La terra
PARTE SECONDA |
a Ignazio Silone e alla Marsica, mia Terra
L'Utopia fu il seme
Ignazio
l'ostinato testamento
il sogno del riscatto conficcato
dentro ad aguzzi giorni
dote lasciata intrepida
chiusi orizzonti a vincere.
L'allodola scampata al cacciatore
vola nel vento e sa
che più della terra è il cielo
nido di libertà.
Così come lei tu indocile
fuggendo le imposture
Icaro inquieto
sempre cercasti un sole amico
più alti e azzurri cieli.
Eppure alla tua Itaca tornavi
estremo approdo
(Fucino acqua sparita
sassi di Fontamara
alpha retaggio simbolo
fonda della memoria).
Furono questi i luoghi
dove abitò mia madre
qui attraversò decisa
lacrime attese coraggio
Angelus albe tramonti
(A ve Mater
conservo tutti i tuoi rosari
e nel profondo le dolci tue parole
d'amore).
Ora che il fuoco è spento
giù nella piana dormono
Berardo Elvira e Luca
mio padre e Pietro Spina.
Sognano un chiaro mattino
un terso rosato orizzonte.
Sognano un sole rotondo
(bianchi cavalli scalpitano
l'oro straripa dai campi
pronta la falce e un canto).
Dormono e quieti sognano
il Cristo tornato
e l'esatto Discorso della Montagna.
g Al passo d'addio venne l'equinozio
a mio padre
Al passo d'addio venne l'equinozio
(obliqua e già ineguale declinava
la curva della luce verso l'erba...).
Quello fu l'ultimo settembre,
padre,
costretto il tempo ormai nella clessidra,
lo sciabordio tenace del silicio
a fendere radici di memorie.
Non fu certo la morte il tuo calvario,
ma il grano a crescere,
il pane da spezzare e le tue mani
arrese ormai al loto ed all'argilla
(noi cuccioli smarriti e la compagna
a tessere lacrime e ricordi).
Stagioni e lune intere inconsumate
poste a dimora anch'esse
nel vuoto dei domani a nascere
e nel vacuo rincorrersi del vento.
Noi fummo vivi solo nel dolore.
Eppure,
adesso che chetato vivi
in un altrove chiaro e senza inganni
dove straniero è il dubbio
e ignoti sono il torto e la ragione,
torna ti prego come quando, a sera,
stremata sulla spalla anche la falce,
mi portavi la rude tenerezza
delle tue braccia grandi, immenso nido
dove scricciolo implume reclamavo
la mia dose d'amore e di carezze:
mi alzavi allora, piuma, verso il cielo
a tendere le mani incontro al sole.
lo quell'abbraccio più
non so scordare.
Padre,
regalami per questo, un'altra volta,
il brivido degli occhi tuoi felici
e il tuo sorriso, come il mio, fanciullo.
g Segretamente i giorni
a mia madre
Segretamente i giorni
sfogliano memorie,
madre.
Tenaci, riposte nostalgie
sostano alle porte,
sgrovigliano ricordi,
dissolte riannodano stagioni.
Scorrono certezze luminose,
soli splendenti, azzurri cieli.
Finito il tempo degl'inganni
e dei fatui arcobaleni,
madre dei sospiri,
ora alla notte invano grido,
di sogni creditore e di promesse.
Più non m'illude ormai
la malia delle sirene
né più mi confonde
la perfetta geometria del girasole.
Soltanto a questa trepida parete
arreso torno,
stremato dalla luce dei tuoi occhi
e dall'inconsumato tuo sorriso.
Madre dei silenzi e delle attese,
altre memorie diradano le nebbie,
scoprono il bambino che io fui,
confusa, dolce fibra naufragata
negli abbracci tuoi di seta.
Madre dei rosari e di dolcezze,
porto sicuro,
approdo a un altro Tempo,
segui, ti prego, l'ultima mia rotta,
ché spaurito alla deriva
più non si sperda il cuore.
Mi tenderai (lo so) le mani a sciogliere
la tacita promessa del commiato:
consumata la mia fetta di dolore,
per sempre a te riconsegnarmi.
g La rosa - sai - è insieme altera e mite
a Maria
Dal perso labirinto di memorie
lo sguardo mio, sorpreso, si è impigliato
distrattamente tra i capelli tuoi
(rammento che garrivano nel vento,
ora mansueti tessono l'argento).
Tu versi attenta l'acqua al filodendro,
lieve carezzi i trepidi germogli,
gentile sfogli i petali sfioriti
(la rosa - sai - è insieme altera e mite:
sa dominare e poi chinar la testa).
Forse una pena ti tormenta il cuore
se volgi intorno il pallido tuo viso
dolente come il cerchio della luna
(lo so che inquieta ascolti
lontane e vaghe voci).
Ora più non profumano le stanze,
muta è la casa, e sola.
Le rose che più amiamo
gemmano altrove, cara,
e certo le coltiva un giardiniere
con delicate e tenere cesoie.
Qui ormai la pioggia e il vento
(violini arcani, cembali tenaci,
per noi concerto postumo d'autunno)
già chiamano ai balconi.
Chiudi la tenda,
andiamo anima mia.
Tomo alla terra di smeraldo e luce,
splendente e ancora indenne dal dolore.
Io so come guarire le ferite
e come cancellare il filo d'ombra
che intride gli occhi e vela la tua fronte.
Torniamo ai nostri giorni senza tempo,
eterni come stelle noi bambini:
principe azzurro io, di te perduto,
superba tu, e rapita, mia regina!
Ti scrivo, cara,
e voglio dirti che
non userò mai più,
per te, parole rozze e inflazionate:
sono un Poeta, ormai, sono redento,
sono il cantore aulico del mirto
e l'alabastro indora i miei pensieri,
imperla la mia luce.
Sono il clone consacrato, ormai,
del Vate e della Musa:
devo - capisci? devo! - volare alto,
mostrare il mio più nobile profilo!
Sono un Poeta laureato, ormai...
Basta, perciò, con le parole usuali,
con le espressioni insipide e slavate!
Tra quelle, la più stupida, lo sai,
un affronto al buon gusto e alla poesia,
è quell'osceno e insulso "amore mio",
formula che svilisce e che degrada
e che accomuna al volgo e alla plebaglia.
Occorre stile, austerità, contegno!
E poi tu lo sai bene:
ormai sono spiato,
chiosato-analizzato-interpretato!
Se solo mi azzardassi
ad evocarti in rima
e a dirti ingenuamente, che so io
mi amor - je t'aime - my love - amore mio,
sarei bersaglio facile dei critici.
Lo so perfettamente che direbbero:
che cedo alla retorica, enfatizzo,
che non s'addice al Vate quel parlare
(e poi a un uomo della mia statura!...).
Lo ammetto, è vero, è tutto sacrosanto!
D'ora in avanti, giuro,
per te io cercherò parole alate,
cieli ed altezze estreme
per i miei voli, per le mie scalate.
Ti esalterò come Giulietta e Laura,
come Euridice, Venere, Calipso.
Per te supererò (ma di gran lunga!...)
il Sommo che invocò Beatrice (Lei!...)
e quelli che cantarono, rapiti,
Annida, Silvia, Dulcinea, Didone.
lo suonerò per te violini e flauti,
cembali sconvolgenti e cornamuse.
D'ora in avanti (ho già deciso, cara!)
per te io cercherò solo diamanti,
parole arcane, nugoli di stelle.
Anzi, per dimostrarti il mio delirio,
comincerò da adesso a darci un taglio,
un taglio netto alle parole oscene,
a quelle che poc'anzi, a mo' d'esempio,
ho per l'ultima volta ripetuto.
L'ultima volta, dico e ribadisco,
giuro-spergiuro-affermo-sottoscrivo!
Perciò ti lascio, cara, e ti saluto
con un assaggio del mio nuovo idioma:
testardamente tuo...
amore mio!
g Eppure noi credemmo nelle stelle
Tu le ricordi ancora, cara,
le corse tra i filari e i pampini
arrossati dolcemente al caldo
di quel sole buono dell'ottobre,
quando perfino il freddo era gentile
e non mordeva noi bambini,
se non per gioco sulle guance,
il cuore un soprassalto di tremori?
Era la terra, quella, del nostro arcano
viaggio incontro al giorno, pane croccante
di sorpresi incanti, di promesse
irrinunciabili di cielo.
I nostri piedi scalzi,
spuma di mare e d'inesauste corse,
avevano ali, fiori per tappeto,
leggero il passo, il fiato un vento breve.
Poi fu l'inverno, cara, un tramestio
di profanati sogni e di speranze,
pane indurito, amara rinascenza.
Eppure noi credemmo nelle stelle
e nell'antico rito della luna,
epifania di luce,
promessa sempre uguale e delirante.
Non so se vinto o perso fu l'azzardo:
so solo che tendemmo braccia al sole
coi rami nuovi accesi al nostro tronco,
fiori gentili, cantico e sirena,
rimescolata linfa che riannoda
stagioni e vite, raggrumato sangue
redento ai fiumi antichi delle vene.
g Da ignote lontanissime stazioni
Da ignote lontanissime stazioni
qui siamo giunti per arcane rotte,
atomizzate fibre di memoria,
anelito di linfa e canto, fiamma
nascosta che vagheggia ali di vento.
Fummo dispersi semi,
spenti nel buio poi rinati al sole,
germoglio grano nuvola gabbiano.
Noi siamo stati pula,
polvere di macina,
sepolti ancora e ancora rifioriti
al tempo e alle stagioni,
spuma di mare ed alga,
gridi calvari lacrime coraggio.
Noi fummo tutto questo
ed altro ancora
siamo: precipitata luce, arreso
e muto abbraccio al vortice del tempo,
all'inesausto volgere dei cosmi.
Chissà se consumata, amore, è l'ora
ad altre vite e a questa,
noi rivissuti in sogno che scolora.
Ma non importa, cara,
perché malgrado il brivido e la neve
noi siamo stati la scintilla e il rogo,
acqua serena e fiume d'erba quieta.
E siamo questa vampa, questo fuoco
vivo, falò che ancora ancora brucia
e ancora incendia stelle nei tuoi occhi.
a Mario Luzi [† 28.II.2005], in memoriam
Batte alle porte
delle città segrete
anche il Bisenzio
e il tempo si fa già
memoria.
L'ultimo tuo canto,
grido dolente
in forma gentile di mimosa,
è stato per le donne di Bagdad
(invano
geme ancora
Ipazia,
il cuore
sparso tra le
pietre
dissacrate
delle Chiese).
Amico lieve che ci lasci
scrigni di parole adamantine,
noi qui ancora in viaggio
verso i transiti nascosti,
anch'io ho grumi rappresi
di memorie e un tarlo:
se pena da scontare,
per ogni nuovo giorno,
sono gl'inesausti mostri
di questo aggrovigliato labirinto.
Se il prezzo da pagare
ad altra luce
è questo calice d'assenzio
noi crocifissi e vinti
a ogni altro Male.
g Le parole nascoste e sconosciute
alle mie Muse
Le parole nascoste
e sconosciute
che amorevole l'Angelo
mi porge,
un'altra luce mostrano
alla resa:
si fanno diafane,
sbiancano in fretta. Così,
perduto il fascino
segreto e l'incantesimo del raggio
appena nato,
pongo a dimora anch'esse
nella teca
chiusa delle memorie.
Ma poi discrete tornano,
fuggite,
a guado nelle notti a fare chiaro
(preziosa scorta, scampoli di sole)
se un grido crocifigge
il gelsomino e lento
sfalda il cuore.
Redento alle chimere ed ai miraggi,
alla misura torno
della luce.
g Già avevi nelle tasche orari e mappe
a Enzo
Amico caro, amico mio che torni
leggero ai voli, ai freschi fontanili,
ora lo so perché ti affascinava
il sangue dei papaveri e la neve
e quanto ti bruciava la ferita
per ogni grido e fitta della terra.
Ora lo so perché,
segretamente,
già avevi nelle tasche orari e mappe
(partenza prenotata, viaggio breve,
salto di fuoco e sale
oltre i confini oscuri della notte).
Eppure a noi fu ignota quella fiamma
che consumava i giorni tuoi di pena,
confusa tra le strade calcinate
e l'acqua del canale che pareva
oceano immenso alle innocenti vele
salpate al vento delle nostre bocche.
Vorrei vederti salutare al largo
di quell'oceano indenne alle tempeste,
marinaio che torni vittorioso
sulla barca di carta che portava
i nostri sogni alle isole del sole
e poi vederti attraversare lieve
la sabbia che separa i nostri giorni,
per renderei l'abbraccio
negato alla partenza.
Vorrei sentirti urlare senza fiato
che non è sogno l'isola felice,
che non è polvere soltanto e vento
la nostra vita e il grano maturato
al sole e al grido delle nostre mani.
g Qui i fiumi legano la terra al mare
ai ragazzi "in viaggio"
In viaggio verso mondi sconosciuti,
per lande dalle notti senza luna,
vanno i ragazzi con la febbre in cuore
là dove i soli sono stelle spente
senza più luce per vestire aurore
né fuochi per accendere tramonti.
Vanno i ragazzi senza più memorie,
perduti e arresi agli angeli del male,
in cerca d'incantesimi e miraggi.
Nell'anima una croce e un sortilegio
assenti gli occhi, un rantolo il respiro
(mai così amara fu terra promessa!).
Tornate, figli esausti, nelle case:
il pane qui è fragranza profumata
e i giorni sono perle inanellate
al filo d'ambra, seta che carezza.
Tornate, figli, all'iride dei campi:
qui l'erba prova a diventare grano,
qui i fiumi legano la terra al mare
con le anse dolci e i loro nastri azzurri,
qui insieme canteremo una canzone,
qui scorderemo i mostri e le chimere
volando dove più profondo è il cielo.
Tornate, figli, dentro ai nostri giorni,
tornate all'innocenza della terra.
Che voi possiate superare indenni
il buio della notte e altri confini.
g The Piano Man - o della perduta mente
Nel Kent,
dove il mare sfalda le memorie,
l'Uomo del Piano naufraga nel tempo
e lascia ad altre vite
uncini e croci.
Conserva solo ali,
alto volteggiando sopra
castelli e torri.
Nel Kent
segretamente il mare avvolge,
in urne inaccessibili e remote
fuochi sorrisi cicatrici.
Adesso il cuore più non duole
e alle parole manca il fiato
(in cerca d'Itaca e di sé, perfino Ulisse
seppe, come Nessuno, del dolcissimo
fiore e indescrivibile del loto).
Nel Kent l'Uomo del Piano
suo malgrado accende, smarrito
nel suo vestito nero,
un giallo tra le bianche scogliere.
Ora nel Kent l'Uomo del Piano,
come in sogno, tesse tele d'argento
(superstiti le mani impareggiabili)
a riannodare la sua vita
perduta, forse, in un falò d'amore.