Umberto Vicaretti

La terra
irraggiungibile

P ARTE TERZA
Diario minimo di un viaggiatore

g Diario minimo di un viaggiatore

Albori tenui sgrossano la notte,

disfano il chiarore delle stelle.

Piano si anima il Caffè d'Oriente

dove aspettano l'ACOTRAL

e fingono allegria,

celiando col barista e la cassiera,

straniati e tristi tre travet.

Sostano quindi alla fermata,

si sbertucciano schernendo Juve o Inter

prima che il 38/2,

risalendo assonnato Via del Corso,

li fagociti distrattamente per

portarli altrove, oltre

le Antiche Mura.

Sciamano in fretta dal piazzale,

radendo strisce pedonali,

assorti e solitari pendolari.

Più in là svoltano e

spariscono.

Alla mia volta cerco il coraggio anch'io

prima d'infilarmi, sconosciuto,

nell' intrico aggrovigliato delle strade.

Con il foglio di via

salgo a bordo del giorno

ché mi traghetti a sera, anche oggi

viaggiatore clandestino

dentro la mia stessa vita.


g Uccello migratore perso al vento

La notte distilla silenzi e attese,

a guado, inquiete, tornano memorie.

Sul quadrante dell'orologio a muro

lente salpano le ore verso l'alba

naufraghe al sogno di cobalto e luce.

Qui, tra pareti assorte e stupefatte,

come il ragno immemore e tenace

anch'io fallaci reti tendo ai sogni

e aspetto.

                   Ma le farfalle illudono

la notte (abbracci promisero ai rosai)

e inesorabilmente il tempo sfalda

certezze e accordi, calici corrompe:

il giorno sarà sangue e lunghi artigli

luce decomposta, disarmonia

che lacera presepi e redenzioni.

Ahi! fiumi, messaggeri della Terra,

dov'è ora l'Eden e perché scolora

l'azzurro delle vostre vene in minio?

Bruciano le città del mondo e alti

crepitano fuochi e ampolle d'odio.

Già s'invera il presagio della notte

ed io ritrovo intatta la mia pena,

uccello migratore perso al vento,

straniero ai cieli ed alle rotte amiche.

Invano cerco approdi oltre le nebbie

e ignoti e incerti séguito orizzonti.

Confusamente stretto alla mia resa,

smarriti viaggiatori insieme andiamo.

E non sappiamo,

                              non sappiamo dove.


g Fu il torchio

Fu ìl torchio a dare al nettare misura

e il gusto dolce amaro

dei giorni consumati.

                                     Ecco perché

scordai quasi del tutto le conchiglie,

i papaveri l'erba il novilunio,

ma non potei scordare la partenza

di mio padre verso altre stazioni (lui,

per gioco, non rispose al mio saluto)

né il ritorno dai campi di mia madre,

stremata di fatica e di coraggio.

Lo so che pure il petalo (e perfino

l'oro del grano) ha vuoti di memoria.

Ma Isacco non potrà dimenticare

il suo martirio, che non fu promessa

di supplizio, ma il Dio lungamente

indifferente alla sua pena.

                                               Così,

ostaggio consegnato al nuovo giorno,

anch'io tradito sconto la mia croce,

tenacemente avvinto al girasole

e invano aspetto il polline nel vento

che insemini i miei grani d'utopia.

Già incombe un'altra notte,

con le rotte insensate della luna

e stelle intente all'ultima impostura.

Domani corpi accatastati e inerti

intralceranno il solito week-end.

Ci chiama l'alba a recitare un altro

assurdo e insano gioco delle parti.


g Tenace ho un sogno antico da sognare

Nuovi calvari attendono altri Cristi

con stazioni di croci e d'abbandono

(anime perse inermi ad aspettare

miracoli di calici redenti

intatto il sangue indenne la memoria).

Declina un altro sole

e questo è il dono amaro e acuminato

che il giorno porta in dote alla mia sera.

Non credo nella notte che blandisce

mostri e preannuncia splendidi mattini:

prima che il gallo canti

nel buio avrò silenzi sterminati

profondi neri abissi da scalare

un'alba lontanissima e sospesa.

Il giorno ha lunghe dita di carminio

e gridi inascoltati nei sudari.

Già la sete inesausta di Caino

depone sugli altari sconsacrati

ostie innocenti, carne palpitante

con i falsi profeti all'impostura.

Ma io non credo in nessun dio tremendo

in nessun dio Signore degli Eserciti

né in alcun Angelo Sterminatore.

Prima che il gallo canti un'altra volta

tenace ho un sogno antico da sognare

superstite ai naufragi e alle tempeste:

vorrei tornare, ignaro, a Babilonia

(Eden perduto ai fuochi e al sortilegio)

prima che sulla torre interminata

il vento disperdesse le parole.

Prima che il gallo canti un'altra volta

e un'altra volta avrà trafitto il cuore

questo io vorrei soltanto:

tornar fanciullo a Nazareth com'era

(ancora ignoti il bacio ed il Getsemani)

e lì fermare il tempo ed il dolore.


g Ignoto mi fu il grido della rosa

Non so quale dolore ancora manchi

a questa vita arresa ai girasoli.

Eppure su lunari balconate

ho attraversato le Orse e l'Aquilone,

inappagato Ulisse cercatore,

tessendo rotte indocili agli approdi

oltre i confini angusti della terra.

Io, giocatore audace di me stesso,

Icaro ardito perso in cieli azzurri,

avevo alla faretra frecce d'oro,

tesa la curva dell'arcobaleno.

Negli occhi ho avuto soli e pleniluni

e ignoto mi fu il grido della rosa

crocifissa nel vento dell'autunno

(il nero nel mio cielo fu il blu notte

e il rosso solo melograno e porpora).

Ora redimo giorni e scalo abissi,

tomo al martirio antico della terra,

alla fatica eterna dei suoi fiumi

(serbo conchiglie e serti di corallo,

memorie spente e vive di naufragi).


g Già insidiano il crepuscolo

È ormai memoria l'isola del giorno

che rapido declina.

Già insidiano il crepuscolo

i semi dell'assenza.

Atteso ad altri transiti rivedo

il me bambino e voi,

segreti Lari, trepidi custodi,

ombre tenaci a presidiare il Tempo,

struggenti meridiane dell'attesa.

- Madre, non ho saputo dare fiori

alle tue mani esauste,

né luci alle tue lunghe notti inquiete.

Ancora mi addolorano i tuoi occhi

- stremate stelle al cielo delle veglie ­

per quel ragazzo arreso alle chimere.

Ora calvari salgo

e anelo immeritate redenzioni.

Trasmuto piano in ali di falena.

La strategia del ragno

non premia la tenacia della tela,

ma il volo smemorato di farfalla.

Così la notte e le sue perse rotte,

che sghembo il frullo aspettano

di esausti uccelli migratori, in viaggio

verso una nuova Terra.

Generoso è il vento

- soffio d'Eterno? ­

che in pegno non ci chiede

altro che la promessa del ritorno,

quando la pietra sarà un grido e noi

pane raffermo alle radici e all'erba.


g Fu piuttosto l'anello che mancava

No, non fu certo il sole

con l'assordante luce dell'estate

né il plenilunio, algido

fuoco, chiuso teorema adamantino,

non la perfetta geometria dei mondi.

Fu piuttosto l'anello che mancava

l'acqua spenta marcita nella gara,

la grazia che vanisce

(disarmonia fatale

la bellezza effimera dell'iride!).

E di più ancora fu

il lampo abbacinato della rosa,

il suo supplizio in atomi ossidati,

a dissolvere l'incubo del dubbio,

perché senza dolore

neppure in Dio può aversi Perfezione.

E in questo ripercorrere calvari

anch'io (s)conto stazioni senza fine,

randagio e nudo Cristo sconosciuto.

M'inchioderanno alla mia croce ed io

solo così sarò promesso ai cieli,

solo così ritornerò, salvato,

alla misura esatta della luce.


g Sinestesia dell'autunno

Fuori li sento cigolare,

stremati avanzano carretti

scheggiando pietre antiche.

Bambini vociano.

Sciama lungo i vicoli assopiti, aspra

dolcezza, intenso il balsamo del mosto:

so che la terra è buona,

santo il sospiro affranto di mia madre,

forti le mani attorte di mio padre

(complici salde e tenere dei tralci)

il suo silenzio che sovrasta i gridi.

Avremo sere quiete

abbarbicati al fuoco magro dei camini,

incerta luce al vivere dei giorni.

Di più ci scalderà

                            - fiamma segreta,

con il grano che canta nella madia ­

la porpora splendente delle vigne,

linfa che torna in atomi di sole

a scaglie brevi e vivide d'azzurro.

Al vostro grido e a quello della terra

apro finestre a preparare abbracci.

Ma è un altro tempo e voi,

                                       voi non ci siete.

È solo il me bambino,

testardo fiore di settembre che

non vuole,

non vuol proprio saperne della resa.


g Non so se adesso il giorno abbia memorie

Non so se adesso il giorno abbia memorie

né se la notte porti altre chimere

(fiori di loto e lune tramontate

calarono sipari d'ombre e fumo

muri alzarono contro l'orizzonte).

Non hanno sogni i vecchi, né più fuochi.

Non rammentano voli e più non sanno

se fu il verde dei monti o il blu del mare

a sciogliere i tramonti in fondo agli occhi,

se furono le allodole o i gabbiani

a volare sul filo delle aurore

(e le mani che strinsero tremanti

ragazze dalle labbra d'albicocca

le levigò la gomena agli approdi

oppure il grano e l'uva delle vigne?).

Fu lungo il giorno, dura la fatica.

Quanti rosai si arresero agli autunni

quanti sorrisi consumò il dolore.

Ora è già sera e i vecchi, il passo incerto,

risalgono la china delle stelle

e annotano le rotte della luna.

E noi che non sappiamo più volare,

noi che perduto abbiamo tenerezze,

assenti e indifferenti li lasciamo

randagi e soli ai margini del cuore.

Ma i vecchi hanno alla fonda barche azzurre

e tessono segretamente vele

da issare al vento verso un'altra riva.


g L’esilio dura ancora

Ci affascinava il sangue dei papaveri,

il volo atomizzato dei soffioni.

                                Immobile il ramarro

- epifania del tempo consumato -

nell’assolata ombra degli sterpi,

indenne alle memorie e alle stagioni.

                             Abbacinata estate

che torni con un soffio di malia

a seminare scampoli di sole,

vorrei poter giocare ancora, libere

le rotte ad ali d’Icaro innocente,

come allora.

                        Ma in questo labirinto

di case asserragliate - falsi alveari -

scaliamo cieli di cemento e ferro,

incapsulati in logore astronavi

a illuderci di evadere dai muri.

                           Ed ogni volta breve

è il volo, e l’esilio dura ancora.

Accosta l’uscio, cara,

                                     fuori è un giorno

scuro, grumo di luce ingannatrice.

Ritorneremo ai freschi fontanili

con la testarda voglia dei bambini.

La nostra redenzione è unicamente

in questo arcano volgere di boa,

trepido approdo a un tempo che ci salva.


Fortezza nel deserto. Scrutano all'orizzonte ospiti sconosciuti, tra le mura riducono schiavi ospiti benemeriti (cf. Sap. 19,14)
fine
di "La terra irraggiungibile"

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