Missioni e Terzo Mondo.
Congresso
internazionale delle Missioni Domenicane,
(anche in AA. VV., Tutto il vangelo a tutti i popoli,
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Il titolo Missioni e Terzo Mondo | |
♦ Madrid sett. 1973 ♦ | |
evangelizzazione conversione acculturazione | |
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teologia delle religioni non cristiane | Asia | le analisi |
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punti di convergenza per una ristrutturazione della prassi missionaria |
Il titolo è volutamente polemico. E perciò ambiguo. Eppure è storicamente significante perché coglie l’atto missionario della chiesa cattolica ancora situato nella scia delle missiones diplomatico-papali che sono all’origine - qualificandola - dell’espansione missionaria della chiesa dalla scoperta dell’America ad oggi. Eurocentrismo e geografia d’oltremare fanno il nucleo della nozione e pratica delle missioni. Ed esercitano tutt’oggi tanta pressione ora d’assuefazioni mentali ora di folclore (il missionario che salpa per terre lontane!) da creare veri traumi di fede. Presso i vecchi missionari, ad esempio, che talora si sentono come al banco d’accusa, e presso la generazione missionaria post-conciliare, che trova frustrante il tentativo di dirottare la potente forza d’inerzia di quattro secoli di storia.
Altri temi, quali corresponsabdità - a volte connivenza - nel colonialismo europeo e la romanizzazione ad oltranza delle chiese indigene non aiutano certo a districar la matassa. Eppure non possono esser sorvolati se la proclamazione del kerygma cristiano ha da riguadagnare la sua purezza evangelica, e cioè la sua legittimità.
Il primo congresso internazionale delle missioni domenicane (Madrid 10-16 settembre 1973) non è nato all’insegna di tali problemi né di siffatta critica storico-teologica. I promotori (segretariato delle missioni presso la sede generalizia dell’Ordine) avevano insistito a più riprese sulla natura informativa del congresso circa l’attuale stato delle attività missionarie dell’Ordine. Lo scopo pratico-documentario del congresso doveva aver la precedenza su qualsiasi tentativo (o tentazione?) di tematizzare il concetto di missione e scrutinare i modi pratici di far missione nel mondo d’oggi. E dopo tutto non si può non esser grati alla commissione preparatoria per l’ingente lavoro cui si è sobbarcata sia per suscitare un’inchiesta statistica a largo raggio sia per raccogliere l’enorme massa d’informazioni giunte dalle «terre di missione» - Scandinavia inclusa. Il fatto è che i dati statistici si sono accumulati nella segreteria del congresso in un coacervo di numeri nomi date. Mentre la fatica meritava d’esser premiata con un briciolo di lettura critica che facesse emergere problemi e forze vive che conducono le fila di fatti bruti d’inventario e ne costituiscono il senso. Il congresso così rischiava d’annegare nelle medesime acque in cui aveva navigato la commissione preparatoria. E per un momento ne abbiamo seriamente paventato l’eventualità.
Ma già al secondo giorno dei lavori congressuali tra i duecentocinquanta partecipanti, venuti da ogniddove, serpeggiava disappunto - qua e là irritazione - per le generalità di rito che venivano ammannite con tanta premura quanta autorità. I gruppi di lavoro rischiavano d’esser sommersi da defatiganti conferenze piovute dal banco di presidenza; risultarono invece estremamente vivaci. Radicali modifiche indotte dalla base nella meccanica del congresso ridettero respiro ai lavori congressuali. E i problemi esplosero sia nelle discussioni di gruppo che sul banco dei moderatori e nelle assemblee generali.
L’intervento del padre Congar (giorno 13) ridette profondità alla riflessione. L’acculturazione, o meglio l’inculturazione, e il pluralismo nell’atto missionario furono ampiamente trattati sia nelle interpellazioni al teologo domenicano che nelle discussioni di gruppo. Altri validi contributi furono offerti da Nolet (canadese) che sottolineò la necessità d’usufruire delle acquisizioni delle scienze umane come mezzo di comprensione delle culture indigene e prolegomeno all’acculturazione del kerygma; da Olivier (belga) sulla riformulazione della nozione di missione oggi («ministero presso le giovani chiese») e sul recupero del carisma dell’Ordine nell’impegno dell’atto di missione. I temi «missione e liberazione», «cristianesimo e dialogo inter-religioso» emersero in seguito al nostro intervento, di cui pubblichiamo qui il testo completo. Taluni settori dell’assemblea (America latina, Repubblica del Sud Africa, West Indies) si rivelarono molto sensibili al tema della teologia della liberazione, ripreso poi nei lavori di gruppo. Mentre i missionari provenienti dai paesi musulmani, dal Giappone e India (un solo domenicano impegnato nel dialogo inter-religioso in tutto il subcontinente indiano) approfondirono la pastorale della missione a contatto con le religioni non-cristiane.
Pesantezza di marcia del congresso, pletorica generalità del programma stampato, tono celebrativo delle conferenze di pragmatica e - bisogna aggiungere a onor del vero - la massiccia consistenza dei congressisti, bloccarono alquanto il movimento di riflessione. I temi di fondo, quali i problemi cruciali della proclamazione della Notizia oggi nel mondo, ebbero appena il tempo d’affiorare - lanciati quasi furtivamente da tiratori dell’assemblea e rimbalzati con evidente fastidio sul banco della presidenza; appena il tempo di suscitare brevi appassionati dibattiti e sensibilizzare la gran massa. Il discorso purtroppo non ebbe modo d’approfondirsi, né eventualmente di radicalizzarsi.
Un simile rammarico, qualsiasi partecipante di qualsivoglia congresso se lo porta regolarmente a casa.
Congresso internazionale delle missioni domenicane, Madrid 10-16 settembre 1973
2a giornata, sessione 2a «Introduzione alle relazioni sull’apostolato missionario nell’Estremo Oriente»
Lo scrittore cattolico giapponese Shusaku Endo in un recente romanzo (Silence, Sophia Univ., Tokyo 1969) pone in termini stridenti il problema dell'acculturazione del cristianesimo nel Giappone medievale.
«La vostra dottrina - obiettano alcuni samurai al missionario portoghese - può esser vera per paesi come la Spagna e il Portogallo. Il motivo per cui noi l’abbiamo proibita è che, dopo matura riflessione, abbiamo trovato che essa non serve a nulla per il Giappone d’oggi».
«Secondo il nostro modo di pensare - risponde il missionario - la verità è universale. Se una dottrina non fosse vera tanto in Giappone quanto in Portogallo, noi dovremmo dire che essa non è vera».
«Tutti i missionari ripetono sempre la medesima cosa. Eppure... un albero che prospera in un suolo, deperisce se trasportato altrove. Anche il cristianesimo che altrove mette foglie e getti rigogliosi, in Giappone intristisce e muore...».
L’autore sente il problema come il suo problema e quello del giapponese moderno. «È sempre rimasto nel fondo del mio cuore - scrive ancora - il sentimento che questo mio cattolicesimo fosse qualcosa di imprestato e ho cominciato a chiedermi che cosa fossi io stesso. Mi è parso che ci fosse, nel mio profondo, la palude giapponese».
La riconciliazione tra «sangue giapponese» e «fede cristiana» s’impone come condizione per riasserire la propria identità umana e culturale. Ma il trauma iniziale sembra consumarsi in un’insanabile frattura operata da due forze traenti in opposte direzioni. Da una parte «il giapponese deve assorbire il cristianesimo senza il supporto della tradizione, della storia, del sentimento cristiano», dall’altra - confessa Shusaku - «questo paese è come una palude che assorbe ogni sorta di ideologie, le trasforma e le denatura assimilandole» (in «Fede e Civiltà» n. 5-6, 1973, pp. 55-56).
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Il conflitto tra evangelizzazione e acculturazione si situa nel cuore stesso del problema missiologico contemporaneo. Le teorie della missione sviluppate negli ultimi trent’anni non sono che le varie conseguenze in campo missiologico del modo d’intendere da una parte l’irriminciabilità del kerygma cristiano, dall’altra il rispetto e l’assunzione dell’identità culturale del gruppo umano cui il messaggio è rivolto. In altre parole, che cosa chiede il cristianesimo al non cristiano? La conversione. Ma, a parte l’urgenza per il cristiano stesso di recuperare la portata rigorosamente evangelica della conversione-metanoia, ci si domanda se una cultura (di cui la religione è una componente) possa convertirsi, anzi se debba convertirsi.
Non pare che l’accettazione del Vangelo imponga una spoliazione culturale dell’individuo (del resto psicologicamente distruttiva e antropologicamente impossibile) che terminerebbe nella dissoluzione dell’identità umana dell’individuo come del gruppo sociale. Forse è più giusto dire che il cristianesimo, di cui esistono solo le susseguenti realizzazioni storiche, è anch’esso coinvolto nell’impegno della quotidiana conversazione per contenere il rivestimento di religione entro la misura dell’evento cristico. Questa “vigilia” di fede gli permette di tener l’indice costantemente puntato verso l’unico nucleo del fatto salvifico - la persona di Gesù di Nazaret - che esiga conversione e che adegui gelosamente l’atto di fede. Ma il Cristo delle fede è, appunto, un evento sovra-culturale e sovra-religioso.
E così il problema del confronto cristianesimo-religioni non cristiane (RNC) viene a porsi su basi nuove. Gli elementi che concorrono al tutto social-religioso dei due termini sono individuati e, per così dire, decomposti secondo la loro specificità, gradualità e relativitá storica, e trovano nuova distribuzione (non più disgiuntiva come tra due monoliti) all’interno e tra le componenti del binomio. Le nozioni-distinzioni fede e religione, ideale escatologico ed imperfetta realizzazione storica, storia generale della salvezza e fasi tipiche (quindi non esaustive) di essa, coscienza dell’ortodossia e urgenza d’una continua metanoia evangelica, proclamazione della Parola e prassi cristiana come verifica della Parola, sono i luoghi dove e cristianesimo e RNC devono riconoscere e riasserire la loro valenza salvifica, nonché le gradualità specifiche della loro emergenza a momenti tipici della storia della salvezza.
Ma sarà utile scorrere le posizioni teoriche recentemente affiorate nel campo della teologia delle RNC. È facile notare la stretta ralazione e l’influsso che esse hanno avuto sull’atto pratico di condurre una pastorale della missione.
Eccone in sommi capi le più notevoli:
- la verità è una; le RNC sono opera d’uomo (se non addirittura di Satana); queste debbono essere eliminate e sostituite dal cristianesimo (teoria della conquista spirituale o della sostituzione, comune dal periodo postpatristico al XIX sec.). Le religioni sono presuntuosi ed inefficaci tentativi umani di dar la scalata a Dio; fede e rivelazione sono puro dono di Dio (K. Barth e discepoli; cf. H. Kraemer, The christian message to a non-christian world, London 1938).
- le RNC sono preparazioni umane al messaggio cristiano; esse devono essere assunte ed elevate nel cristianesimo in ciò che hanno di buono e di vero, purificate in quel che contrastano col cristianesimo (P. Althaus, Die Christliche Wahrheit, Gutersloh 1959; J. Danielou, Le problème théologique des religions non chrétiennes, «Archivio di filosofia», Roma 1956, 209-33). Il Vaticano II si muove sostanzialmente nella stessa direzione accentuando la nozione di «compimento».
- la salvezza, che si realizza dovunque c’è storia, raccoglie tutti i semi salvifici ovunque si trovino. Le religioni si fanno portatrici di realtà salvifica mentre rinnegano il loro particolarismo seguendo il processo di purificazione necessario per trasmettere l’esperienza religiosa. La religione non è parallela alla cultura, ma è la sostanza che dà significato alla cultura; questa è la totalità delle forme nelle quali l’interesse fondamentale della religione si esprime. Il cristianesimo, che è onnicomprensivo per natura, raccoglie tutti gli sviluppi critici delle religioni positive ponendosi come avvenimento centrale nella storia delle religioni (P. Tillich, Christianity and the encounter of the world religions, New York 1963).
- le RNC rappresentano lo stadio della conoscenza naturale di Dio e non perdono la loro legittimità e validità salvifica fintanto che non ci sia un reale incontro storico del non-cristiano con la predicazione evangelica. Nel frattempo i seguaci delle altre religioni sono cristiani «anonimi»; la chiesa, invece di considerarsi l’unica depositaria esclusiva della salvezza, dovrebbe essere il punto d’arrivo storicamente visibile (sacramentum salutis), l’espressione sociale delle realtà di grazia e di salvezza già nascostamente presenti anche al di fuori della comunità visibile dei credenti (K. Rahner, Das Christentum und die nichtchristlichen Religionen, in Schrifter zur Theol., Zürich 1964, vol. V; tr. it. in Id., Saggi di antropologia soprannaturale, Roma 1956, 533-71. E. Schillebeeckx, Chiesa missionaria e religioni non cristiane, in AA. VV., La Chiesa e le religioni non cristiane, Napoli 1966, 69-83).
- il cristianesimo è per sua vocazione un segno di salvezza (speranza e liberazione) sino alla fine del mondo, e non mira a sostituirsi alle altre religioni. Queste probabilmente sussisteranno sino alla fine della storia. I cristiani saranno sempre un pusillus grex lungo tutto il corso del pellegrinaggio terreno. Ciascuno si salva nella propria religione laddove riconosca nei suoi valori il signum salvifico presente dappertutto (H. Küng, Christenheit als Minderheit, Einsiedeln 1965; tr. it. Cristianità in minoranza, Brescia 1967).
- distinguendo tra religione (aspetto socio-culturale della fede) e fede, taluni vedono in questa il nucleo unico ed essenziale dell’esperienza religiosa e quindi nella salvezza. La fede è presente e si ritrova sotto le spoglie delle varie forme socio-culturali (religioni) in cui è necessariamente incarnata e trasmessa. La missione è proclamazione della fede, non della religione (R. Panikkar, Ogni autentica religione è via di salvezza, in AA. VV., Incontro tra le religioni, Mondadori 1969).
Per una visione d’insieme del problema: G. Thils, Propos et problèmes de la théologie des religions non chrétiennes, Casterman 1966; M. Da Nembro, Rassegna bibliografica sulle religioni non cristiane, «Lautentianum» 12 (1971) 213-22; K. McNamara, Christianity and the religions of mankind: a theological appraisal, «Seminarium» 2 (1972) 353-58.
Recentissimamente due nuove prospettive sono emerse:
a) ritenuto gnoseologicamente impossibile l’incontro-dialogo tra due religioni in quanto sistemi religioso-culturali, si nega la possibilità dell’adattamento (acculturazione) e si riafferma per contrasto l’unicità esplosiva ed alternativa del messaggio cristiano. Mi sembra che dietro tale ripiegamento teologico si nasconda o la frustrazione per l’insuccesso della missione presso religioni-culture come Islam, Induismo, Buddismo ecc.; (V.C. Vanzin, Le missioni nel nostro tempo: seconda contestazione, «Fede e Civiltà» n. 5-6, 1973, 7-17) o il timore che si stia scivolando verso irenismi di compromesso (W.A. Visser’t Hooft, La fede cristiana dinanzi al sincretismo, Torino).
b) il cristianesimo, incarnazione storica della fede e condizionato da forze socio-economiche che conducono le fila della politica internazionale, deve oggi affermare la propria legittimità alla proclamazione della Parola trasformandosi in prassi di liberazione di tutte le popolazioni oppresse. Lotta per la umanizzazione ad ogni livello delle condizioni dei popoli sottosviluppati e scelta storica a favore delle classi sfruttate è il modo d'affermare e proclamare la «verità che libera». La religione, quale che sia, sarebbe altrimenti un mezzo per perpetuare sfruttamento e alienazione dall’umano, dalla cui ricostituzione non può prescindere. La fede è tout court prassi di liberazione. La teologia a sua volta sarà la riflessione critica nella e sulla fede come prassi liberatrice; questa, in definitiva, non sarà che la «missione» della chiesa (G. Gutiérrez, Teologia della liberazione, Bescia 1972; Id., «Rassegna di Teologia» 14 (1973) 145-59; Gutierrez, Alves, Assmann, Religione oppio o strumento di liberazione?, Milano 1972; AA, VV., La fede come prassi di liberazione, Milano 1972; J. Garcia Gonzales, Le scaturigini della teologia della liberazione, «Rassegna di Teologia» 14 (1973) 217-27; B. Olivier, Développement ou Libération. Pour une théologie qui prend parti, Ed. Ouvrière, Paris-Bruxelles).
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In nessun’altra area culturale, il problema dell’evangelizzazione a confronto con altre culture-religioni si è storicamente posto con altrettanta acutezza come in Asia. In nessun altro continente, come in Asia, il cristianesimo oggi è interrogato sul senso biblico-teologico della missione a confronto con altre fedi e altre culture. L’Asia è la culla di formidabili sistemi religiosi, venerabili per antichità, per vastità geografica e culturale, ammirevoli per la tenacia con cui hanno superato la prova dei secoli e per la profondità con cui hanno fatto presa sull’animus dell’asiatico. Ne danno prova ancor oggi, al centro come sono della tempesta culturale che modelli tecnìco-industriali di società impongono alle culture indigene, e al centro dell’ondata di secolarismo che lambisce tutti i grandi sistemi religiosi dell’Asia, dall’Islam al Buddismo.
Ma altre due punti devono integrare il quadro missionario dell’Asia. Il continente asiatico raccoglie immense popolazioni col reddito annuo più basso del mondo, dove la fame è congenita e dove si combattono da decenni guerre devastatrici. Infine, il continente di gran lunga più popolato del globo terrestre e culla del cristianesimo così come delle altre grandi religioni, è il meno «cristianizzato», statisticamente parlando.
Le resistenze opposte dalle popolazioni asiatiche alla «penetrazione» cristiana (residui della «missione» come «conquista spirituale di altri ad extra» sono tenacemente agglutinati al nostro linguaggio!), tali resistenze - dicevo - non possono essere frettolosamente addebitate alla «chiusura alla grazia», né al senso di «autosufficienza», né tantomeno al «fanatismo» che spesso invochiamo a riscatto del nostro insuccesso. La teoria della missione - come sopra accennato - è in fase di rivoluzione teologica. Un congresso di «missionari» avrebbe tutto il diritto d’aspettarsi dal teologo una parola chiarificatrice ed una prospettiva rassicurante di riassetto pastorale del l’evangelizzazione. C’è chi parla di crisi, addirittura di fine della missione. E c’è chi la contesta. Credo che la chiesa missionaria non possa impunemente ignorare le sollecitazioni di fede che premono per un ripensamento dottrinale ed una ri-organizzazione della prassi missionaria. Una teologia positiva delle RNC (che prenda mosse e ispirazione dai testi del Vaticano II) ed una visione più biblicamente dilatata delle tappe e della geografia degli interventi salvifici di Dio nella storia, sono le premesse che postulano la re-interpretazione della missione sia nella sua locazione entro lo sviluppo omogeneo della fede cristiana che nei moduli storico-pastorali di condurla presso i non-cristiani.
Ma forse è preferibile dire che i fatti di fede provocati dal kerygma (= proclamazione della fede) alla frontiera dell’evangelizzazione sono il luogo primario e imprescindibile per una susseguente riflessione teologica. Gli insuccessi e le maturazioni di grazia, i condizionamenti del passato e la presa di coscienza dei compromessi del presente, le aperture inattese come gli scacchi più cocenti, tutto ciò insomma che fa l’esperienza quotidiana dell’evangelizzazione in atto, sono gli elementi da porre all’inizio d’ogni riflessione su concetto e pratica della missione. Se volete, il teologo si aspetta dal missionario più di quanto egli stesso possa dare. Una teologia della missione e una teologia delle RNC si fanno nell’incontro storico del messaggio cristiano con gli uomini d’altre culture e d’altre religioni. In ogni caso, la riflessione di fede intesa a recuperare la purezza evangelica del kerygma, a liberarlo dalle scorie di sovrastrutture socio-politiche ed ecclesiastiche che hanno rivestito - condizionandolo - il messaggio cristiano, è un’improrogabile necessità del cristiano impegnato nella missione di Cristo. Il nostro congresso sarà valido se avrà il coraggio di porre mano ad una siffatta critica di fede.
Le relazioni-esperienze dei missionari provenienti da ogniddove - ed in specie dall’Asia, per il tema di quest’oggi - dovrebbero muoversi su due grandi linee simmetricamente confrontate:
A - analisi del passato:
occasioni e modi di far missione dalla scoperta dell’America alla massima espansione coloniale (XIX sec.) (correlativamente si forma la nozione post-tridentina di «missìoni»: cf. H. Holstein, Quel est le sens du mot mission? «Spiritus» n. 25, pp. 371-80. A. Henry, La force de l’évangile, Mame 1967: Le mot de mission entre le XVI et le XX siècles, pp. 35-49. Il Diritto canonico codifica proprio questa avara nozione di missione: nn. 1349-1351). A tal proposito sarà utile domandarsi quali siano stati i condizionamenti e le collateralità delle attività missionarie in Asia e i suoi riflessi - presenti tutt’oggi - nei sentimenti dei popoli asiatici verso i missionari stranieri. Es.: penetrazione missionaria in India collaterale ai coloni portoghesi, francesi e inglesi, delle cui truppe i missionari saranno spesso cappellani militari (cf. Guida alle Missioni Cattoliche, a c. della S. Congr. di Prop. Fide, Roma 1934); complicità dei missionari nell’occupazione dell’Indocina da parte dei francesi (cf. «Lettre» n. 175, 1973, 22-25).
Ci si renderà ragione del sentimento istintivo dell’asiatico d’oggi di considerare il missionario uno straniero che attenta all’identità religioso-culturale d’un popolo; così come si comprenderanno le recenti dure critiche d'alcuni vescovi indigeni nei riguardi dei missionari stranieri accusati di neocolonialismo teologico-culturale.
B - analisi del presente, su tre momenti tipici dell’evangelizzazione: acculturazione, religioni non cristiane, promozione dell’uomo.
1. Che grado di de-occidentalizzazione la chiesa missionaria ha operato e raggiunto (dal pensiero teologico alle forme strutturali del potere ecclesiastico e del suo uso, dalla pratica liturgica alla pastorale della catechesi) per decantare in purezza apostolica la proclamazione della Parola? Siamo proprio certi che se resistenza o rifiuto c’è da parte dei popoli d’Asìa, si tratti di rifiuto del vangelo del Cristo o non piuttosto dì una chiesa troppo caratterizzata dalle realizzazioni storiche appartenenti al cristianesimo latino-germanico? Nella missione si è imposta la spiritualità della kenosi o «spogliamento» - norma dell’incarnazione - come passo inaugurale d’ogni ministero missionario? (cf. Gaudium et spes n. 58). Sono disposti gli apostoli di oggi (dal vescovo al cooperatore laico) a dar diritto di cittadinanza, nell’atto missionario, ai tratti fondamentali d’una cultura (strutture di pensiero, sistemi semiotici, modelli di comportamento) perchè una fede indigena sia qualificata dall’interno e costituita nella sua identità culturale? (ben altra cosa, si noti, dalla frettolosa mimetizzazione inseguita nell’immediato dopoconcilio, innocui adattamenti liturgici di vestiario e gesticolazione...).
2. È stata la missione attenta a scoprire i semi di salvezza che Dio ha immesso nella storia e nella geografia di tutti gli uomini (patto di Noè: Gen. 9,1-17); a riconoscere il «Dio ignoto» già presente ed operante negli «altri» (At. 17,16-31), lo Spirito che precede l’apostolo (Ebr. 7,1-17; At. 10) perchè Dio non ha cessato nella storia di dar testimonianza a se stesso (At. 14,17); a riconoscere che la Parola non soffre legami di sorta, che l’apostolo è capace solo di parola (rema) in cui Dio pronuncia la Parola (logos) (At. 10,44) e che questa fa liberamente «la sua corsa nel mondo» (2 Tess. 3,1)? Quale dialogo la chiesa missionaria ha intrattenuto con le RNC? Intende ancora considerarsi depositaria esclusiva della verità o è disposta - con le formidabili conseguenze di prassi pastorale, liturgica, catechetica ecc. - a riconoscere «il vero e il santo» (Nostra aetate n. 1) che è negli altri, e ad inserirsi nella storia della salvezza (Gaudium et spes n. 44) non in alternativa alle altre religioni ma in dialettica di convergenza al Cristo, l’unico che salva? (Cf. H.R. Schlette, Die Religionen als Thema der Theologie, Basel 1964; tr. it. Brescia 1968).
3. In che misura la missione si è fatta portatrice della buona novella ai poveri? Nessuno può certo mettere in dubbio l’opera caritativa ed assistenziale delle missioni. Ma è ancora sufficiente oggi tutto questo, quando si prende sempre più coscienza che la povertà di taluni popoli non è che l’altra faccia della ricchezza di altri, e quando si scoprono le fila d’una politica economica mondiale che risulta - nonostante le apparenze - sistematico sfruttamento dei popoli più indifesi? Sa la chiesa missionaria alzare la voce di protesta, rompere con connivenze e schierarsi con coloro che lottano per una umanizzazione della condizione di milioni d’esseri umani? La voce elevata recentemente dai missionari del Mozambico non è tuttora troppo isolata? Ed altre possibili voci non rischiano di fallire il tempo utile?
Son questi, brevemente, i punti su cui potrebbero convergere le riflessioni, le esperienze e il dibattito dei missionari d’Asia. Vi sono sottese tre idee conduttrici capaci di raccogliere intorno a sé fermenti d’una ristrutturazione della prassi missionaria tra i non cristiani:
- natura incarnazionale dell’atto kerygmatico che coinvolge la «kenosi» del messaggio evangelico da tutto ciò che non è rigorosamente apostolico;
- storia della salvezza come impegno di Dio a salvare in tutti i punti della storia e in tutte le geografie umano-culturali; l’atto missionario deve riconoscere e raccogliere i semi salvifichi che Dio ha sparso al di là del «suo» popolo per dilatarne - precorrendoli - i confini;
- missione come impegno sociale a creare situazioni autenticamente umane per tutti gli uomini; sopratutto prassi evangelica al servizio della liberazione economica, politica, culturale dei popoli oppressi o in via di sviluppo.
La missione-dialogo si fa a molteplici livelli; ogni tappa ne tratteggia specifiche sembianze. Ma al suo atto di fondazione (fase della pre-evangelizzazione) non può essere che il professare e condividere senza condizioni tutto ciò è irrinunciabilmente umano. Questo è, in ultima analisi, il termine della Notizia e cioè della salvezza.
«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angoscie degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono anche le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità infatti è composta di uomini, i quali, riuniti insieme in Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre, e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò essa si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (Gaudium et spes n. 1).