VII.2.2   L’espressione artistico-cristiana assume la sapienza secolare dell’arte classica sincronica e la qualifica sia nello stile che nella iconografia come arte della Fede, cioè ‘arte-iconoteologica’

            Per  dare forma ad immagini secondo l’iconìa della Fede gli iconopoieti  non solo non prescindevano dalla ‘sapienza secolare’ (cfr. III, 2), cioè dalla ‘recta ratio factibilium’ (per dirla con gli aristotelici-tomisti) degli artisti pagani, ma ne facevano ‘strumento ancillare’ alla  ‘volontà d’arte di Fede-Glaubenskunstwollen’.

            Lo stile e la iconografia - o ‘schemi formali-schemi semantici’ -  dell’arte sincronica venivano assunti dai facitori dell’espressione ‘secundum sacram Scripturam et pietatem’, ma per costituirli ‘parti’ immanenti del ‘tutto’ - si rimemori la descrizione panofskiana dell’opera d’arte come ‘il tutto-das Ganze’ (cfr. II, 1) -, iconìa della storia della salvezza vissuta dai credenti (cfr. IV, 3).

            Gli storici delle Catacombe romane sono unanimi nel giudicare  queste sotterranee pinacoteche “risultato di un lungo processo di assimilazione dell’arte classica antica”; anzi, “l’ultimo capitolo del suo sviluppo” [34].

            Gli studi di Grabar (ad esempio) confermano che l’espressione artistica delle catacombe “è un ramo dell’arte antica”, che “non è succeduta a quella classica”, perché “ne è un tardo filone”. L’arte antica non ha “generato quella cristiana morendo. L’arte cristiana è vissuta, nelle condizioni di quella classica, tre o quattro secoli. [...] A parte i suoi soggetti nuovi, essa nasce vecchia, recando sulle spalle il peso delle abitudini millenarie dell’arte mediterranea”[35].

            Gli artisti delle Catacombe hanno in realtà assunto dall’arte classica sincronica “la pittura pompeiana”; non tanto però, e mi rifaccio alle acute analisi di Dvorák, quella dallo ‘stile illusionistico’ dell’architettura pitturata quanto la pittura dallo ‘stile impressionistico’, capace di tramutare subiettive percezioni in “impressioni immateriali”, quasi allo stesso modo con cui i filosofi ed i teologi cristiani hanno saputo collegare le loro cognizioni (anche quelle di Fede) alla ‘sapienza secolare’ della filosofia neoplatonica, che “ha cercato la fonte della bellezza nella irradiazione della Luce spirituale nella materia sensibile” (cfr. VI, 1).Pertanto  - annota Dvorák -  il cambiamento dello stile pompeiano sta non solo e non tanto nell’aver ridotto al minimo la corporeità, il naturalismo, il rilievo, l’effetto cubico, vale a dire lo spazio reale e la plastica tridimensionale, quanto nell’avere introdotto al loro posto “nuovi valori-neue Werte”, così che “la finalità della pittura è cambiata: der Zweck der Malerei hat sich verändert [36].

            R. Bianchi Bandinelli specifica che fu soprattutto la “pittura a macchia che giunge all’abolizione delle mezze tinte, dei paesaggi di chiaroscuro ottenuti a incrocio o a velatura, e pone a diretto contatto le luci, cioè i massimi chiari e le ombre. [...] La pittura a macchia inizia la distruzione del naturalismo e sostituisce ad esso un impulso tutto intellettualistico, accrescendo l’intellettualismo già accennato dai paesaggi fantastici pompeiani e finendo per perdere ogni contatto con la realtà oggettiva della natura. [...] Tale distruzione non è a favore di una maggiore spazialità, ma, al comtrario, va nella direzione di una pittura che arriverà, dopo il III secolo, ad una astratta trascendenza” [37].

            ‘Trasendenza’ però - occorre subito annotare -,  che  non perverrà mai al livello della ‘trascendenza’ messa in visione nell’arte dei cristiani, tale cioè da significare che il senso del mondo è nella “sopramondana destinazione dell’umanità: überweltliche Bestimmung der Menscheit” - come Dvorák decisamente sosteneva nei confronti di A. Riegl [38].

            Bandinelli puntualizza ancora  il ‘quando’ ed il ‘come’ ha avuto inizio il tipo di pittura, che passerà negli schemi formali dell’arte dei cristiani. “Negli anni 60 d. C. vi è una crisi di trasformazione [...]. Fra le decorazioni della Domus Aurea si fanno notare alcune pitture di paesaggio dalle forme disfatte, rapidamente schizzate. Si inizia qui un fenomeno, che caratterizzerà la pittura dell’età tardoromana e la prima pittura cristiana, cioè la pittura a macchia [39].

            A queste corrette osservazioni occorre aggiungere - e non soltanto come complemento ma come ‘fatto formale’ distintivo dello stile - che la formazione dell’espressione artistico.cristiana si può denominare tale soltanto perchè ‘qualificata’ (e lo dico con le parole  di M. Dvorák) da “un nuovo orientamento artistico: eine neue Kunstlerische Orientierung”, cioè da “una nuova intenzione: eine neue Absicht”, che implica non solo “nuove immagini: Bildideen” ma anche l’intera interpretazione dei problemi formali [40].

            Preferisco significare l’orientamento e la intenzione del linguaggio di Dvorák  con il lemma di Riegl (al quale ho già fatto frequentemente ricorso), cioè con la denotazione di ‘nuova volontà d’arte: neues Kunstwollen’, che (specifico) - e questo Riegl non l’ha ‘veduto’ - dà l’impronta della persona-credente dell’artista non soltanto nello stile, cioè nel ‘come-wie’, ma anche (ed ‘una simul’ con  e nello stile) al ‘soggetto-schemi semantici’ e al ‘contenuto-schemi simbolici, vale a dire al ‘che cosa-was’; insomma al ‘tutto’ dell’opera (cfr. II, 1).

            In tal modo lo stile passa dalla generica (in senso filosofico) volontà d’arte - che è l’accezione (imprecisa) di Riegl - alla ‘volontà specifica del facitore dell’opera, che risulta ‘impressione-espressione’ (e per immanenza, lo si è detto) della volontà dell’artista-Künstlerwollen nella volontà del credente-Gläubigerswollen, e viceversa (cfr. III, 2 e V, 2) [41].

            Gli artisti dell’espressione cristiana, pertanto, non hanno  semplicemente ‘assimilato’ quasi per giusta-apposizione lo stile ellenistico-romano, ma lo hanno ‘metamorfosato’ secondo sia l’esigenza della loro ‘personalità di Fede’, sia della ‘significazione’ scritturistica: si ricordino i quattro sensi, imprimendo-esprimendo negli schemi formali-semantici-simbolici la iconìa della ‘ispirazione biblica’ (cfr. IV, 2), che li aveva sollecitati al ‘fare’ sin dalla intuizione delle immagini nel cosmo verbale della Rivelazione.

            Siffatta assimilazione per metamorfosi avviene (si potrebbe dire) alla maniera di quella biologica - uso questo raffronto per chiarificare il referente del linguaggio nel contesto del presente discorso -, cioè ‘conversione nella propria sostanza’: quella della Fede, che la Lettera agli Ebrei (11, 1) descrive, appunto, come “sostanza di ciò che si spera, dimostrazione di realtà che non si vedono”.

            L’arte delle Catacombe, dunque, pur non essendo quanto allo stile ‘arte originale-Urkunst’ (cfr. VII, 2.1, viene a denotarsi arte “diametralmente differente dall’arte classica” [42], perché fa ‘intra-vedere’ nell’in-quo (o téchne) degli schemi, che ‘costruiscono’ la ‘forma’, altra catratteristica (quasi Stilmerkmal) ed altro sentimento (o Stilgefühl) - anche il “sentimento lirico”, che è nell’in dell’arte (si ricordi B. Croce, citato in IV, 1) -, e che sono ‘segni’ di ‘trascendenza’, ma della trascendeza del divino che è divenuto ‘presente’ nel Dio-fatto-uomo, rivelatosi in Gesù-Uomo-Dio.

            Possiamo, dunque, affermare che l’espressione artistico-cristiana è nuova-struttura-figurativa, che ha per referente il nuovo-reale: quello dell’Uomo-Dio del Vangelo e di coloro che lo ‘riconoscono’ - potrei anche dire: lo ‘vedono nelle immagini iconiche’; si rifletta sulle “due vie” (cfr.IV, 3) - nella Fede, nel corso della storia della salvezza (cfr. IV, 1).

            Parimenti i primi artisti, che si sono cimentati nel ‘riportare alla Fede’ la sapienza secolare dell’arte, non hanno esitato ad ‘impadronirsi’ anche delle immagini tematiche e culturali della iconografia-iconologia dei gentili, vale a dire del ‘che cosa-was’, distinto (ma non ‘separato’) dal ‘come-wie’. Essi hanno ‘giudicato’ che il ‘mito’: sia quanto alla ‘forma estetica’ degli ‘schemi formali’, sia quanto alla ‘forma dottrinale’ degli ‘schemi semantici-simbolici’ era  suscettibile di ‘catarsia’ (cfr. V, 1) mediante l’interpretazione metaforica e/o allegorica, così che - per dirla con l’enunciato di san Tommaso - potevano essere messi ‘al servizio della Fede: Fidei subservire’, perché l'acqua della sapienza umana, che viene aggiunta al vino della sacra Scrittura, non corrompe il vino, perché la Parola rivelata transostanzia l'acqua ‘totaliter’ in se stessa: “cedit in fìdei veritatem [ ...],  vinum sacrae Scripturae non est mixtum sed purum remanet” (cfr. III, 2) [43].

            Porto alcuni esempi.

            Per G. Wilpert, lo scultore (anonimo) del sarcofago con la scena di Ulisse e le Sirene si è rifatto al racconto dell’Odissea (XII, 39 ss.) ed al simbolismo, che esso aveva assunto nell’arte classica, per mettere in guardia i visitatori dell’ipogeo di Lucina (presso le catacombe di san Callisto), ove il sarcofago era collocato, dalle “dottrine false”: dottrine da Sirene appunto, che  attirano col “dolce canto”, ma poi portano sugli scogli dello sfacelo quanti si lasciano ammaliare dalla loro  “perigliosa voce” [44].

            Nello stesso periodo di tempo - annota ancora Wilpert mettendo a confronto le ‘immagini visive’ dello scultore del suddetto sarcofago con le ‘immagini acustiche’ degli scrittori ecclesiastici -, Ippolito (m. 235) nei “Philosophumena” (VII, 1) interpretava ‘allegoricamente’ il mito di Ulisse e delle Sirene, applicandolo ai fedeli che si lasciavano incantare dalle dottrine degli eretici.

            Il dotto Presbitero del clero romano - poi antipapa ed infine martire - scriveva (cito da Wilpert): “Ulisse otturò con cera le orecchie dei suoi e si fece legare all’albero maestro per poter condurre la nave presso le Sirene senza essere allettato dal loro canto. Così deve agire anche il fedele: debole com’è, chiuda le orecchie alle dottrine degli eretici, per non lasciarsi sedurre da esse, come dal dolce canto delle Sirene; se poi le vuole conoscere ad ogni modo, si faccia avvincere al legno della croce di Cristo; solo così la speranza imperturbata nella croce, lo renderà incrollabile” [45].

            Ad Eusebio - lo storiogafo della Chiesa dei primi quattro secoli -dobbiamo alcune descrizioni dei primi monumenti artistici, che egli aveva  visto nella parte orientale dell’Impero, e che fa ancora ‘vedere’ a noi, con la ékphrasis, che ne ha lasciato.

            Egli ci narra - e come notizia degna di essere trasmessa ai posteri - che nella città di Cesarea di Filippi aveva ammirato de visu il monumento in bronzo elevato sopra un alto podio a ricordo ed onore dell’Emorroissa, guarita da Cristo (Matteo 9, 20-22).

            Data l’importanza della descrizione cito il  passo per esteso, che permette di gustare la écfrasi eusebeiana. “Sopra un alto masso davanti alla porta della casa, già abitazione dell’emorroissa, si erge una statua in bronzo di una donna che prega in ginocchio, con le mani protese nell’atteggiamento di una persona che implora; di rimpetto ad essa si erge un altro simulacro della medesima materia riproducendo un uomo in piedi, che splendidamente avvolto in un manto tende la mano alla donna; ai suoi piedi  sulla stele cresce una pianta di ignota specie, che si eleva sino al lembo del mantello di bronzo: essa è efficacissimo rimedio per tutti i generi d’infermità. Si dice che tale statua ritragga Gesù. É rimasta sino ai nostri giorni: l’abbiamo vista coi nostri occhi stessi, nel nostro soggiorno in quella città” [46].

            Inoltre, lo Storico del tempo di Costantino aggiunge che egli aveva visto anche “le effigie degli Apostoli Pietro e Paolo e di Cristo medesimo, conservate su tavole dipinte”. E spiega - ed è interessante la motivazione che egli offre al fine di conoscere le intenzioni che sottostanno all’iconografia - che queste espressioni artistiche trovano la loro origine “in una consuetudine propria dei gentili: ex gentili consuetudine”, che denota l’inculturazione’ delle ‘immagini’ del Vangelo riprodotte secondo il costume artistico ideologico sincronico. “Non è da stupirsi per nulla che gli atichi pagani beneficiati dal Salvatore abbiano fatto questo, perché abbiamo visto le effigie degli Apostoli Pietro e Paolo e di Cristo medesimo conservate su tavole dipinte. La cosa era ben naturale, perché gli antichi secondo la costumanza invalsa nel paganesimo, solevano onorare così i loro salvatori senza distinzione [47].

            Pertanto Eusebio ci fa conoscere con chiarezza il punto d’incontro dell’iconografia-iconoteologia dei cristiani con la contemporanea iconografia-iconologia  del mondo greco-romano, in quanto l’una e l’altra, l’una come l’altra, promanano dalla memoria-grata  di  quanti  vogliono onorare quelli che hanno fatto loro del bene.

            La costante iconoteologica di questo periodo è la ‘via positiva dell’incarnazione’ del Figlio di Dio (cfr. VII, 1). Gli artisi la percorrono con la raffigurazione del mistero di Cristo, ‘visto’ con gli occhi nella condizione umana ed ‘intra-visto’ nella fede nella condizione divina, secondo la professione di Pietro: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Matteo 15, 16).

VII.2.3   L’arte dell’epoca costantiniana e bizantina: dalla raffigurazione dell’umiltà del Cristo alla visione del Cristo trionfante, in analogia alla Roma triumphans dell’Impero

            Costantino inizia una nuova era nella storia della Chiesa e dell’arte.

            L’imperatore ‘convertito’ prescrive ai suoi artisti che  glorifichino Colui che gli ha dato la vittoria al Ponte Milvio ‘nel segno della Croce’. La ‘ignominia Crucis’ diviene il “Trofeo della Croce” del Cristo vittorioso e che dà vittoria.

            Eusebio, il grande ‘laudator’ di Costantino, ce ne spiega le ragioni. L’Imperatore è da considerare il corifeo della de-idolatrizzazione del mondo greco-romano e della sua cristianizzazione. Con frase lapidaria lo Storico afferma che Costantino era pervenuto alla conclusione che sarebbe stata cosa stolta continuare a venerare come dèi coloro che dèi non erano: “stultum fore circa eos morari qui dii non sunt”; e che perciò occorreva liberarsi da tale errore ed onorare, invece, come Dio, e “con riti di culto d’ogni genere”, Colui che gli era apparso e gli aveva fatto vedere “al di sopra del sole il trofeo della Croce: supra solem tropheum Crucis [48].

            In realtà, secondo Eusebio, la prima preoccupazione, che Costantino manifestò all’indomani della sua vittoria su Massenzio al ponte Milvio (28 ottobre 312), fu di prescrivere che la statua, che il Senato romano gli avrebbe eretta, lo rappresentasse con “il trofeo della Passione del Signore nella sua mano destra”, a significare con quale forza egli aveva liberato Roma dal tiranno [49], così che il monumento rispondesse pienamente (“iuxta formam”) al “segno che gli era apparso in cielo”[50].

            La vita eusebiana di Costantino, il quale lotta contro gli dèi ed i loro luoghi di culto [51], è riportata addirittura nell’alveo della storia della salvezza del Nuovo Testamento. Lo Storico, infatti, la inserisce nella visione grandiosa dell’Apocalisse sullo  scontro tra il ‘dragone serpente’ ed i suoi demòni e la “Donna vestita di sole” (la Chiesa), con l’intervento dall’arcangelo Michele ed i suoi Angeli [52].

            Eusebio ci riferisce, in écfrasi (cfr. VI, 8) - difficile a trasmettere alla nostra fantasia -, la grande ammirazione che tale ‘victoriale tropheum’ aveva suscitato in lui, perché il “depictum salutare signum” sembrava quasi fosse stato pitturato per divina ispirazione, a guisa di quanto “le voci dei profeti” avevano preannunziato [53].

            Si noti in questo passo non solo l’uso della iconografia cristiana a scopo politico e religioso da parte di Costantino, ma anche e soprattutto l’accenno di Eusebio alle ‘fonti scritturistiche-immagini acustiche’, interpretate pittoricamente con evidente (e soggettiva) storicizzazione, e tuttavia ritenute in rapporto di ‘verità’ con la sacra Scrittura, in quanto esprimenti l’attuazione ‘per imitationem’ del progetto divino di salvezza. Voglio, pertanto, mettere in evidenza che non si tratta soltanto della “collatio veteris et novi testamenti”, ma anche del riferimento tra le ‘gesta’ proposte o preannunziate nella sacra Scrittura ed il loro avveramento nelle ‘gesta’ della Ecclesia (cfr. IV, 1-3, e V, 1-2).

            Abbiamo così nella storiografia di Eusebio enucleati  due punti cardine sui quali ruoterà la ‘destructio-constructio’ della iconografia-iconoteologia cristiana: il ‘signum Crucis’ (e le sue innumerevoli e variegate estensioni), e la lotta dei fedeli col ‘dracone-diavolo’ (anch’egli rappresentato con indefinite varianti sino ai nostri giorni), il nenico di Dio e del popolo dei discepoli di Cristo, e che spesso agisce sotto il ‘mendacium’ della ‘forma’ degli antichi dèi.

            Anche l’arte, che si  sviluppa nella parte orientale dell’Impero, denota un ‘excessus’, quello della Persona-divina di Cristo, che ìmpèra sul Cielo e sulla Terra, Ed insieme al Cristo viene rappresentata anche la ‘dignità imperiale’’ di sua madre Maria [54], così come insieme alla propria glorificazione Costantino volle quella della madre Elena.

            Gli artisti strutturano perciò le immagini dell’umanità del Cristo  ‘straniandole’ in modo tale da renderle via alla trascendenza del Figlio unigenito di Dio. Lo stile diviene ‘sublime’.

            La ‘visione’ del credente viene elevata dalle opere di questa arte e  introdotta nel mondo di Dio, reso ‘sensibile-sovrasensibile’ dai significanti-segni-simboli, quali la luce sfolgorante, irraggiata dall’alto: si pensi alla Cupola di Santa Sofia in Costantinopoli, o riflessa come da uno specchio d’oro: si abbiano presenti i mosaici delle basiliche.

            É un mondo di  bellezza umano-ieratica, mondo che ha proporzioni e colori che ‘eccedono’ l’acies dell’occhio e fanno immaginare e presentire il ‘cosmo di Dio’, appunto.

            L’excessus divino di Cristo trapassa nell’uomo. Questi, raffigurato nella luce modificata ed abbellita da riflessi d’oro, è prospettato nella valenza di cittadino del Regno di Dio.

            La fede cristiana trionfa ormai nella società rinnovata.


[34] Max Dvorák, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte. Studien zur abendländischen Kunstentwicklung, Mäender Kunstverlag, Mittenwald 1979, p. 4. - Mi soffermo nelle   esemplificazioni sulle prime espressioni artistico-cristiane documentate in Roma, non perché diméntico della varietà (soprattutto degli schemi formali) con cui si sono formate nelle altre regioni evangelizzate, ma perché il processo creativo ed il processo critico pertinente alla categoria iconoteologica sono la stessa via, ovunque il cristianesimo si è impiantato ed ‘inculturato’. Per motivazioni simili non offro esemplificazioni riguardanti la ‘iconoteologia’ dell’architettura paleocristiana, perché andrei oltre i limiti del presente paragrafo. Rimando allo studio di Richard Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale e altri saggi su Rinascimento e Barocco (Bollati Boringhieri ed., Torino 1993), in cui l’Autore nel cap. 6: “Introduzione a una iconografia dell’architettura sacra medievale [dal IV al XII s.]” lamenta che il ‘contenuto’ come “oggetto dell’iconografia - io aggiungo: della ‘iconoteologia’ -  architettonica” [...] nell’ultimo cinquantennio è stata sostituita da una impostazione strettamente formale”, p. 99.

[35] A, Grabar, L’arte paleocristiana, cit., pp. 39-41.- Faccio presente che le osservazioni di Grabar sono condivise unanimemente dagli storici delle Catacombe. Si consulti, ad esempio, il vecchio (?) manuale di H. Leclercq, Manuel d’archéologie crétienne depuis les origines jusqu’au VIIIe siècle, Librairie Letouzey et Ané, Paris 1907, pp. 128-182: “Chap.1er: Les influences [...]. IV. Influence classique”.

[36] Max Dvorák, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, cit., pp. 13-17, 19.

[37] Ranuccio Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, Feltrinelli ed., Milano 1969, pp. 138-141.

[38] M. Dvorák, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, cit., p. 25.

[39] R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte romana nel centro del potere, cit., pp. 138-139.

[40] M. Dvorák, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, cit., pp. 15-16, 20: “Es handelt sich bei den Neuerungen der Katakombengemälde nicht nur um eine Bildideen, sondern um weit mehr: um eine neue künstlerische Orientierung, die sowohl in den bildlichen Erfindungen als auch in der ganz Auffassung der formalen Problemen in gleichem Masse zutage tritt und weder primitiv noch altorientalisch noch volkstümlisch ist. [...] Und diesem Zweck auch die künstlerische Form zu dienen”.

[41] Il lemma ‘Künstlerwollen: volontà dell’artista’ - che ho coniato per omologarmi al lemma ‘Kunstwollen: volontà d’arte’, che si riferisce allo stile che accomuna gli artisti di un determinato periodo (cfr. I, 2, nn.10, e 12) - ha il corrispondente nella letteratura di lingua tedesca in “Persönlichkeitsstil”. che connota la peculiare ‘energia formante’, che profluisce negli schemi dalla pienezza della ‘persona-artista’. “Mit dem Wort Persönlichkeitsstil nennen wir die Eigenheiten, die einem Kunstwerk aus der Persönlichkeit des Meisters zuflissen”: cfr. Heinz Braun, Formen der Kunst. Eine Einführung in die Kunstgeschichte, Velag Martin Lurz, München 1974, pp. 7-8. Quado poi il ‘Künstlerwollen’ si identifica con la volontà della ‘persona’ dell’artistia ‘credente’, mi è sembrato corretto qualificare tale ‘volontà’ come ‘Gläubigerswollen’.

[42] M. Dvorák, Kunstgeschichte als Geistesgeschichte, cit., p. 16.

[43] Thomas Aq., Contra impugnantes Dei cultum et religionem, c. 12, ed. cit.,t. XLI, A 134.

[44] G. Wilpert, La fede della Chiesa nascente secondo i monumenti dell’arte funeraria antica, Città del Vaticano 1938, p. 11. Il sarcofago è custodito nel Museo di San Callisto. Cfr. voce “Odysseus” in: Lexikon der christlichen Ikonographie, Herausgg. von E. Kirschbaum, Herder, Rom-Freiburg-Kasel-Wien, III Band, 1971.

[45] G. Wilpert, La fede nella Chiesa nascente, cit., p. 11. Cfr. il testo in Migne, Serie Greca,  t. 16, col. 3294. -  Meyer Schapiro in Parole e immagini. La pittura e il simbolo nell’illustrazione di un testo (Soc. Produzioni ed., Parma 1985) fa notare, anche a proposito di testi biblici interpretati da s. Ippolito, la difficile determinazione di senso delle pitture delle Catacombe. Alcune difficoltà, però, che l’illustre storico dell’arte denuncia, mi sembra che provengano da un’impostazione della critica su princìpi non sufficientemente comprensivi del metodo teologico (soprattutto dell’uso della metafora, dell’allegoria e dei ‘quattro sensi’), o pregiudizievolmente ipotizzanti le pitture come semplici ‘letture-copie’ di un testo.  Già l’affermazione: “L’artista legge un testo” (pp. 5-12) è sviante per la sua ambiguità. L’artista, infatti, quando ‘legge’ uno scritto al fine di produrlo in espressioni ‘visibili’ lo legge ‘da artista-iconopoieta’; immette, cioè,  nel ‘logos’ delle immagini acustiche la ‘energia’ sensibile-fantastica-ideale-formatrice, che trasforma le immagini acustiche dello ‘auditus fidei’ in sostanza ottica o ‘visio fidei’, cui competono le stesse proprietà di polisemia della sacra  Scrittura (cfr. V, 2). Insomma, Schapiro non ha considerata la categoria della ‘iconoteologia’.

[46] Eusebio di Cesarea,Storia ecclesiatica e I martiri della Palestina, Testo greco con traduzione e note di Giuseppe del Ton,  ed.,Desclée & c., Roma 1964, lib. VII, cap. 18, pp. 568-570. - Nella catacomba romana “ad duos lauros” (o dei santi Pietro e Marcellino) si è conservata la stessa scena, pitturata verso la fine del III secolo, e con l’aderenza piena alla parola del Vangelo: si ricordi  l’enunciato “Ut evangelium pictura”.

[47] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiatica e I martiri della Palestina, cit., cap. XVIII, p. 570.

[48] Eusebius, De vita Constantini imperatoris (Vuolfgango Muscolo interprete), in: “Ecclesiasticae historiae auctores, Vuolfgango Musculo interprete”, Froben,  Basilea 1548,  lib. I, p. 166.

[49] Eusebius, De historia ecclesiastica, cit., lib. IX, cap. 9, p. 141. “Ipse vero [...] mox dominicae passionis tropaeum dextrae imagini suae adpingi iubet. Statuerunt igitur eum salutare crucis signum dextra manu tenentem  in loco Romae omnium celeberrimo, cui hanc scripturam Romanis verbis subiici praecepit: Hoc salutari signo, veraci fortitudinis indicio, civitatem nostram iugo tyranni liberavi”. -  All’esterno della chiesa del Santo Spolcro di Barletta è esposta la colossale statua in bronzo  (altezza di cinque metri circa) dell’imperatore Marciano (?.; l’opera si fa risalire al V sec.), che impugna ed eleva con la destra il ‘trofeo’ del segno dlla Croce, come Costantino aveva prescritto per la sua statua.

[50] Eusebio, De vita Constantini, cit., lib. I: “[...] Dormienti sibi Christum Dei una cum signo, quod in caelo viderat, apparuisse, ac praecepisse dicebat, ut signum sibi iuxta formam eius quod in caelo apparuisse compararet. [...] Convocatis auri ac lapidum pretiosorum opificibus, in illorum medio sedisse, imaginemque signi depinxisse, et ut auro illam ac lapidibus pretiosis exprimerent praecepisse” (p. 166). - Queste fonti ‘letterarie’ sono alla base della Legenda della vera croce, che Piero della Francesca affrescò (1452-1460ca) nel coro della Chiesa di S. Francesco ad Arezzo.

[51] Mi limito a segnalare alcuni esempi, presi dal De vita Constantini, cit., lib. III: “Illi [gli avversari di Costantino] relicto vero Deo confestim variis coactionibus eos qui dii non sunt colere compulerant, hic [Costantino] vero deos illos non esse et operibus et verbis convincens vere existentem agnoscendum esse admonebat. Deinde illi Christum Dei blasphemis vocibus subsannaverant, at hic in passionis trophaeo gloriando tutelam nominavit id, in quod potissimum impii blasphemias protulerant. [...] Illi oratoria funditus demolientes a vertice ad pavimentum usque dextruxerant, hic vero quae adhuc extabant sublimabat ac recentiora ex ipsis imperii thesauris erigi magnifice decernebat “ (pp. 187-188). - Siffatte ‘lotte’ proseguirono per tutto il secolo (ed anche oltre). Ricordo le dispute vigorose del 384  tra il prefetto di Roma il senatore pagano Simmaco ed Ambrogio vescovo di Milano sulla rimozione dell’ara della Vittoria dall’aula delle sedute del senato: cfr. Simmaco-Ambrogio, L’altare della Vittoria, a c. di F. Canfora,  Sellerio ed., Palermo 1991.

[52] Apocalisse 12, 1-18.

[53] Eusebius, De vita Constantini, cit., lib. III, p. 188: “Victoriale tropaeum ostentans, quod et in picta tabula quadam sublimissima et prae foribus imperialibus suspensa omnium oculis visendum  proponebat: ita ut depictum salutare signum capiti ipsius imponi, inimicam vero et hostilem feram, quae ecclesiam Dei per impiorum hominum  tyrannidem vastaverat, in forma draconis ad profundum deprimi fecerit. Draconem enim eum ac serpentem  tortuosum divina oracula in libris prophetarum appellarunt. Quapropter et imperator draconem  hunc suis ac suorum pedibus subiectum iaculoque circa medium uteri transfossum  ac maris fundo iniectum per ceratam picturam confectum, hoc pacto humani generis hostem  significans, cunctis ostendebat, quem et virtute salutaris tropaei quod super caput ipsius suspensum erat, ad profundum perditionis cessisse significabat. Sed haec quidem colorum flosculi per eam innuebant imaginem: me vero imperatoriae magnanimitatis admiratio caepit, quod ea divina inspiratione praeditus expresserit, quae prophetarum voces ad hunc modum de bestia proclamarunt dicentes, adducturum Deum macheram magnam ac terribilem adversus draconem hunc, et serpentem fugientem, interfecturumque draconem in mari. Horum imagines imperator veritatem pictura hac imitatus expressit. Haec igitur ex animi sententia perficiebat”.

[54] Cfr. E. Marino, Il Museo immaginario di Maria. ‘Madre di Gesù-Madre della Chiesa’, in “Memorie Domenicane” N. S. 19 (1988), p. 295-367.

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