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I.3  La Chiesa del medioevo tra “caelestis híerarchia” e “regula apostolorum”

Nel cuore della polemica con Guglielmo di Sant'Amore e più tardi con Gerardo d'Abbeville, Matteo X ritorna con insistenza. Vi si convogliano, con irruenza e puntigliosità, tutte le istanze, tutti i fervori, tutte le intemperanze dell'evangelismo medievale.

Si contesta agli Ordini mendicanti il diritto d'esistere, come comunità evangeliche, nella Chiesa di Dio. Dove potrebbero trovare collocazione al di fuori delle compagini ecclesiastiche (ordo laicorum, ordo monachorum, ordo clericorum) che rispecchiano la perfezione e l'esemplarità della gerarchia celeste? E che diritto possono avanzare per il ministero della predicazione quando questo è istituzionalmente legato all'ordo clericorum? D'altra parte né per commissione del vescovo né per privilegio del papa i Religiosi potrebbero mai esercitare il ministero della parola, pena lo sconvolgimento dell'ecclesiastica hierarchia. Il superiore infatti - ad immagine della gerarchia celeste - non agisce sull'inferiore se non tramite l'intermedio. Il cerchio è chiuso. S. Tommaso riecheggia tutta la drammaticità di siffatta angusta ecclesiologia nella dettagliata esposizione e nella risposta agli argomenti del Sant'Amore. E' il cap. 4 del Contra imp. Vi si combatte la battaglia decisiva tra Mendicanti e Secolari.

Ma tale sommaria ricostruzione rischia il semplicismo, quantunque fissi bene gli estremi dell'universo mentale entro cui i controversisti secolari orchestrano il loro attacco. Certamente privilegi economici ed egemonia accademica ebbero a temere non poco l'«intrusione» dei Mendicanti. Già nel 1254 delle dodici cattedre della facoltà di teologia di Parigi solo sei erano in mano ai maestri secolari. Le altre erano distribuite tra i canonici di Notre­Dame (tre) ed i Mendicanti (due ai fr. Predicatori, una ai Minori) (P. GLORIEUX, L'enseignement au moyen age..., AHDLMA 35 (1968) p. 91). Come pure non è da sottovalutare il fatto che il favore popolare incontrato dai Mendicanti si traduceva spesso in pregiudizio - o perlomeno in concorrenza economica - degl'interessi pecuniari del clero parrocchiale. E' il risvolto meno nobile della nobile battaglia intrapresa dai Secolari. Il maestro generale dei Predicatori dovette intervenire in proposito nel maggio 1255, perché il ministero dei frati non risultasse a danno materiale del clero 58.

Dalla lettera del maestro gener. Umberto ai frati Predicatori:
«Super hoc ordinamus ut [...] fratres [...]: consulant, tam publice quam private, quod parrochiani debent diebus praedictis ad suas parrochias convenire, et ibidem audire officia, et mandata ecclesie devote suscipere, et oblationes debitas reddere» (
CUP I, n. 250, p. 287).
«Alia (querimonia) est, quod fratres praedicant in parrochiis ante receptionem oblationum, et hac occasione defraudantur sacerdotes oblationibus consuetis» (ib. p. 288).
«Alia est, quod fratres ordinant fere de omnibus testamentis, et defraudantur clerici de bonis que solebant eis de testamentis obvenire» (ib.). Anche in
MOPH V, 21-24. Ma pressoché gli stessi motivi susciteranno rivalità tra gli Ord. mendicanti, a giudicare dalla lettera comune dei superiori generali dei Minori e dei Predicatori indirizzata ai propri frati (1255). Cfr. MOPH V, 28-29.

Ma ciò che dà compattezza e impenetrabilità alla torre dottrinale innalzata dai maestri secolari poggia su due pilastri portanti che - presumevano costoro - sarebbero rimasti fuori tiro. Il primo consiste nella nozione dei ministeri e della Chiesa a sostrato feudale; il secondo nella concezione esemplaristica di marca dionisiana della composizione gerarchica della Chiesa e dell'uso della potestas.

Lo schema feudale della società suggeriva un'immagine di Chiesa come somma di chiese locali le quali traevano la propria fisionomia dalla territorialità (nozione propria del diritto feudale). La nozione di potestas - e dei suoi correlati quali ordo, status, gradus di cui i polemisti secolari fanno abbondante uso ­ traeva origine da un assetto della società che non poteva non rifluire in una jurisdictio a forti connotazioni topo-geografiche 6°.

Contra imp., c. 4, paragr. 1, ob. 5; EL rr. 47-52: «Per pastores autem, ut Glosa dicit ibidem [Ez. 34,2], significantur episcopi, presbyteri, diaconi quibus grex committitur: ergo religiosi qui nec sunt episcopi nec presbyteri nec diaconi habentes gregem commissum praedicare non possunt». Non si concepiscono presbiteri che non siano parochiales o curati. Alcuni argomenti, a prima vista ingenui, acquistano una loro credibilità (per es. Contra imp. c. 4, paragr. 4, ob. 1-2; EL rr. 256-73). Così, benché prete, il monaco «non tamen habet exercitium officii nisi cum super aliquam plebem fuerit canonice institutus, ut dicitur XVI, q. 1, paragr. ' Ecce' [Friedberg I, 7651: ergo et si aliquibus ex privilegio papae officium praedicandi committatur hoc exequi non poterunt quamdiu plebes non fuerint eis commissae» (Contra imp. c. 4, paragr. 4, ob. 5; EL rr. 304-310).

Di qui l'idiosincrasia dei Secolari per i predicatori «itineranti» 61 ed il netto rifiuto a riconoscere una qualsivoglia legittimità al ministero di chi non abbia la «cura».

Gyrovagos sono chiamati dai polemisti secolari (Guglielmo di Sant' Amore, De periculis 12, p. 42; Collectiones 2,4, pp. 292-301, 452). S.T. dedica tutto un cap. del Contra imp. (c. 10) al problema: De hoc quod religiosi de loco ad locum discurrunt. Si ricordi che predicatori itineranti, quali Roberto d'Arbrissel e Norberto di Xanten, dovettero rinun­iare alla libera attività di predicatori per una simile opposizione del clero secolare (T. MANTEUFFEL, Naissance d'une hérésie... pp. 32-36). «Videmus egentes presbyteros a suis desertos gregibus velut indignos, quibus se offerant, quorum se commendent orationibus, a quibus iniunctionem paenitentiae accipiant, quibus solvant decimas vel primitias, qui omnes tuo se quaeruntur judicio condemnatos. Videmus turbas ad te (Roberto d'A.) undique confluentes, tibi tuisque honores, quos propriis debent pastoribus, impendentes. Quos tamen ut manifestum est, non religionis amor, sed ea quae semper vulgo familiaris est curiositas, et novorum cupiditas ducit» (MARBODI REDON. episc., Epistola VI; PL 171, 1484 B-C). La fine dei «corepiscopi» fu decretata per la medesima ragione (Contra imp. c. 4, paragr. 1, ob. 7; EL A 69). Sul versante del monachesimo, si ricordi che la «stabilità» è «une des nouveautés les plus frappantes» della regola di s. Benedetto (L. BOUYER, La spiritualité du N. Test. et des Pères, Aubier 1960, 611).

La «cura plebis» definisce la potestas sui limiti dell'estensione sociale dell'unità geografica (parrocchia) e la lega indissolubilmente al riferimento territoriale, tipico dell'insediamento della società agricola medievale del periodo pre­commerciale. Persino una teologia della perfezione cristiana ne trae il proprio calco. Lo stato di perfezione - a detta di Gerardo d'Abbeville - comporta «stabilitatem, permanentiam et fixionem».

E' la controproposta di Gerardo d'Abbeville alla teologia evangelica della perfezione cristiana. E' illustrata nel Quodl. XIV, a. 1, edito da PH. GRAND in AHDLMA 31 (1964) 227-243 e da H.F. DONDAINE in EL t. 41, B 56-62. Eccone qualche stralcio:
«Secundo status (vitae spiritualis) importat stabilitatem, permanentiam et fìxionem. Dicitur enim a stando secundum Huguicionem, sicut stabilitas, id est fìrmitas et immobilitas [...] Talis (lapis quadrus) est sacerdos curatus [...], scilicet cui cura commissa est animarum [...]. Ecce, velit nolit, lapis quadrus est qui in quocumque latere versus fuerit statum habet inflexibilem mentis; unde iste potest dicere illud Abac II 'Supra custodiam meam stabo et figam gradum super munitionem meam', id est super parrochiam meam: hoc est, custodiam gregem meum munitum et ibi fìgam mee sollicitudinis gressum, non girovagabo per mundum [...]. Ergo, quantum ad stabilitatem, permanentiam et fixionem, iste (sacerdos curatus) non solum est in statu, sed etiam in excellentissimo statu» (EL t. 41, B 57-58, rr. 102-140).

Uguccione, Derivationes II, 1165 ss

Chi non ha in sorte la «cura plebis» non è dell'ordine dei chierici o prelati. Apparterrà a quello dei laici o dei monaci. Ma né l'uno né l'altro hanno ricevuto l'officium sacerdotale. Sono legami argomentativi che si costruiscono nel retroterra mentale del medievale e che danno verosimiglianza alle tesi dei Secolari.

La concezione esemplaristica della gerarchia ecclesiastica e dell'uso della potestas chiude il cerchio. La gerarchia terrestre ­ecclesiastica e temporale - replica sulla terra quella celeste, con la sua normatività ed imperturbabilità. L'esemplarismo neoplatonico di Dionigi viene rigidamente a controllare la distribuzione della potestas. Nessuna prevaricazione dei gradi gerarchici è possibile, perché «inferiora reducuntur ad Deum a superiori per media». La missio apostolica non può trasmettersi ignorando o scavalcando l'ordo clericorum. Chi oserebbe turbare un ordinamento siffatto che trae origine da Dio? Ora è proprio quest'ecclesiasticus ordo che i Mendicanti hanno l'ardire di sconvolgere!

DIONYSII AREOP., De coelesti hiererchia, c. IV, par. 3; PG 3, 181. Il medesimo testo è non per nulla invocato da Bonifacio VIII per corroborare la visione piramidale e teocratica del potere papale come formulato nell'Unam sanctam (1302). Cfr. testo in Extrav. comm. 1. I, tit. 8, c. 1; Fried. II, 1245-46. GUGLIELMO DI S. A.: «Cum igitur Ecclesia Christi, Spiritu Sancto docente, ad instar Caelestis hierarchiae sit constructa et ordinata, ut dicit Dionysius in libro Eccles. Hier. c. 5, constat quod eius ordinem et constructionem turbare atque confundere, nihil aliud esset quam ipsam destruere... » (Collectiones, Constantiae 1632, p. 189).
S. Bernardo metteva in moto un discursus argomentativo ricalcato sul medesimo esemplarismo dionisiano quando esortava il papa Eugenio III ad intervenire contro coloro che turbavano «dignitatum gradus et ordines» della gerarchia ecclesiastica fatta ad immagine della gerarchia angelica: De consideratione lib. IIl, c. 4 («Gradus ordinum ac dignitatum, quae in Ecclesia sunt non temere confundendos ac perturbandos»): «Subtrahuntur abbates episcopis, episcopi archiepiscopis, archiepiscopi patriarchis sive primatibus. Bonane species haec? [...]. Honorum ac dignitatum gradus et ordines quibusque suos servare positi estis, non invidere, ut quidam.., » (PL 182, 766-67). «Tunc denique licitum censeas, suis ecclesias mutilare membris, con£undere ordinem, perturbare terminos, quos posuerunt patres tui?» (768 B). «Nec vilem reputes £ormam hanc, quia in terris est: exemplar habet e coelo» (768 D). «...sicut illic Seraphim et Cherubim ac caeteri... ordinantur sub unico capite Deo; ita hic quoque sub uno summo Pontifice primates et patriarchae, archiepiscopi, episcopi, presbyteri, vel abbates et reliqui in hunc modum. Non est parvi pendendum quod et Deum habet auctorem, et de coelo ducit originem» (769 A).
Ma l'esemplarismo mistico-spirituale del De coel. e De eccl. Hier. di Dionigi aveva ceduto - attraverso le vicende letterarie del Corpus dionysianum in Occidente e della sua autorità - ad un uso socio-giurisdizionale dello schema degli ecclesiastici ordines. Cfr. Y. CONGAR, L' ordre ecclésial et la primauté papale vus à la lumière des schèmes dionysiens, in L'Eglise de St. Augustin à l'époque moderne, Cerf 1970, 224-30.

L'ordo ecclesiasticus è, per ordinazione divino-apostolica, composto di vescovi e presbiteri parrocchiali, quelli successori dei 12 apostoli, questi dei 72 discepoli (De periculis 2, p. 24; Collectiones 1, pp. 144-45; l'argomentazione è riportata in Contra imp. 4, paragr. 1, ob. 6,- A 69). S. Tomm. riprende la conclusione dei Secolari: «Et ita ordo religiosorum qui praedicant et non sunt episcopi, qui sunt successores apostolorum, vel presbyteri parochiales, qui sunt successores septuaginta duorum discipulorum, debet extirpari» (Contra imp. 4, paragr. 1, ob. 7; A 69). Espulsi dall'ordo clericorum, i Mendicanti sono ricacciati nei ranghi del monachesimo: «ergo monachi et alii religiosi qui iure monachorum censentur non debent praedicare vel docere» (ib. ob. 8). E «monachus non doctoris sed plangentis habet officium» (Decr. C. 16, q. 1, c. 1; Fried. I, 762. Cfr. De perfect. c. 30, EL B 111, rr. 49-51).

L'altra fonte argomentativa è quella canonica. I Secolari traggono argomento dal Decretum (1140 c.) di Graziano e preferibilmente dalle collezioni canoniche pre-gregoriane. Ora in questa fase evolutiva della legislazione canonica - prima cioè che i decretalisti col ricorso alle pseudo-isidoriane e alle collezioni post-gregoriane sancissero il processo di rafforzamento della plenitudo potestatis del papa - il diritto assicurava una discreta autonomia in fatto di governo delle chiese locali e diritti dei metropoliti. O comunque il diritto pubblico della Chiesa in chiave di potere papale non aveva raggiunto l'uniformità amministrativa delle chiese regionali e locali. Le argomentazioni indotte dai Secolari contro la legittimità del vescovo e persino del papa di demandare l'esercizio ministeriale ai Religiosi scavalcando i presbyteri parochiales (cfr. Contra imp. 4, paragr. 3-4; A 71-72), non hanno niente a che vedere con una proposta ecclesiologica anti-istituzionale. Che anzi la posizione dei Secolari terminava ad irrigidire ancor più l'immobilismo della macchina gerarchica della Chiesa medievale. Le loro argomentazioni attingevano plausibilità dal sostrato del diritto feudale su cui le chiese regionali si eran venute costruendo, e - sull'altro versante - dalla legislazione canonica anteriore al processo di concentrazione del potere papale. Il principio di sussidiarietà vi è affermato con tutto il rigore del­l'esemplarismo dionisiano:

«Item, ecclesiastica hierarchia instituta est ad esemplar caelestis... Sed in caelesti hierarchia angelus inferioris ordinis numquam exercet officium superioris or­dinis...» (ib. paragr. 1, ob. 9).

Quando la «cura plebis» sia stata affidata al parroco, il vescovo non può esautorare o surrogare il presbyter curatus con il ministero di chi non è legato ad un gruppo di fedeli geograficamente definito 68.

«Si ergo episcopi committunt curas plebium parochialibus sacerdotibus, ad eos iam ulterius non pertinet cura ipsarum, et ita ex autoritate eorum non possent aliqui praedicare plebibus aut confessiones audire nisi vocati a sacerdote parochiali» (Contra imp. 4, paragr. 3, ob. 1; A 71; cfr. anche paragr. 1, ob. 11-12; A 70).

Proprio come l'arcivescovo non può esercitare la sua autorità su coloro che sottostanno al vescovo (ib. paragr. 3, ob. 3; A 71).

La costruzione argomentativa dei Secolari poggiava nel suo insieme su auctoritates di non poco peso e attingeva - al di là delle rivalità di cassetta - profondità costitutive della fede cristiana. Mostrava, vista dall'interno, una solidità da monolito. Lo schema della società feudale e l'esemplarismo dionisiano ben interpretavano l'immagine della comunità dei credenti all'insegna dell'immobilismo - l'altra faccia della «perfezione» congelata nello schema archetipale.

Stando così le cose, niente di nuovo potrebbe occerrere nella vita profonda della Chiesa - avverte s. Tommaso:  «Alias nihil de novo posset institui quod non fuerit antiquitus observatum» (ib. c. 6, paragr. 6, ad 22; A 105). Ma è proprio quello a cui miravano i Secolari. «Nec debent novi apostoli constitui» ­ esclama Guglielmo di Sant'Amore (De periculis, c. 2; ed. BIERBAUM, p. 12).

Come uscire da questo impasse di fede?

La risposta di Tommaso è introdotta con un capovolgimento dell'incipit argomentativo. Conglutinato con la novità lessicale c'è un che di ovvio, quasi d'inerme:

Omnis religio ad exemplum vitae apostolicae formata est... (Contra imp. c. 4, r. 880).

Eppure, a confronto con l'assetto dialettico. della parte avversa, c'è una nuova coscienza di fede nell'atto in cui questa recupera dimensioni e profondità di se stessa. L'accerchiamento è infranto. L'appello all'esempio apostolico (ad exemplum vitae apostolicae di contro all'ad instar caelestis hierarchiae) scompiglia il quadro argomentativo degli avversari. La norma è tratta dal modello della Chiesa primitiva. Questa a sua volta foggia i propri modi d'essere e di crescere sulla vita degli apostoli. E - all'estremità di tale cammino a ritroso ­ il Vangelo. Da esso si trarranno «cose nuove e vecchie», secondo il ritmo che il tempo del mondo impone alla fede del cristiano. La Chiesa è aperta alla storia perché è seme, lievito, parola. Il ministero degli apostoli è un ministero di crescita. Ed ogni forma di vita ecclesiale, come ogni ministero, non può che confrontarsi - per scoprirvi le proprie origini come le proprie leggi - con il modello della vita apostolorum. E' questo, tra l'altro, il senso di apostolicità della Chiesa nella dottrina ecclesiologica di s. Tommaso (Y. CONGAR, L'apostolicité de l'Eglise selon S. Thomas d'A., RSPT 44 (1960) 209-224. N. HALLIGAN, The Teaching of St. Thomas in regard to the Apostles, «Amer. Eccles. Rev.» 144 (1961) 32-47. O.H. PESCH, Paul as Professor of Theology. The Image of the Apostle in St. Thomas's Theology, «The Thomist» 38 (1974) 584-605). Persino le nuove auctoritates (Vang. di Matteo, Atti degli Apostoli) che - verrebbe da dire - scivolano inavvertitamente nel testo della replica tomistica, propongono nuove predilezioni di fonti teologiche. Un nuovo orizzonte di vita di Chiesa. La novitas Evangelii sollecita ad un tempo l'in­telligenza di fede e la prassi cristiana.

Ma - sia detto subito - siamo ben lungi dal semplicismo candido e astorico di taluni ricorsi al Vangelo. Come presso i Catari, ad esempio, o i Passagini o alcune forme del Valdismo; come presso gli Apostolici, i Beghini, o le punte estreme del Francescanesimo, quali Spirituali, Fraticelli, Fratelli del Libero Spirito. S. Tommaso tornerà a dibattere con puntiglio tutte le questioni sollevate dai Secolari, a scrutinare la forza probante d'ogni singola auctoritas, ad isolare il nucleo normans della realtà cristiana, a fissare la subalternanza distributiva delle componenti e dei valori della storia sacra. Così per le antinomie «potere papale - chiese locali », «missio gerarchica - missio canonica», «ordo - gradus» «predicazione - povertà», «lavoro manuale - insegnamento», «studio - monachesimo» ecc. Ma occorreva prima determinare l'orizzonte entro cui i singoli elementi potessero trovare giusta collocazione, e fissare altresì la coordinata di base su cui la storia decantasse le occasioni evangeliche - e cioè normative - della crescita della Chiesa.

Il testo d'apertura della risposta di Tommaso merita d'esser riportato per intero. Col suo stupore di riproposta evangelica, con la sua urgenza appena dissimulata dalla forma piana della littera, ha il fascino d'un tema preludiale:

His visis ostendendum est aliquam religionem ad hoc specialiter salubriter posse institui ad cooperandum praelatis ecclesiarum...

Primo per hoc quod omnis religio ad exemplum vitae apostolicae formata est; unde dicitur Act. IV, 32 super illud "Et erant illis omnia communia" Glosa «Communia graece coena, unde coenobitae idest communiter viventes, coenobia idest habitacula eorum». Haec autem fuit vita apostolica ut relictis omnibus per mundum discurrerent evangelizando et praedicando, ut patet Matth. X ubi regula quaedam eis inscribitur: ergo ad praedicta potest aliqua religio convenientissime institui (Contra imp. 4, paragr. 11; A 78, rr. 875-889).

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