla Quorundam di Giovanni XXII verterà su problemi di vestiario dei frati Minori, di fornitura della dispensa conventuale («qualiter, ubi et quando et quociens granum, panem et vinum...»), di «granarii et cellarii» (Extrav. Ioa. XXII, tit. 14, c. 1; Fried. II, 1220-24). Il giudizio teologico alla luce della lex nova illumina casi e suggerisce decisioni del cristiano impegnato negli umili e molteplici frammenti di vita. Ed è qui l’occasione d’una storiografia teologica, se questa ha da guardarsi dalla tentazione di contrabbandare princìpi dalle metafisiche amplitudini. Non s’insinua alcuna discontinuità, tantomeno frattura dottrinale, tra le due attività letterarie dell’Aquinate. Si afferma la specificità dei singoli interventi letterari (dialogo con gli evangelici da una parte, sintesi dottrinale dall’altra) che non poteva non esprimere in dissimili rapporti compositivi dissimili coinvolgimenti emotivi.

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