La terra
P ARTE TERZA |
g Diario minimo di un viaggiatore
Albori tenui sgrossano la notte,
disfano il chiarore delle stelle.
Piano si anima il Caffè d'Oriente
dove aspettano l'ACOTRAL
e fingono allegria,
celiando col barista e la cassiera,
straniati e tristi tre travet.
Sostano quindi alla fermata,
si sbertucciano schernendo Juve o Inter
prima che il 38/2,
risalendo assonnato Via del Corso,
li fagociti distrattamente per
portarli altrove, oltre
le Antiche Mura.
Sciamano in fretta dal piazzale,
radendo strisce pedonali,
assorti e solitari pendolari.
Più in là svoltano e
spariscono.
Alla mia volta cerco il coraggio anch'io
prima d'infilarmi, sconosciuto,
nell' intrico aggrovigliato delle strade.
Con il foglio di via
salgo a bordo del giorno
ché mi traghetti a sera, anche oggi
viaggiatore clandestino
dentro la mia stessa vita.
g Uccello migratore perso al vento
La notte distilla silenzi e attese,
a guado, inquiete, tornano memorie.
Sul quadrante dell'orologio a muro
lente salpano le ore verso l'alba
naufraghe al sogno di cobalto e luce.
Qui, tra pareti assorte e stupefatte,
come il ragno immemore e tenace
anch'io fallaci reti tendo ai sogni
e aspetto.
Ma le farfalle illudono
la notte (abbracci promisero ai rosai)
e inesorabilmente il tempo sfalda
certezze e accordi, calici corrompe:
il giorno sarà sangue e lunghi artigli
luce decomposta, disarmonia
che lacera presepi e redenzioni.
Ahi! fiumi, messaggeri della Terra,
dov'è ora l'Eden e perché scolora
l'azzurro delle vostre vene in minio?
Bruciano le città del mondo e alti
crepitano fuochi e ampolle d'odio.
Già s'invera il presagio della notte
ed io ritrovo intatta la mia pena,
uccello migratore perso al vento,
straniero ai cieli ed alle rotte amiche.
Invano cerco approdi oltre le nebbie
e ignoti e incerti séguito orizzonti.
Confusamente stretto alla mia resa,
smarriti viaggiatori insieme andiamo.
E non sappiamo,
non sappiamo dove.
Fu ìl torchio a dare al nettare misura
e il gusto dolce amaro
dei giorni consumati.
Ecco perché
scordai quasi del tutto le conchiglie,
i papaveri l'erba il novilunio,
ma non potei scordare la partenza
di mio padre verso altre stazioni (lui,
per gioco, non rispose al mio saluto)
né il ritorno dai campi di mia madre,
stremata di fatica e di coraggio.
Lo so che pure il petalo (e perfino
l'oro del grano) ha vuoti di memoria.
Ma Isacco non potrà dimenticare
il suo martirio, che non fu promessa
di supplizio, ma il Dio lungamente
indifferente alla sua pena.
Così,
ostaggio consegnato al nuovo giorno,
anch'io tradito sconto la mia croce,
tenacemente avvinto al girasole
e invano aspetto il polline nel vento
che insemini i miei grani d'utopia.
Già incombe un'altra notte,
con le rotte insensate della luna
e stelle intente all'ultima impostura.
Domani corpi accatastati e inerti
intralceranno il solito week-end.
Ci chiama l'alba a recitare un altro
assurdo e insano gioco delle parti.
g Tenace ho un sogno antico da sognare
Nuovi calvari attendono altri Cristi
con stazioni di croci e d'abbandono
(anime perse inermi ad aspettare
miracoli di calici redenti
intatto il sangue indenne la memoria).
Declina un altro sole
e questo è il dono amaro e acuminato
che il giorno porta in dote alla mia sera.
Non credo nella notte che blandisce
mostri e preannuncia splendidi mattini:
prima che il gallo canti
nel buio avrò silenzi sterminati
profondi neri abissi da scalare
un'alba lontanissima e sospesa.
Il giorno ha lunghe dita di carminio
e gridi inascoltati nei sudari.
Già la sete inesausta di Caino
depone sugli altari sconsacrati
ostie innocenti, carne palpitante
con i falsi profeti all'impostura.
Ma io non credo in nessun dio tremendo
in nessun dio Signore degli Eserciti
né in alcun Angelo Sterminatore.
Prima che il gallo canti un'altra volta
tenace ho un sogno antico da sognare
superstite ai naufragi e alle tempeste:
vorrei tornare, ignaro, a Babilonia
(Eden perduto ai fuochi e al sortilegio)
prima che sulla torre interminata
il vento disperdesse le parole.
Prima che il gallo canti un'altra volta
e un'altra volta avrà trafitto il cuore
questo io vorrei soltanto:
tornar fanciullo a Nazareth com'era
(ancora ignoti il bacio ed il Getsemani)
e lì fermare il tempo ed il dolore.
g Ignoto mi fu il grido della rosa
Non so quale dolore ancora manchi
a questa vita arresa ai girasoli.
Eppure su lunari balconate
ho attraversato le Orse e l'Aquilone,
inappagato Ulisse cercatore,
tessendo rotte indocili agli approdi
oltre i confini angusti della terra.
Io, giocatore audace di me stesso,
Icaro ardito perso in cieli azzurri,
avevo alla faretra frecce d'oro,
tesa la curva dell'arcobaleno.
Negli occhi ho avuto soli e pleniluni
e ignoto mi fu il grido della rosa
crocifissa nel vento dell'autunno
(il nero nel mio cielo fu il blu notte
e il rosso solo melograno e porpora).
Ora redimo giorni e scalo abissi,
tomo al martirio antico della terra,
alla fatica eterna dei suoi fiumi
(serbo conchiglie e serti di corallo,
memorie spente e vive di naufragi).
g Già insidiano il crepuscolo
È ormai memoria l'isola del giorno
che rapido declina.
Già insidiano il crepuscolo
i semi dell'assenza.
Atteso ad altri transiti rivedo
il me bambino e voi,
segreti Lari, trepidi custodi,
ombre tenaci a presidiare il Tempo,
struggenti meridiane dell'attesa.
- Madre, non ho saputo dare fiori
alle tue mani esauste,
né luci alle tue lunghe notti inquiete.
Ancora mi addolorano i tuoi occhi
- stremate stelle al cielo delle veglie
per quel ragazzo arreso alle chimere.
Ora calvari salgo
e anelo immeritate redenzioni.
Trasmuto piano in ali di falena.
La strategia del ragno
non premia la tenacia della tela,
ma il volo smemorato di farfalla.
Così la notte e le sue perse rotte,
che sghembo il frullo aspettano
di esausti uccelli migratori, in viaggio
verso una nuova Terra.
Generoso è il vento
- soffio d'Eterno?
che in pegno non ci chiede
altro che la promessa del ritorno,
quando la pietra sarà un grido e noi
pane raffermo alle radici e all'erba.
g Fu piuttosto l'anello che mancava
No, non fu certo il sole
con l'assordante luce dell'estate
né il plenilunio, algido
fuoco, chiuso teorema adamantino,
non la perfetta geometria dei mondi.
Fu piuttosto l'anello che mancava
l'acqua spenta marcita nella gara,
la grazia che vanisce
(disarmonia fatale
la bellezza effimera dell'iride!).
E di più ancora fu
il lampo abbacinato della rosa,
il suo supplizio in atomi ossidati,
a dissolvere l'incubo del dubbio,
perché senza dolore
neppure in Dio può aversi Perfezione.
E in questo ripercorrere calvari
anch'io (s)conto stazioni senza fine,
randagio e nudo Cristo sconosciuto.
M'inchioderanno alla mia croce ed io
solo così sarò promesso ai cieli,
solo così ritornerò, salvato,
alla misura esatta della luce.
g Sinestesia dell'autunno
Fuori li sento cigolare,
stremati avanzano carretti
scheggiando pietre antiche.
Bambini vociano.
Sciama lungo i vicoli assopiti, aspra
dolcezza, intenso il balsamo del mosto:
so che la terra è buona,
santo il sospiro affranto di mia madre,
forti le mani attorte di mio padre
(complici salde e tenere dei tralci)
il suo silenzio che sovrasta i gridi.
Avremo sere quiete
abbarbicati al fuoco magro dei camini,
incerta luce al vivere dei giorni.
Di più ci scalderà
- fiamma segreta,
con il grano che canta nella madia
la porpora splendente delle vigne,
linfa che torna in atomi di sole
a scaglie brevi e vivide d'azzurro.
Al vostro grido e a quello della terra
apro finestre a preparare abbracci.
Ma è un altro tempo e voi,
voi non ci siete.
È solo il me bambino,
testardo fiore di settembre che
non vuole,
non vuol proprio saperne della resa.
g Non so se adesso il giorno abbia memorie
Non so se adesso il giorno abbia memorie
né se la notte porti altre chimere
(fiori di loto e lune tramontate
calarono sipari d'ombre e fumo
muri alzarono contro l'orizzonte).
Non hanno sogni i vecchi, né più fuochi.
Non rammentano voli e più non sanno
se fu il verde dei monti o il blu del mare
a sciogliere i tramonti in fondo agli occhi,
se furono le allodole o i gabbiani
a volare sul filo delle aurore
(e le mani che strinsero tremanti
ragazze dalle labbra d'albicocca
le levigò la gomena agli approdi
oppure il grano e l'uva delle vigne?).
Fu lungo il giorno, dura la fatica.
Quanti rosai si arresero agli autunni
quanti sorrisi consumò il dolore.
Ora è già sera e i vecchi, il passo incerto,
risalgono la china delle stelle
e annotano le rotte della luna.
E noi che non sappiamo più volare,
noi che perduto abbiamo tenerezze,
assenti e indifferenti li lasciamo
randagi e soli ai margini del cuore.
Ma i vecchi hanno alla fonda barche azzurre
e tessono segretamente vele
da issare al vento verso un'altra riva.
Ci affascinava il sangue dei papaveri,
il volo atomizzato dei soffioni.
Immobile il ramarro
- epifania del tempo consumato -
nell’assolata ombra degli sterpi,
indenne alle memorie e alle stagioni.
Abbacinata estate
che torni con un soffio di malia
a seminare scampoli di sole,
vorrei poter giocare ancora, libere
le rotte ad ali d’Icaro innocente,
come allora.
Ma in questo labirinto
di case asserragliate - falsi alveari -
scaliamo cieli di cemento e ferro,
incapsulati in logore astronavi
a illuderci di evadere dai muri.
Ed ogni volta breve
è il volo, e l’esilio dura ancora.
Accosta l’uscio, cara,
fuori è un giorno
scuro, grumo di luce ingannatrice.
Ritorneremo ai freschi fontanili
con la testarda voglia dei bambini.
La nostra redenzione è unicamente
in questo arcano volgere di boa,
trepido approdo a un tempo che ci salva.
fine
di "La terra irraggiungibile"