CRITICO ED ICONOTEOLOGIA |
III.1 Critica iconoteologica ed opere visive con ‘intento d'arte teologico’
Ho ritenuto necessario riaffermare, ed in modo argomentativo - secondo i risultati raggiunti nel saggio sull'affresco “La Vergine dalla radice di lesse” -, che l'iconologia, sia che venga considerata da parte dell'atto di intuizione del critico, sia che venga analizzata concretamente nella plenitudine formale-tematica-contenutistica delle opere visive, è di pertinenza della critica e/o storia dell'arte.
Siffatta determinazione, però, non è stata la conclusione ultima dello studio induttivo sul rapporto ‘critico-opera d'arte’. La iconologia, di fatti, mi si è rivelata non adeguata alla comprensione dell'‘intento d'arte / Kunstwollen’, che man mano intuivo nell'affresco pistoiese di Andrea di Bonaiuo.
In realtà, la ricostruzione formale-storica del dipinto denota e connota che le ‘immagini-in-signifìcazione’ - che potremmo chiamare ‘iconologhema’, secondo un'espressione verbale consona ed unitaria, da Bildsprache' -, sono per gli schemi formali-stile (preiconografia), gli schemi semantici-tipologia (iconografia) e per gli schemi simbolici-referenza-culturale (iconologia) in relazione ad un 'ambito di riferimento' o 'situazione organica' [1], che trascende il 'Kunstwollen-lógos' e si di-mostra ‘Kunstwollen-théo-lógos'.
Pertanto 'il genere d'interpretazione' [2], cioè la categoria iconologica, si palesava non del tutto proporzionata alla descrizione-analisi-decifrazione della ‘realtà-toium' dell'affresco di A. di Bonaiuto.
E di fatti, il punto di vista (o Kunstwollen), che qualifica l'intuizione di A. di Bonaiuto, cioè la genoinvenzione-metamorfosi della fonte esperita e l'espressione che egli effettua nella visione muraria della chiesa di San Domenico di Pistoia, non è né un vago 'genere religioso’, cui fa riferimento Antal [3], né il non meglio precisato “modo di pensare dominante: dominans meaning”, di cui parIa Gombrich [4]: perché il punto di vista dell'artista è radicato nello ‘auditus’ del Vecchio e Nuovo Testamento; perché il ‘genere religioso’ al quale il pittore aderisce, è ‘Fede’ determinata; perché il dominant-meaning, cioè il “principio unificante che sta dietro e spiega tanto l'evento visibile che il suo significato intelligibile, e determina perfino la forma in cui l'evento si configura” [5], è categoria di pertinenza della Fede cristiana e della scienza che ne cerca la conoscenza, la teologia.
Ora la categoria di Fede e/o categoria teologica non appare nell'interpretazione di A. Warburg né di Fritz Saxl né di E. Panofsky.
Anzi, chi segue il percorso fisico-sequenza mentale della Biblioteca del Warburg Institute - nelle sue varie reaIizzazioni temporali e topografìche (Amburgo-Londra) -, si accorge che in siffatto ‘percorso’, sia nello schema degli scaffali che dei piani, la categoria di Fede viene misconosciuta “in quel buon vicinato di libri” [6], perché fusa-confusa con la categoria di religione: categoria che soggiace alla ‘ricerca’ (anche nel dominio dell'arte) della ratio - per Aristotele metafisica e teologia hanno lo stesso oggetto - e non della revelatio.
Tale ‘sistemazione culturale' - che del resto rispecchia condizioni mentali proprie a momenti di positivismo e d'illuminismo -, può essere assunta come ‘sintomo' e/o ‘motivazione' del mancato approccio di carattere teologico alle opere d'arte, chiaramente dipendenti da una fonte e/o stimolo di Fede.
La intuizione iconologica di tipo panofskiano pone tra parentesi, se pure non oblia, il ‘contenuto rivelato’ in quanto ‘rivelato’, la sua natura specifica biblico-cristiana. Eppure, siffatta ‘Weltanschauung-Gesamtkultur’ per secoli ha dato (e dà) ‘forma’ ad opere, che si palesano ‘concepite-con-Fede’ nel momento dell’ideazione-fantastica dell'artista, e ‘partorite-con-Fede’ nel momento demiurgico della loro constituzione. Pertanto, se il critico che guarda tali opere non le accoglie nella propria visione e non le giudica come icono-teo-logiche, vuoI dire che egli non si è adeguato alla loro intuizione, perché privo di quella ‘familiarità-Vertrautheit’ e di quello ‘equipaggiamento-Ausrüstung’, che sono premesse metodologiche necessarie - lo insegna Panofsky [7] - all'esercizio critico.
Non è dunque capace di icono-teo-logia colui che, come il “recettore”, di cui parla Lukács, non possiede in sé “il contenuto trascendente” (vale a dire la Fede), che l'opera esprime: l'opera, infatti, “esercita la sua efficacia grazie al peso di questa fede” [8].
III.2 La iconologia di E. Panofsky e la iconoteologia
Il discorso sulla ‘inadeguatezza' della iconologia di A. Warburg e di E. Panofsky nell'interpretazione critica delle opere d'arte, che dipendono dalla Fede o dalla teologia o dalla Tradizione ecclesiastica o dalla pietas dei fedeli, non è apprezzamento di demerito, ma solo puntualizzazione del ‘metodo’, cioè definizione dei suoi limiti.
Il metodo iconologico è, lo ribadisco (cfr. II), 'strumento’ valido ed indispensabile di critica d'arte. Esso coglie e stabilisce il ‘lógos-Kunstwollen' dell'artista e dell'opera, eccetto i casi - ecco il limite! - in cui le opere d'arte sono ‘formate' con ‘Kunstwollen-theológos' ed 'esprimono' un'intento d'arte di Fede. Il limite, dunque, dell'iconologia di Warburg-Panofsky sta nel fatto che è stata pensata per discernere negli schemi formali-schemi semantici “i princìpi generali di una cultura”, e non i ‘Grund-.prinzipien della cultura della Fede’, immanenti all’opera d’arte in quanto tale.
Questa costatazione, che restringe il campo dell'esercizio critico dell'iconologia panofskiana, è però anche il fondamento, teorico-pratico, per valorizzarla nel dominio plurisecolare della critica e/o arte iconoteologica.
Il teologo, infatti, e di conseguenza l'iconoteologo, ha bisogno di assumere al proprio servizio la “sapientia saecularis”. Tommaso affermava: “È da raccomandare che qualcuno si assuma il compito di portare l'eloquenza e la sapienza profana all'ossequio della sapienza divina: Commendabile est quod aliquis eloquentiam et sapientiam saecularem ad obsequium divinae sapientiae trahat” [9]. Ed il teologo e l'iconoteologo (artista e/o critico) hanno nel corso della storia rese ancìllae ed órganon della sacra Scrittura rispettivamente: grammatica-dialettica-scienza-retorica-storÌa: vale a dire le ‘arti liberali’, e linea-colore-luce-proporzione-prospettiva-materia, cioè la ‘reductio’ delle arti - in quanto “rerum studia et doctrina” (Cicerone, Pro A. Licinio Archia, 18) - al ‘visum significativum’.
Dunque, l'iconoteologo ha bisogno dell'iconologo. Il metodo iconoteologico, infatti, presuppone il metodo iconologico, che è strumento conoscitivo-operativo che assicura l'approccio all'opera fìgurativa entro i parametri dell'arte; il metodo iconologico, d'altra parte, richiede di essere ‘esteso’, ‘elevato' e ‘specificato' dal metodo icono-teo-logico, che è strumento conoscitivo-interpretativo, che si muove nell'ambito della Rivelazione scritturistica e della Fede, ‘artisticamente’ espressa.
Questo rapporto iconologia-iconoteologÌa, tuttavia, non è rapporto estrinseco.
Come preiconografia-iconografia-iconologia non sono che un tutto o ‘sinolo’, cosl iconologia-iconoteologia non ‘formano' che una unità, teorica e metodologica, a similitudine della ‘scienza teologica', che è una pur risultando dalla 'reductio' della “sapientia saecularis” alla “sapientia Fidei”. Osservava san Tommaso (e riprendo il testo ora menzionato) che l'acqua della sapienza umana, che viene aggiunta al vino della sacra Scrittura, non corrompe il vino, perché la Parola rivelata transostanzia l'acqua ‘totaliter’ in se stessa: “cedit in fìdei veritatem [ ...], vinum sacrae Scripturae non est mixtum sed purum remanet” [10].
In altre parole. Si ha iconoteologia non solamente perche il ‘contenuto' (in senso panofskiano) impresso-espresso nella-dalla opera d'arte è di origine di Fede, ma anche - ed ‘una simul’ - perché è la forma dell'opera, che viene a ‘presentarsi' al fruitore come forma-ottica-teologica, cioè ‘forma-mimesi-di-Fede’. Ed in realtà nell'intuizione dell'artista (via all'ingiù) - come poi nell'intuizione del critico (via all'insù} - l'exemplar-ad-extra della Parola scritturistica si fa exemplar-interius, cioè l'immagine-acustica viene trasformata in immagine-fantastica, ed infine in image-chose, ‘locus theologicus’ della Fede e/o sua ‘interpres’.
La iconoteologia, dunque, non soltanto non chiede alla critica-storia dell’arte di abdicare alla propria autonomia, ma la constituisce ‘autonoma’ e al suo specifico livello, quello di critica-storia dell’arte-di-Fede, che equivale a critica-storia-iconoteologia.
Del resto, è ‘fatto storico' la collaborazione degli artisti e dei teologi. Porto un solo esempio.
Il 25 novembre 1499, Luca Signorelli, ‘honorabilis pictor’, viene incaricato dagli ufficiali dell’Opera del Duomo di Orvieto di portare a termine le pitture della Cappella Nuova, ma in modo d'attenersi al “disegno approntato un tempo dal venerabile fra Giovanni [da Fiesole: il Beato Angelico]: designum iam datum per venerabilem virum fratrem ]ohannem”. Per la parte poi della Cappella sprovvista del ‘disegno' di fra Giovanni: “nunc est finitum dictum designum. Et non extat de alia medietate designum”, maestro Luca deve procedere alla dipintura “secondo era stato consigliato a voce in altre occasioni dai venerabili maestri in sacra pagina [cioè dai teologi]: quod fiat et pingatur in dicta cappella prout alias oretenus per venerabiles magistros sacre pagine huius civitatis consultum est“.
Ma devo completare l’interpretazione di questo passo.
Quando gli ufficiali dell'Opera del Duomo di Orvieto avevano deciso di condurre il Beato Angelico - era l’11 maggio 1447: “Et vocatur dictus magister pictor Frater ]ohannes” -, non proposero che ‘maestri di teologia' consigliassero fra Giovanni, ma “deliberarono ed ordinarono che si doveva aspettare il detto maestro pittore, e che bisognava ascoltarlo, e una vòlta ascoltato il suo consiglio si passasse all'ordinazione: “Et factis inter eos quam pluribus colloquiis deliberaverunt et ordinaverunt fore spectandum dictum magistrum pictorem et ipsum audiendum et deinde audito suo consilio ordinandum” [11]. Questo perché fra Giovanni Angelico riuniva in sé, nella sua persona - ‘ipostaticamente’ si potrebbe dire usando una espressione dommatica del mistero di Cristo - la natura dell’artista e la natura del teologo.
E mai v'è stata iconoteologia più coerente!
[1] Mi riferisco agli orientamenti metodologici di Panofsky. Cfr. E. Panofaky, Il signijicato nlle arti visive, cit., pp. 13 e ss.
[2] Faccio riferimento a “the principle of the primacy of genres”, che Gombrich deriva da D. E. Hirsch. Cfr. E. H. Gombrich, Symbolic Images. Studies in the art of the Renaissance, Phaidon, Edinburgh 1975, pp. 5 e ss. - R. Bianchi Bandinelli puntualizza rettamente i due momenti dell'indagine, che compete allo storico d'arte e che delineano la ‘categoria’ interpretativa dell'opera, vale a dire l'individuazione “da quali precedenti schemi iconografici discende una data opera d'arte e in che cosa tali schemi vengono (o non vengono) innovati; da quali premesse ideologiche, programmatiche o non, ne viene determinato il contenuto”: cfr. R. Bianchi Bandinelli, Introduzione all'archeologia classica come storia dell'arte antica, Ed. Laterza, Roma-Bari 1976, p. 137.
[3] F. Antal, in: La pittura fiorentjna e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Einaudi Ed., Torino 1976, dedica un intero capitolo al “sentimento religioso”. Lo storico ungherese ha compreso che non era possibile studiare l'arte fiorentina del Trecento senza confrontarla con la vita ‘religiosa'. Non ha capito però che con siffatta ‘categoria' egli non arrivava alla ‘specificità’ - anche qualora si volesse parlare di ‘sentimento' e non di fede o di domma o di dottrina e/o di teologia - di tale ‘sentimento’, che è da ricercare nella fede evangelica. Inoltre, Antal tratta ideologicamente la ‘fede’ dei fiorentini (che certo era ed è da criticare in molti aspetti) riducendola (e quasi vanificandola) a ‘struttura sociale’, e a ‘cause economiche’. In tal modo egli perde il contatto con la effettuale realtà-storica.
[4] E. H. Gombrich, Symbolic images, cit., pp. 15-16: “This symbolism can only function in support of what I have proposed to call the dominant meaning, the intended meaning of principal purpose of the picture”.
[5] E. Panofsky, Il Signi/ficato nelle Arti Visive, cit., p. 33.
[6] S. Settis, Warburg ‘continuatus’. Descrizione di una biblioteca, in: “Quaderni storici” N.S. 58 (1985) pp. .5-38. Cfr. nota 31.
[7] E. Panofsky, Il significato nelle arti visive, cit., p. 40.
[8] G. Lukács, Estetica, cit., p. 810: “Finché il contenuto trascendente che l'opera allegorica è chiamata ad esprimere sta alla base della religiosità generalmenle sentita, l'opera esercita la sua efficacia grazie al peso di questa fede, e le sue qualità artistiche offrono soltanto un sostegno accessorio. Se questo contenuto viene dimenticato, o anche soltanto subisce un mutamento sostanziale, il ricettore si trova di fronte a qualche cosa d'incomprensibile perché le forme della figurazione non possono mai diventare reali organi di mediazione del contenuto trascendente concreto”. Per superare la contraddizione in cui si viene a trovare il fruitore, che non ha l'appoggio della fede (e di cui parla Lukács), questi deve - se vuole penetrare nell'arte ‘allegorica’ (oggettiva, almeno per le intentiones historicae in essa dall'artista concretizzate) - ricostruire ‘culturalmente' quel cosmo, che si articola in segno e segnato. E questo è il problema che si presenta ogniqualvolta in un linguaggio viene posto il rapporto tra referente ed il suo segno. - Non è forse del tutto ovvio notare che l'interpretazione (o critica) dell'arte con la categoria-teologica non comporta che il critico sia 'uomo-di-Fede' o ‘teologo’, in senso rigoroso; richiede però che lo storico abbia conoscenza dell’ambiente-dii-Fede nel quale l'opera è stata generata.
[9] Thomas Aq., Contra impugnantes Dei cultum et religionem, c. 12, Ed. Leonina, t. XLI, 135 A.
[10] Thomas Aq., Contra impugnantes Dei cultum et religionem, c. 12, ed. cit.,t. XLI, 134 A.
[11] A. Serafini, L’epopea cristiana nei dipinto del Beato Angelico. Con appendice di documenti tratti dall’archivio dell’Opera di Orvieto, Tipogr. M. Marsili, Orvieto 1911, pp. 100-101, 122-123.