VII.2   Linee di ‘periodizzazione iconoteologica’ della storia dell’arte, conseguenti all’omologia delle due vie estetiche: ‘ascolto’ e ‘visione’ (cfr. IV, 3), e alle tre vie metodologiche di analisi: ‘causalità, eminenza e negazione’ (cfr. VII, 1). Come il Vangelo la Tradizione e la Teologia, così l’arte visiva

            La storia dell’arte, che si è dipanata all’interno (o almeno al contatto) della storia della salvezza vissuta dai credenti in Cristo, è compendio espressivo dei modi di porsi di fronte a  Dio, che si è rivelato attraverso l’incarnazione della ‘Parola-Verbum’, che ha abitato tra gli uomini (Giovanni 1, 14), e si è presentato come ‘Immagine visibile’ dell’invisibile Dio Padre: “chi vede me vede anche il Padre” (Giovanni 14, 9).

            Coloro che con Fede ‘ascoltano’ le ‘parole: immagini acustiche’ della sacra Scrittura - che è la prima via, indicata dal Concilio di Nicea II (cfr. IV, 1) - percepiscono che in esse è suo modo “un peculiare lume a guisa di raggio, derivato dalla prima Verità”: si noti il linguaggio in termini ‘pittorici’.

            Parimenti i credenti, che mediante la conoscenza sensibile delle immagini visive ed iconiche prodotte dagli artisti nel corso della storia della salvezza - e questa è l’altra via, quella che fa conoscere la ‘storia del Vangelo’ attraveso l’occhio (cfr. IV, 2) - ‘vedono’ omologo ‘peculiare lume’, quello della Rivelazione [18].

            Si ricordi il versetto del Salmo 38, 10:  “Nella tua luce vediamo la luce: in lumine tuo videbimus lumen”: enunciato che può essere assunto come ‘principio cognitivo’ qualificativo della ‘cognitio superior’, che va aldilà della ‘ratio’ - e della ‘cogitata species’ della ‘iconologia’  (cfr. VI, 2) [19] -, e rende possibile quella ‘cognitio superior-supernaturalis’ - che è la ‘crédita species (Fidei)’ -, che ‘illumina’ la storia della salvezza, sia essa manifestata dalla ‘galassia verbale’ degli scritti della sacra Scrittura, sia essa espressa dai ‘sacri veli’ della ‘galassia delle immagini’ (di Fede) e dei ‘segni sacramentali’: si ricordi  l’inno eucaristico attribuito a Tommaso d’Aquino “Adoro te devote”: “Iesum quem velatum nunc aspicio”.

            Queste considerazioni, esaminate nei precedenti paragrafi, sono guida - vorrei dire ‘lume’ - per discernere e verificare allo stesso tempo sia la categoria iconoteologica nella storia dell’arte con referente la Fede, sia la validità del discorso sul metodo, che ho già sostanzialmente enucleato  esponendo (negativamente) la insufficienza della ‘iconologia’ panofskiana (cfr. II,1-2; III, 2) e della ‘ermeneutica folosofica’ di Gadamer (cfr. VI, 1-10), e (positivamente) assumendo l’insegnamento del Concilio di Nicea II  (cfr. IV, 1-3, e VII, 1).

            Quale ‘specimen’ illustrativo esamino alcune linee di periodizzazione iconologica-iconoteologica della storia dell’arte, soffermandomi tuttavia in modo più analitico sul periodo precostantiniano, memore dell’insegnamento vichiano: ‘natura delle cose è il loro nascimento’.

VII.2.1   Periodo precostantiniano dell’arte: ‘Ut Evangelium, pictura: come il Vangelo (dell’incarnazione del Figlio di Dio), così la pittura

            Nel periodo precostantiniano [20], lo ‘excessus ad infinitum’ di Dio  è visto non tanto nel ‘sovra-avanzare’ le perfezioni del creato e degli uomini: si abbia presente ‘la via dell’eminenza’ (cfr. VII, 1), quanto nell’eccesso-paradosso dell’abbassamento in Cristo della ‘Parola-Verbo di Dio’ (Giovanni 1, 1) e della sottrazione allo ‘sguardo’ (della ‘ragion pura’, si potrebbe dire) dello “splendore del glorioso Vangelo di Cristo, il quale è l’immagine di Dio’ (2 Corinti 4, 4).

            Paolo ha proclamato a chiare lettere: “Cristo Gesù, sussistendo nella natura di Dio [...], spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo, divenendo simile agli uomini, e, riconosciuto come uomo da tutto il suo esterno, si abbassò facendosi obbediente fino alla morte” (Filippesi 2, 6-8) [21].

            Si noti l’intreccio della ‘conoscenza sensibile’ (o estetica) della ‘natura umana’, e la ‘conoscenza di Fede’ della ‘natura e persona divina’, che non è soltanto ‘conoscenza di livello più alto’ (la ‘cognitio superior’, cioè ‘intellettuale-razionale’, distinta da Baumgarten da quella ‘estetica’: cfr. IV, 1 e V, 1), ma ‘conoscenza di ordine soprannaturale’, che “ci è data da Dio: tradita nobis divinitus” - spiega Tommaso [22].

            Il mistero della vita umile del Redentore viene predicato nella semplicità (e forza) dell’annuncio narrativo-divulgativo (quello del ‘Kérigma’), e viene rappresentato-denotato-connotato dagli artisti precostantiniani, attenti all’ascolto della Buona Novella in conformità filologica a siffatta fonte - Heidegger direbbe allo ‘hören das Wort’ (cfr. VI, 3).

            Tali artisti - fossero pure i non eruditissimi e/o abilissimi ‘fossores’ delle Catacombe romane - hanno avuto la capacità di porre sotto gli occhi dei fedeli episodi salienti dell’azione salvifica del Dio-fatto-uomo, come l’apprendevano dal Vecchio e Nuovo Testamento, nel gioco sia del tipo-prefigurazione-promessa nel tempo della Legge, e dell’antitipo-realizzazione nel tempo della Grazia (cfr. IV, 2); sia del significante metaforico, che pone a confronto le cose divine e spirituali con la ‘similitudine-similitudo brevior’ di cose corporali; sia della ‘polisemia’ dei ‘quattro sensi’: il letterale (o storico), il morale, l’allegorico e l’anagogico (cfr. V, 2).

            Occorre, pertanto, rimemorare (o meglio, ‘rivedere’) la resa pittorica dell’ascolto dell’Evangelo e ‘criticarla’, cioè sottoporla al vaglio che gli artisti hanno operato nella metamorfosi delle ‘immagini acustiche’ del ‘testo’ e/o della ‘predicazione orale della Fede in ‘immagini visive’.

            Quando ‘vediamo’ le immagini presenti nelle Catacombe, noi prendiamo consapevolezza che esse sono state ‘formate’ dai pittori secondo l’asse semantico della ‘iconìa’ (cfr. IV, 2), che distingue e congiunge allo stesso tempo il polo-verbale della fonte scritturistica ed il polo-figurativo che ne ha ‘con-formato’ nella materia pittorica e/o struttiva la immagine acustica.

            Si considerino, ad esempio.

            1. Gli episodi desunti dall’Antico Testamento.

            La vicenda di Susanna, ‘narrata’ con immagini acustiche da Daniele (13, 34ss.), e ‘pitturata’ con immagini ottiche nel Cimitero di Priscilla (Cappella greca); e, aggiungo, con figurazione allegorica: Susanna ‘pecora-agnello’ tra i due vecchioni ‘lupi rapaci’ (come è spiegato nelle iscrizioni-immagini acustiche sovrapposte alle immagini visive) nel Cimitero di Pretestato (arcosolio di Celerina).

            Daniele tra i leoni, episodio, che ‘leggiamo’ in Daniele (6, 17ss.) e ‘vediamo’ nel Cimitero di Pretestato (sottarco di arcosolio).

            Giona sotto la pergola, racconto che ‘apprendiamo’ dall libro di Giona (4, 6ss.), e ‘contempliamo’ nella ‘composizione murale’ del Cimitero di Callisto (cubicolo A2); ecc.

            2. Gli episodi intuìti nel Nuovo Testamento:

            Il Battesimo di Gesù ‘raccontato’ da Matteo (3, 13ss.) è ‘reso visibile’ nel Cimitero di san Callisto (regione di Cornelio); Cristo  fra gli Apostoli, scena consueta nella ‘narrazione’ degli Evangelisti, è ‘rappresentata’ nella Catacomba di Domitilla.

            Il Sermone delle beatitudini, che è  nello ‘scritto’ del vangelo di Matteo (5, 1ss), viene come ‘rispecchiato’ nella metamorfosi di immagini visive nell’Ipogeo degli Aureli.

            Il ‘colloquio’ tra Cristo e la Samaritana, di cui ‘parla’ Giovanni (4, 5ss), è ‘messo in vista’ nel Cimitero di Callisto (cripta A, “dei sacramenti”).

            La Guarigione dell’Emorroissa, della quale ‘rende conto’ Matteo (9, 20-22), è ‘figurata’ con luce e colori sulla parete murale della Catacomba dei santi Pietro e Marcellino.

            La Risurrezione di Lazzaro, ‘tramandata’ dall’evangelista Giovanni (11, 38ss.), è esposta allo sguardo dei visitatori nelle Catacombe dei Santi Pietro e Marcellino.

            La parabola (metafora allegorica) del Buon Pastore, le cui ‘immagini acustiche’ sono suscitate dalla ‘lettura’ del vangelo di Giovanni (10, 11ss.), è nella ‘visione’ che appare nelle Catacombe di San Callisto (cripta di Lucina); ecc. [23].

            Gli artisti, dunque, hanno come ‘luogo di intuizione’ la s. Scrittura [24]. È da questa lettura-ascolto che essi sono ‘mossi’ e danno inizio alla ‘elaborazione(-Gestaltung)’ della forma fantastica-ideale’ - cioè, con parole del Concilio di Nicea II, della: “imaginalis picturae formatio: il dare forma alla pittura icònica” (cfr. IV, 1) -, che si conclude nella produzione della ‘forma’ impressa-espressa nella-dalla materia, ‘voluta’ dalla persona dell’artefice, attuata (appunto) nell’atto cognitivo estetico dallo scritto biblico.

            Tale conoscenza sensibile (per immagine) della Parola rivelata ha ‘perfezione’ nell’uomo-razionale dell’iconopoieta-credente, che l’accoglie nella Fede: la grazia, infatti, eleva e porta a perfezione la natura.

            La Fede, però, è guida direttiva anche del facitore d’immagini non credente, in quanto la conoscenza, sia pure semplicemente filologica della sacra Scrittura e dei documenti della ‘pietas christiana’, lo prorporziona in qualche modo nella sua volontà d’arte a sottoporsi alla iconìa delle immagini visive con le immagini acustiche (ed ‘esemplari’) della Fede, che lo hanno ‘impressionato’ quando ha preso contatto - sia pure in forza della ‘volontà’ dei committenti - con il tema da metamorfosare nella sostanza materica.

            È corretto, pertanto, descrivere l’arte con referente la sacra Scrittura come ‘arte del Libro’: di quello per eccellena, la Bibbia (cfr. IV, 1-3).

            Meno preciso è giudicare tale arte ‘traduzione’ [25]. Le ‘immagini acustiche’ del ‘Libro’ sono infatti ‘metamorfosi per artem’, che è via autonoma nel codificare e cifrare, anche se non è ‘indipendente’ (e non può esserlo), perché ha con il testo della Bibbia riferimento inscindibile: quello insito nella nozione di ‘relazione’ - che non esiste se non v’è rapporto ‘ad aliud’, cioè ad altro termine -, che è ‘relazione specifica’ di ‘similitudine’ (o iconìa) con la storia (appunto) del Vecchio e Nuovo Testamento, come insegnava ed insegna il Concilio di Nicea II (cfr. IV, 3).

            In altre parole, l’artista assume dal Libro il ‘che cosa-was’, cioè il  soggetto; ma è suo (e soltanto suo) ‘il come-wie’, vale a dire  lo stile o artisticità o tecnica; anche se la ‘maniera’ (per usare un termine di G. Vasari) dev’essere assolutamente ‘coerente’ con il tema scritturistico suo ‘correlato’, da cui ha preso l’abbrìvo.

            Si costituisce così tra soggetto proposto dal Libro  e lo stile specchio della persona-artefice una ‘unità’ non accidentale; l’uno: il fare artistico, è il ‘proprio’ che specifica l’attività dell’artefice che intende dare ‘forma’ ad un reale estetico; l’altro: l’agire etico, è il ‘proprio’ immanente all’artista in quanto persona.

            Quando si parla della ‘volontà d’arte’, cioè della intenzione di produrre immagini estetiche, si afferma che l’iconopoieta non fa-opera (ecco l’artisticità!) se non mosso dalla ‘volontà’ (ecco l’eticità!). Dunque, la ‘volontà’ dell’artista-persona, che intende produrre una composizione ’formata’ secondo la ragione dell’arte, non è altra dalla ‘volontà’ della persona-artista che’ immette nel ‘fine dell’opera’ il ‘fine dell’operante’, vale a dire la ragione dell’agire di cui si sente responsabile di fronte alla comunità ecclesiale (cfr. III, 2).

            L’intreccio di intuizione e dipendenza-relazionale dell’iconopoieta dal Libro della Fede - e di responsabilità nel conseguire il pertinente ‘fine dell’opera’ (cfr. sopra) - costituiva la ‘novità’ prìncipe dell’arte, che sorgeva ‘cristiana’ nell’ambiente ‘pagano’.

            L’artista si trovava in cospetto di un ‘locus inventionis’, che proponeva allo stesso tempo immagini sia delle “cose temporali che si vedono: quae videntur temporalia sunt”, sia di “quelle eterne che non si vedono: quae non videntur aeterna sunt” (2 Corinti 4,18) [26].

            L’intuizione-nella Fede, infatti, non poteva rimanere ferma all’intuizione del ‘reale’ naturale, che ‘si vede’ (appunto) con la ‘conoscenza estetico-razionale’: si ricordino le osservazioni sull’iconologia di Panofsky (cfr. II, 1-2), come avveniva presso gli artisti di ascendenza greca; né limitarsi all’intuizione del reale-utile, come ‘volevano’ gli artisti della Roma sia repubblicana che imperiale.

            Nel mondo greco Platone, e poi i neoplatonici - tra i quali ho spesso citato, e come maestro del metodo iconoteologico, Dionigi Areopagita (cfr. VII, 1) -, proclamavano il Bello ‘splendore del Bene’, e quindi concludevano all’equazione ‘il Bello è il Buono’ ed ‘il Buono è il Bene’.

            Pertanto s’instaurava un perenne ‘circolo’: il Bene è ‘fonte’ del bello  e suo ‘fine’, così che il Bello irradiato dal Bene si ‘ri-volge’ e ‘ri-torna’ al Bene mediante la ‘scala catartica’, che dalla ”contemplazione graduale e giusta delle diverse bellezze giunge al grado supremo”; vale a dire: “cominciando dalle bellezze di questo mondo, in vista di quell’ultima bellezza salire sempre per gradini [...], e conoscere all’ultimo gradino ciò che sia questa bellezza in sé, [...] bellezza eterna che non nasce e non muore” [27].

            Ficino, il platonico fiorentino, riprendeva - nel tempo del ritorno-reviviscenza dell’arte classica e dei miti della gentilità - il discorso, che la sacerdotessa Diotima rivolgeva a Socrate sulla scala (che ho chiamata ‘catartica’), includendovi la teologia plotiniana: “Lo occhio non solo cerca il lume sopra le altre cose, ma eziandio cerca il lume solo: se e’ ci piaceranno i corpi, gli Animi, gli Angeli, non ameremo questi proprii: ma Dio in questi: nei corpi ameremo l’ombra di Dio, nelli animi la similitudine di Dio; negli Angeli la immagine di Dio. [...] Così vivendo, perverremo a quel grado che noi vedremo Dio e tutte le cose in lui” [28]. -  Si notino, nel pur breve testo citato, i lemmata riguardanti la visione: lume, vedere, occhio, ombra, immagine, similitudine.

            Aristotele poneva il ‘principio unitario’ della civiltà nell’estetica del bello, visto nella ‘natura’ e nella ‘cultura’. Pertanto l’arte veniva considerata mimèsi della ‘natura’ e mimèsi delle ‘azioni degli uomini’, come si può ‘vedere’ nel giudizio sulla rappresentazione della tragedia, che per lo Stagirita è fonte della ‘catarsia’. “Tragedia è opera imitativa di un’azione seria [...], adatta a suscitare pietà e paura, producendo di tali sentimenti la purificazione [‘kátharsis’]” [29].

            Nei massimi pensatori greci, dunque, nella circolarità del ‘bello-buono: kalà-kàì-agathà’ si compendiano estetica, etica e religione, intesa (quest’ultima) come ‘ricongiungersi di nuovo a Dio: se ipsum Deo relegere’.

            Nel mondo romano il ‘bello naturale’ era come scisso dal ‘bello artistico’, in quanto non veniva ricercato per se stesso e come attività contemplativa - e ‘disinteressata’ (aggiungerebbe E. Kant). Era un certo tipo di civiltà (cultura) che produceva il bello.

            Il romano, infatti, era diretto dal principio del pratico: il giusto, la legge, il buono e (soprattutto) l’utile. Il bello era un sovrappiù, che il romano ricercava - e spesso ‘rapinava’ - presso gli Etruschi, e poi presso i Greci. Tuttavia, nel produrre l’utile o il buono egli raggiungeva per ridondanza il bello, così che si intuiva e si ‘gustava’ un arco-bello, un ponte-bello, una ‘domus-pulchra, o una basilica-bella, ecc. Persino la costituzione dell’Impero era ‘sentita’ come ‘splendor ordinis’ - che è enunciato agostiniano per denotare il bello -, perché effetto dell’azione gratificata dalla ‘voluntas deorum’.

            Ronconi descrive concisamente la differente concezione dell’arte presso i Greci e presso i Romani.

            “Mentre in Grecia l’arte figurativa è parte della paideia e nasce da una contemplazione del bello in sé, per i Romani non rappresenta un’attività degna della ‘virtus’: il ‘bello’ vale solo come immagine del ‘buono’, e perciò Orazio può criticare Alessandro Magno, più esigente con gli artisti che volessero effigiare le sue sembianze che non con i poeti che volessero cantare le sue virtù. [...] Già Catone il Vecchio aveva considerato l’arte un prodotto della mollezza greca. Alla Grecia che si perde nell’amore delle arti figurative, Orazio oppone la Roma primitiva, tutta intesa al diritto, all’economia, alla morale” [30].

            L’intuizione nella Fede, di contro, per essere pertinente al suo soggetto deve  cogliere il livello del reale-rivelato: ‘quello’ che hanno visto ed ascoltato nella Fede i discepoli, che  hanno assistito alle azioni sensibili-visibili-orali di Cristo ‘presente’ in mezzo a loro: “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete - diceva il Maestro a quanti lo seguivano -, ed i vostri orecchi che odono ciò che voi udite” (Matteo 13,  16) -; e ‘quello’ che i fedeli, ora che il Cristo è ritornato presso il Padre. ‘ascoltano’ nella lettura della sacra Scrittura, e ‘vedono’ nelle immagini visive della “Tradizione non scritta” del Vangelo, che  i Padri e i Maestri della Fede hanno ‘voluto’ facendole ‘pitturare’ o ‘scolpire’ o (per così dire) ‘edificare’ (cfr. IV, 1).

            Nel mondo cristiano il bello-naturale in quanto tale è ‘in-proporzionato’ al bello-grazia del Regno di Dio. Di più. I fedeli e gli artisti apprendono  dalla s. Scrittura che la bontà-bellezza originaria della natura e dell’uomo è ‘scaduta’ a causa del peccato. Il bello: quello che si esperisce nell’attuale epoca della storia della salvezza, non può assurgere ad ideale ultimo: ha perso infatti - ci ricorda s. Tommaso - qualcosa della sua ‘armonia’ e del suo ‘decoro’, come si verifica nel corpo quando si ammala e nell’anima quando si pecca [31].

            E però la bellezza-bontà - quella piena e senza deficienza - viene profetizzata e vagheggiata e ‘formata’ nella ‘speranza’.

            Si legga la Lettera di Paolo ai Romani (8, 19-25): “Il creato fu assoggettato alla caducità, non per sua inclinazione, ma per volontà di Colui, che l’assoggettò, però con la speranza che anche le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio. Noi sappiamo infatti che fino a ora tutto intero il creato insieme geme e soffre le doglie del parto: omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc. Né soltanto esso, ma amche noi stessi [...]. Solo in speranza noi siamo già salvati [...]. Ma se aspettiamo ciò che non vediamo, noi l’aspettiamo con paziente attesa”.

            L’estetica dei discepoli del Vangelo è ‘vista’, dunque, nella futura  ‘restaurazione’, sia quella della Terra e del Cielo, quali Dio li contemplò nel primo istante della creazione e quando proclamò che tutto era ‘tôb: buono-bello’: “Et vidit Deus quod esset bonum. [...] Viditque Deus cuncta quae fecerat, et erant valde bona” (Genesi 1, 2-31); sia quella dell’uomo, fatto a ‘immagine e somiglianza’ del Creatore (Genesi 1, 26-28).

            Nell’attesa, il discepolo del Signore riceve ‘bellezza-grazia’ dalla redenzione operata da Cristo con i ‘gemiti’ e  con la sofferenza  della passione e della morte sulla Croce. Pertanto l’estetica gloriosa ha già inizio nella “novità della vita”, che è donata nel battesimo, in cui si è ‘innestati’ alla morte di Cristo e, contemporaneamente, alla sua risurrezione  (Romani 6, 5-11).

            Abbiamo dunque il paradosso che il bello della creazione è inquinato dal ‘brutto’ del peccato; e il brutto della Croce (la ‘ignominia Crucis’)  è ‘bellezza e bontà’ perché ‘chiama’: si ricordi  che in greco bello-kalós significa, appunto, ‘ciò che chiama’ (cfr. VII, 1), ed attira per la manifestazione dell’amore divino e dei suoi effetti ‘belli’, che sono la grazia-santità  e la partecipazione alla vita di Dio-‘sopra-bello’ nel “cielo nuovo e terra nuova” (2 Pietro 3, 13). Cfr. V, 1-2.

            Tali immagini, prodotte dagli artisti, venivano ‘gustate’ dai credenti nella loro ‘espressione bella-buona’, e piaceva vedere in esse la ‘catarsìa’ e la ‘energia divina’ dell’Evangelo, bello e buono annunzio (cfr. V, 1).

            Giovanni Damasceno, il grande teologo della ‘iconodulìa’, lo attesterà   nel momento cruciale della lotta sulla liceità del culto delle immagini descrivendo la personale esperienza.

            Egli poneva ‘davanti ai suoi occhi: ob oculos meos pono’ le immagini - e le enumerava: ‘immagini’ di Dio che si è incarnato, di Maria madre del Figlio di Dio, dei Santi che effondendo il sangue hanno ‘imitato’ Cristo -, perché ne riceveva stimolo a ‘formare’ in se stesso (quasi ‘artista’ del proprio spirito) l’Immagine di Cristo e dei suoi Amici, partecipandone ‘grazia’ e ‘santità’ [32].

            A circa ottant’anni dalla morte del Damasceno, i Padri del Niceno II ampliavano e davano autorità alla considerazione di Giovanni di Damasco affermando: “Quanto più frequentemente si vedono le immagini formate dall’arte, tanto più coloro che le contemplano sono vivacemente indotti a far memoria dei prototipi e ad averne desiderio: Quanto enim frequentius per imaginalem formationem videntur, tanto qui has contemplantur, alacrius eriguntur ad primitivorum earum memoriam et desiderium [33].

            Dunque, l’espressione artistica delle immagini, ‘intenzionata’ secondo l’iconìa di Fede, non solo non veniva inficiata (cfr. V, 1), ma assurgeva a fonte e circostanza di elevazione dell’animo ai misteri divini: così come  è ‘elevatio mentis in Deum’ la preghiera.


[18] Mi riferisco ad un prezioso testo di Dionigi, commentato da Tommaso, in cui la “verità della s. Scrittura” viene  descritta come “peculiare lume’. Tale descrizione conviene per analogia - quella che è indicata dai Padri del Niceno II - anche alla ‘verità della visione’, che risplende nelle opere d’arte che dipendono dalla Fede e la ‘esprimono’. Cfr. Thomas Aq.,  In librum b. Dionysii de div. nom., cit., lib. I, cap. I, lectio I, n. 11, p. 7: “Veritas sacrae Scripturae est quoddam lumen per modum radii derivatum a prima Veritate, quod quidem lumen non se extendit ad hoc quod per ipsum possimus videre Dei essentiam aut cognoscere omnia quae Deus in seipso cognoscit aut angeli aut beati eius essentiam videntes, sed usque ad aliquem certum terminum vel mensuram, intelligibilia divinorum, lumine sacra Scripturae manifestantur”.

[19] Ho dedotto il sintagma ‘cogitata species’ dalla riflessione di Panofsky sul testo ciceroniano dell’Orator ad Brutum (II, 7 e ss.), in cui  vien spiegato che Fidia nel dare forma a Giove o a Minerva non ‘contemplava’ un ‘esemplare’  a lui esterno, ma l’esemplare da lui escogitato, che aveva esistenza nel suo animo: “in mente insidebat’, e ne dirigeva la mano.  Cfr. E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Trad. di Edmondo Cione, La Nuova Italia ed., Firenze 1975, pp. 9-10, 101-102.. In analogia a  siffatto sintagma ‘cogitata species’ si può coerentemente indicare l’esemplare interiore dell’artista credente come ‘crédita species’, cioè immagine fantastica che è stata ‘pensata’, e quindi riportata alla ‘cognitio superior’ e spiritualmente ‘considerata’ nella Fede e con Fede, e quindi ‘creduta’ e riportata alla  conoscenza-intellettuale-soprannaturale’, come detto nel testo.

[20] Sulla questione delle immagini anteriormente al Concilio di Nicea II, cfr. A. Quacquarelli, La società cristologica prima di Costantino e i riflessi nelle arti figurative, Quaderni di ‘Vetera Christianorum’ n. 13, Ist. di letteratura cristiana antica, Bari 1978; E. Kitzinger, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo delle origni all’Iconoclastia, La Nuova Italia ed., Scandicci (Fi) 1992. - Per una trattazione generale sulle immagini-arti visive cfr. D. Menozzi, Les images. L’Église et les arts visuels, Les Éditions du Cerf, Paris 1991; M. Brusatin, Storia delle immagini, G. Einaudi ed., Torino 1989: questa ‘storia’, che non è in alcun modo ‘iconoteologica’ (anzi, è più che imprecisa quando accenna ad immagini pertinenti al dominio della Fede) offre grande interesse per il rapporto che istituisce tra parole-immagini. Si veda ad esempio l’interpretazione del mito del giovane Narciso e della ninfa Eco, che rivela “il  gioco delle immagini che non possono aver voce e delle parole che non si possono vedere; cioè il distacco e l’assoluta specularità delle due maggiori invenzioni dell’uomo tanto simili e diverse: le parole e le immagini”, quasi “iconologomachia” (p. XVI). Conclusione, tuttavia, che non accetto se - al di là del mito ‘Narciso-Eco’ - la si vuole universalizzare. Ritengo infatti che tra la parola ‘detta’ e l’immagine ‘espressa’ con segni visivi si costituisca un asse semantico, che distingue ed unisce l’estremo ‘verbalizzato’, vale a dire la fonte letteraria, con l’estremo ‘forma figurativa’, che pone in luce e colori  la relativa immagine acustica, che connota non “iconologomachia” ma ‘iconologofilia’.Cfr. IV, 2-3.

[21] Faccio notare che nel passo paolino, letto in latino ed in greco, riscontriamo nei suoi lessemi - si ricordi il principio ermeneutico di Heidegger: “ascoltiamo la parola” (cfr. VI, 3 - un linguaggio pertinente anche alla ‘lingua  pittorica’. Ad esempio:  “natura di Dio:  forma Dei-morphê theoû”; “natura di un servo: forma servi-morphê doúlou”; “simile agli uomini: in similitudinem hominum factus-ev omoiômati anthrôpôv genómenos”; “riconosciuto uomo dall’esterno: habitu inventus ut homo-schêmati euretheis ôs anthrôpos”.

[22] Thomas Aqu., Summa th., I p., q. 32, a. 4: “Ad fidem pertinent aliquid [...] directe, sicut ea quae nobis sunt principaliter divinitus tradita, ut Deum esse trinum et unum, Filium Dei esse incarnatum, et huiusmodi”.- Cfr.quanto detto nei confronti dell’ermeneutica di Gadamer in VI, 3-5.

[23] Non mi prolungo in citazioni iconografiche (consultabili in buoni manuali) e bibliografiche. Rimando (a modo di esempio) ai seguenti autori: Pasquale Testini, Le Catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Cappelli Ed., Bologna 1966;  André Grabar, L’arte paleocristiana (200-395), Feltrinelli ed., Milano 1967; Antonio Quacquarelli, La società cristologica prima di  Costantino e i riflessi nelle arti figurative, Istituto di letteratura cristiana anntica, Bari 1978; André Grabar, Christian Iconografphy, A Study of its Origins, Princeton University Press, Princeton. New Jersey, 1980.

[24] Richiamo (una per tutte) la testimonianza dell’archeologo Fabrizio Bisconti (L’arte della penombra): “La grande novità del repertorio iconografico proposto dalla pittura catacombale proviene dal linguaggio biblico, che seleziona quegli episodi, che, in maniera paradigmatica, svolgono la materia soterica. Si frequentano specialmente le situazioni neotestamentarie di guarigione e risurrezione, con riferimento speciale agli episodi del paralitico, del cieco nato, dell’emorroissa e di Lazzaro; si rievocano i prodigi salvitici del Vecchio Testamento, che ebbero come protagonisti Giona, Noè, Daniele, Susanna, Abramo, i tre fanciulli di Babilonia”: in “Arte e teologia”, a c. di Ermanno Genre e Yan Redalié, Ed. Claudiana, Torino 1997, p. 47.

[25] Usano questo lemma ’traduzione’ molti storici dell’arte; ad es. André Grabar, Le vie della creazione nell’iconografia cristiana. Antichità e Medioevo, Jaca Book, Milano 1983 [: quetsa edizione riprende parte sia dell’ed. Christian Iconography, cit., sia dell’ed. francese Flammarion, Paris 1979], p. 9: “Questo libro è dedicato [...] all’interpretazione dei temi cristiani per mezzo dell’immagine, o, più esattamente al modo di tradurre per mezzo dell’immagine temi ispirati alla religione cristiana”.  Quel “per mezzo” e “tradurre” possono indurre a catalogare la ‘iconografia’ come branca accidentale al ‘reale artistico in quanto artistico’, perché descritta da un metodo esteriore. Cfr. quanto dico nel testo; e in II, 1-2, in particolare sul ‘durch-per mezzo’, cui fa ricorso E. Panofky, e sul ‘traduire’ di D. Arasse. (nota 28).

[26] Ancora una volta denunzio l’incapacità di alcuni storici nel discernere che l’esame della ‘forna’ dell’opera d’arte richiede solo ‘distinzione’ e non ‘separazione’ degli schemi formali (preiconografia), schemi semantici (iconografia) e schemi simbolici (iconologia/iconoteologia). Nicole Dacos, ad esempio, scevera “due orientamenti metodologici fondamentali della critica storico-artistica”, e cioè “l’orientamento dell’iconografo e quello del conoscitore”; attribuendo, ma arbitrariamente - voglio dire non vagliando le analisi ‘effettuali’ (direbbe Machiavelli) compiute dagli storici ‘iconologi’, quali E. Panofsky -, all’ìconografo di estraniarsi dall’analisi dell’opera d’arte in quanto tale perché si limiterebbe ad “evocazioni culturali”, e ravvisando nel solo ‘conoscitore’ lo storico “aderente allo specifico campo artistico”: cfr. Nicole Dacos, Arte italiana e arte antica, in “Storia dell’arte italiana”, vol. III, G. Einaudi ed., Torino 1979, pp. 6-9. - Quanto siffatte considerazioni ‘metodologiche’ siano ‘astrazioni’ dal reale dell’opera d’arte lo connotano le osservazioni che ho svolte e sto svolgendo, e che ho giustificate nei paragrafi: I, 2 (‘unità dell’atto critico’), II, 1-2 (‘critico ed iconologia), e  III, 1-3 (critico ed iconoteologia). Cfr. anche E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento. G. Einaudi ed., Torino 1975, pp. 9-20: ove, dopo aver distinto l’oggetto della iconografia in “tre sfere”: 1. descrizione preiconografica, che è analisi pseudo formale del mondo dei motivi artistici; 2. analisi iconografica, che costituisce il mondo delle immagini, delle storie e delle allegorie; 3. interpretazione iconologica, che ha come referente il mondo dei valori “simbolici”, che è ‘sintesi iconografica’, il Maestro warburgiano conclude che le tre sfere “hanno in realtà riferimento ad aspetti diversi di un fenomeno unico, e precisamente l’opera d’arte nella sua totalità”, e che “i metodi di approccio che qui appaiono com tre operazioni irrelate di ricerca si fonderanno l’un l’altro come un unico e indivisibile processo organico”. Pertanto il ‘conoscitore’, di cui parla Dacos, non compirebbe che la descrizione ‘preiconografica’ (e per di più “pseudo formale”): che è chiaramente una concezione ‘insufficiente’ del compito dello storico-critico d’arte, e per nulla “aderente allo specifico campo artistico”.

[27] Platone, Simposio, 207-213. - Si abbia presentte il ‘desiderium videndi Deum’, sul quale si soffermano e discutono filosofi e teologi.

[28] Marsilio Ficino, Sopra lo Amore, ovvero Convito di Platone, ES ed., Milano 1992, cap. 19, pp. 132-133.

[29] Aristotele, Dell’arte poetica, a c. di Carlo Gallavotti, A. Mondadori ed., Milano 1978, p. 19 (6, 2).

[30] Alessandro Ronconi, LetteraturalLatina pagana, Sansoni ed. Firenze 1960, pp. 120-121.

[31] Thomas Aq.,  In librum beati Dionysii de divinis nominibus, cit, cap. 1, lect. II, n. 59, p. 19: “Per hoc quod diminuitur aliquid de harmonia vel decore, accidit corruptio in rebus, secundum excessum a propria natura, sicut aegritudo in corporibus et peccatum in anima”.

[32] Giovanni Damasceno, De imaginibus orationes, Oratio 1, n. 21, in Migne, Ser. Graeca, t. 94, col. 1252D: “Imaginem Christi adoro, prout Deus est incarnatus; Deiparae item omnium Dominae [...]; sanctorum quoque. qui amici Dei sunt, quique [...] sanguinem pro Christo fundentes, ipsum imitati sunt [...]  Horum praeclare gesta cruciatusque picturis expressa, ob oculos meos pono, per quae sanctus evado atque imitandi studio inardesco”.

[33] Cfr. Conciliorum oec. decreta, [Terminus], cit, p. 136.

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