Nel corsivo della Redazione di Vita Sociale (marzo-aprile 1974, pp. 105-106) «A proposito del Referendum», si fanno alcune affermazioni che mi sembrano perlomeno discutibili. Si dice, ad esempio, che «la questione che sta al fondo del referendum per l’abrogazione della legge che ha introdotto il divorzio in Italia, più che in termini di indissolubilità o solubilità dell’istituto matrimoniale, è in termini di rapporto fra Stato e Chiesa». Con tutto il rispetto mi pare che la Redazione non tenga sufficientemente conto del fatto che per tutto il periodo nel quale durò la «questione romana», periodo di rottura fra Stato e Chiesa, il matrimonio civile rimase indissolubile nonostante reiterati tentativi di introdurre il divorzio. A questi tentativi si opposero, per ragioni sociali, autorevoli parlamentari «laici», come tutti sanno. Del resto, fino al tempo di Pio X vigeva il «non expedit», per cui i cattolici non potevano essere né eletti né elettori. Quindi non fu certo per motivi religiosi che l’indissolubilità venne mantenuta. Il problema, a mio modesto avviso, doveva esser posto piuttosto in termini di bene sociale (al quale deve tendere la legge dello Stato) e non di fede religiosa. Ora non è certo di giovamento per il bene sociale il moltiplicarsi delle rotture tra marito e moglie, al quale è incentivo la possibilità di «rifarsi una vita» concessa dall’istituto del divorzio. |
Il corsivo pone inoltre questa domanda: «La legislazione di uno Stato dev’essere tanto ampia e della stessa qualità di quella che una Chiesa dà a se stessa, facendola derivare dal proprio orizzonte di valori e, nel caso della Chiesa Cattolica, dalla propria fede?». Crediamo di dover dire che la legislazione di uno Stato deve rispondere alle esigenze del bene sociale così come è visto dal legislatore (che, nel caso del referendum, è di fatto il semplice elettore). Questi, nel giudicare qual è il bene comune o quel che serve al bene sociale non può ovviamente procedere se non dal proprio punto di vista, dal proprio orizzonte di valori che deriva da tutto un suo patrimonio di convinzioni etiche, politiche ed anche filosofiche e religiose. Perché mai un Marxista potrebbe e dovrebbe valutare il bene sociale secondo la sua fede marxista e non potrebbe farlo il Cristiano secondo la sua fede cristiana? Quest’ultimo dirà che se Cristo, in una materia così eminentemente sociale come il matrimonio, è paladino della indissolubilità, tale indissolubilità non può non essere di giovamento al bene sociale e non essere riebiesta, senza alcuna ingiustizia, per la migliore salvaguardia dello stesso bene. P. Valentino Ferrari OP [† 26.VIII.2012] |
il tuo intervento mi dà occasione di verbalizzare - per così dire - quanto avevo affidato al linguaggio implicito ma reale di fatti legislativi esprimenti modi storici e forme statuali in cui si costruisce un’unità culturale, ideologica o religiosa che sia (mi riferisco in particolare a «Vita sociale» 160/ 1974, pp. 106-110). A referendum avvenuto ci si sente - noi cattolici - meno imbarazzati a parlare in linguaggio diretto di problemi siffatti. Non perché il risultato abbia rincorato gli uni e disarmato gli altri. Ma perché il cittadino italiano - e più ancora il credente - ha di fronte a sé fatti e intenzioni sociali espressi dalla volontà popolare. E davanti a fatti sociali il credente è meno corrivo - si ha il diritto di supporre - ad inseguire consolazioni di controvittorie spirituali o a decretare l’irrilevanza della propria fede alle occasioni di vita.
Ed ecco le riflessioni che vorrei sottoporti. Esse si collocano tra l’occasione del tuo intervento e la sollecitazione del fatto sociale del referendum a scrutinare i luoghi in cui una fede esprime con legittimità ed autorevolezza i propri contenuti e i propri propositi.
1. Nei settant’anni circa della «questione romana» il legislatore italiano ha mantenuto la legge civile dell’indissolubilità del matrimonio per motivi - supponiamo - d’ordine puramente civile. Così come presumibilmente, e per simili motivi civili, ha creduto bene mantenere il divieto di voto alle donne. Poi il medesimo legislatore ha concesso il diritto di voto al le donne. Più tardi ha inteso proporre alla decisione popolare il problema della indissolubilità o non del matrimonio civile.
Questo può significare soltanto una cosa. Che la società civile italiana del 1860 non era più la stessa del 1946 e che né quella né questa sono più la società italiana del 1974. Piaccia o no, in bene o in male, la società civile muta. E una società diversa si dà leggi diverse.
2. Il referendum sarebbe dovuto restare un confronto centrato sulle motivazioni civili (in termini di «bene comune») della solubilità o non del matrimonio civile?
Probabilmente sì. Ma dalla fine del non expedit di Pio X ad oggi, a motivo della coincidenza di fatto delle lotte civili con l’aggregazione partitica, a motivo dell’esistenza d’un partito che per diritto o per verso raccoglie le aspirazioni socio-religiose dei cattolici italiani, a motivo ancora della particolare relazione giuridica tra stato italiano e chiesa cattolica, e della natura fortemente confessionale del cattolicesimo di casa nostra (prova ne sia l’accerchiamento di argomentazioni religioso-teologiche entro cui si è trovato l’elettore cattolico) - dato tutto questo, non esistevano condizioni per far realisticamente presumere che il confronto potesse rimanere in termini di motivazioni «civili». Come di fatto non lo è stato.
3. Dunque si pone - nella congiuntura specifica del cattolicesimo italiano - il problema del rapporto «fede - legge civile», « Stato - chiesa cattolica». E qualora quel che s’è detto e scritto in occasione del referendum non avesse dimostrato che il confronto non si decantava in purezza cristallina di «bene civile», lo dimostrerebbe la seconda parte della tua lettera.
Il punto è proprio qui. È la legge civile (vista la sua natura, il suo ambito, le sue intenzioni, le sue origini...) il luogo in cui un contenuto di fede possa o debba esprimersi? A mio avviso, ogni credente - quale che sia la sua confessione di fede - deve dare una risposta negativa, se vuole e preservare la propria fede da riduzioni imposte dalla natura stessa della legge civile e assicurarsi occasioni e luoghi legittimi in cui la fede possa asserire se stessa con fedeltà ed autorevolezza. La legge civile - almeno nel processo legislativo delle forme statuali di casa nostra - è il risultato d’un consensa d’emergenza numerica su quanto ritenuto bene hic et nunc per una data società. Dell’emergenza numerica la legge civile replica i limiti, l’oggetto specifico, la storicità, le mutabilità, ecc. Per sua stessa natura la legge civile non intende esprimere - perché qualitativamente diversa - né verità di natura né tantomeno verità di fede. Almeno che non si voglia affidare all’alea della maggioranza numerica il criterio della verità. Si riassicuri il buon cattolico italiano: il referendum non ha decretato nessuna sconfilta, né alla fede, né alle leggi di natura, né alle leggi dì Dio.
Ma ci son buoni motivi per sospettare - caro P. Valentino - che il tuo discorso dissimuli un percorso che, a traguardo raggiunto, evochi uno schema di questa fatta:
a) Dio è l'origine delle leggi di natura
b) il credente scopre la volontà di Dio anche nelle leggi di natura
c) queste sono riproposte nella sfera della società civile
d) il credente si fa garante, con la sua fede, della significazione ed osservanza della volontà di Dio espressa nelle leggi di natura e replicata nella legislazione civile.
Non è questione di dibattere qui uno schema siffatto. È che una pastorale di chiesa non può prendere atto - se ha da proclamare il messaggio di Cristo ai propri contemporanei - del fatto che la nostra società non pensa più entro tale schema culturale. Potremmo esser magnanimi e consolarci a vicenda in un comune rammarico. Persino in una comune deprecazione. Ma resta che se l’atto pastorale è al di qua del sistema culturale a cui è destinato allora l’evangelizzazione deve prender il posto della pastorale. E l’evangelizzazione non è il rafforzamento d’un insediamento dottrinale, ma la proclamazione della Parola alla novità e alterità del «gentile»; non è la rivendicazione d’una potestà precedentemente stabilita, ma la proposta della propria credibilità. Misurare l’atto dell’evangelizzazione sull’alterità culturale del destinatario non può non render lo schema di cui sopra perlomeno irrilevante.
Ma c’è l’«apostolo» che persiste, in una data società, a tenere in vita una pastorale in ritardo d’una fase. Dirà che il giorno 12 maggio 1974 i peccati mortali sono stati in Italia tanti quanti i «no» del referendum. O negherà l’eucarestia al fedele che ha votato com’ha votato in occasione d’una legge civile. Un comportamento - in fondo - più coerente che bizzarro. È la medesima coerenza che stringe i termini ed insegue i trapassi nello «schema» della Unam Sanctam di Bonifacio VIII: «universale potere di Dio demandato al suo rappresentante in terra - costui esercita i poteri spirituale temporale - questo sottomesso a quello come la spada materiale alla spirituale...».
Una sola differenza. Il teorema “egge di Dio → legge di natura → referendum sì” è meno eroico dell’araldica delle due spade.
4. Se poi al marxista sia lecito o no filtrare nella legislazione civile la propria «fede marxista», è cosa che riguarda il marxista. Probabilmente il marxista lo fa. Ignoro se dovrebbe farlo. Sono certo, invece, che non gli è lecito farlo qualora imponesse la propria «fede marxista» con mezzi che non lasciano all’altro né la libertà di aderirvi né il diritto di dissentirne. O volevi concludere - caro P. Valentino - argomentando: «Se l’URSS ha i suoi Solgenitsin perché non si vuol riconoscere alla società italiana o alla chiesa cattolica il diritto d’averne dei suoi?» (Scrivi infatti: «Perché mai il Marxista potrebbe e dovrebbe valutare il bene sociale secondo la sua fede marxista e non potrebbe farlo il Cristiano secondo la sua fede crìstiana?»).
5. Ma probabilmente non era tua intenzione rivendicare per il cristiano diritti ad una condotta che il marxista - o altro militante politico - ritiene legittima nella sua prassi sociale.
Allora va fatto un altro discorso.
Ci sono circa 500 milioni di musulmani dal Marocco all’Indonesia. Costoro ritengono d’avere il medesimo diritto - che tu rivendichi al cattolico italiano - d’esprimere la popria lede attraverso l’istiluto della legge civile. E ritengono altresì - proprio come il cattolico italiano - che i contenuti di fede immessi nella legge civile «non potranno non essere di giovamento al bene sociale». Difatti molti paesi a maggioranza musulmana esprimono valori religiosi, comandamenti etici, istituzioni culturali, prescrizioni di «diritto canonico islamico» (fiqh), diritto di famiglia, codice penale, derivati dalla fede islamica, nelle leggi e ordinamenti civili. Così si hanno costituzioni che dichiarano l’Islam religione di stato, che si rendono garanti dell’applicazione ed osservanza del Corano e della Sunna (Libro sacro e Tradizione della fede musulmana), dei codici etico e civile del Corano; che esigono - coerentemente - che il Capo di Stato e spesso anche il Primo Ministro siano di fede musulmana, ecc. ecc. L’argomentazione è la stessa: «Perché mai il marxista e il cattolico potrebbero e dovrebbero valutare il bene sociale secondo la loro fede, e non potrebbe farlo il musulmano secondo la sua lede islamica?».
Senonché in codesti paesi, cittadini non-musulmani - per esempio cattolici - reclamano la deislamizzazione delle leggi civili, condizione necessaria perché tutti i «cittadini», quale che sia la loro religione, possano godere di uguali diritti civili. Tra l’altro - guarda l’ironia della sorte! - il musulmano chiede la medesima cosa alle maggioranze non-musulmane, ad esempio allo «stato cattolico» delle Filippine, a quello copto-cristiano della Etiopia, a quello socialista della Jugoslavia.
Ha ragione il cattolico pakistano a chiedere la deconfessionalizzazione della «Repubblica Islamica del Pakistan» perché possa fruire uguali diritti dei cittadino musulmano, o ha ragione il cattolico italiano che ritiene dovere di coscienza esprimere la propria fede attraverso le leggi civili? Eppure entrambi, il pakistano musulmano e il cattolico italiano ritengono che i contenuti della loro fede indotti nella legislazione civile «non potranno non essere di giovamento al bene sociale».
Caro P. Valentino, in una società ideologicamente uniforme (che credo troveremo solo nell’aldilà) la legge civile (ma ci sarebbe ancora posto per la legge civile?) coinciderà di fatto - presumibilmente - con l’unica fede di tutti i cittadini pervenuti alla quiete della perfezione.
In attesa di tale mèta, te la senti - tu cittadino pakistano non musulmano - di continuare a pagare una birra col valore paga di tre giornate lavorative per il fatto che la fede dei tuoi concittadini musulmani ritiene la birra (come tutti gli alcolici) «contro la legge di Dio» e conseguentemente «contro il bene civile»?
fraternamente
Emilio Panella OP
In «Vita sociale» 31 (1974) 167-68 c'era stato un altro "intervento dei lettori" su materia del referendum, e precedente la legge del divorzio, a firma del prof. G. Bellandi, "cattolico", ma non implicava riferimenti a Documenti a confronto di «Vita sociale» 31 (1974) 105-110.