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 La fede prende partito:
i vescovi libanesi a favore della causa palestinese,

«Vita sociale» 32 (1975) 361-365.

   
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Libano: la pluriconfessionalità non fa ancora uno Stato laico

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questione palestinese

APPELLO DEI VESCOVI DEL LIBANO (9 luglio 1974)

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L'appello dei vescovi cattolici del Libano non è recentissimo. Ma è attuale per due motivi. Primo, perché l'opinione pubblica occidentale è ancora manovrata in senso unico dalle fonti d'informazione legate, economicamente e politicamente, a Israele; cosicché le chiese d'occidente sono ancora sorde a farsi carico d'una testimonianza evangelica a favore degli oppressi. Secondo, perché i tragici fatti del Libano di quest'ultimi mesi commentano foscamente, perfino con irrisione, i propositi e le speranze della chiesa del Libano.

Fermiamoci a considerare questo secondo punto.

E' vero che la solidarietà internazionale, i consensi civili ed ecclesiali sono spesso decisivi per sbloccare situazioni locali. Ma perché le contraddizioni arabo-palestinesi sono confluite ed esplose proprio in Libano con una violenza tale da scuoterne le fondamenta?

Le categorie di "cristiano maronita" e di "musulmano palestinese" con cui il giornalismo occidentale dà nome ai contendenti sono ben lontane dal persuaderci ad una "guerra di religione" in Libano  -  se pure una guerra di "religione" sia mai occorsa. Ma i peculiari intrecci della storia dei popoli medio-orientali, il costituirsi di forze sociali coincidenti con etnìe religiose, il sovrapporsi di tradizioni confessionali su strati sociali dai comuni interessi politico-economici, l'affermarsi d'istituti giuridici ricalcati sui raggruppamenti etnico-religiosi  -  dal diritto di famiglia a quello patrimoniale ed ereditario  -  sanciti dall'amministrazione ottomana prima e rafforzati dal compromesso di pluri-confessionalità di molti stati arabi moderni (in Libano circa 20 codici di statuto personale sono applicati a cittadini d'altrettante confessioni e "riti" religiosi): tutto questo  -  dicevamo  -  ci rende vigili all'insospettata ricchezza delle componenti e dall'intricato gioco con cui la fantasia orientale fila i propri equilibrismi politici (un amico libanese mi diceva che nessuna politica occidentale avrà reale successo in Medio Oriente finché ignorerà i "capi religiosi locali"). Comunque sia, siffatto è il luogo storico-culturale in cui i soggetti sociali si costituiscono tali ed entrano, eventualmente, in conflitto (cf. l'inchiesta di E. ROULEAU, Le Liban dans la guerre civile, «Le Monde» 20 settembre 1975 e ss.). Lasciate cadere categorie alludenti a conflitti "confessionali", s'impone issofatto al credente l'esigenza critica di chiedere perché e in che modo una confessione religiosa è finita per coincidere sociologicamente (spartendone i privilegi?) con gli strati della media e alta borghesia libanese; la quale recalcitra, per ovvie ragioni, all'idea di farsi depennare in un'avventura anti-israeliana.

Parimenti, l'accenno nell'appello dei vescovi alla "esperienza libanese" come modello di convivenza pluriconfessionale può essere altrettanto fuorviante, se il costituirsi in soggetto sociale non è radicalmente riconquistato alla specificità del profano. Più confessioni religiose con pari diritti civilì non fanno ancora uno Stato laico. Gli equilibri tra le forze in causa galleggiano sulle medesime zattere delle fortune economiche delle classi cui le confessioni danno nome. Quando le zattere vengono all'urto fatale, nessun'insegna pettorale come nessun'arme gentilizia scampa il portatore dal comune naufragio.

Parrebbe scortese dire tali cose a chi in Libano patisce di persona il dramma che tutti sappiamo. Ma è semplicemente lo sforzo di rendere libertà  -  ed efficacia  -  alla nostra e altrui fede. Del resto è stato lo stesso mons. Gregorio HADDAD, allora metropolita cattolico di Beirut, a suggerirci questi brevi commenti:

Il Cristo morto, risuscitato e ora vivente... è il più grande avvenimento, l'esperienza-pilota più moderna e più progressista. Lui solo ha il potere di far accedere l'umanità al suo siluppo, alla sua maturità, alla sua pienezza e alla sua felicità.

Ma chi pone ostacolo alla realizzazione di tale prodigio?

La cristianità, i cristiani.

I cristiani, lungo la storia e ancor oggi, hanno usurpato Cristo, ne hanno fatto caparra, l'hanno colonizzato e sfruttato. Ne hanno fatto un leader, un capo tribù  -  e nel nostro paese più che altrove, specie in occasione delle manifestazioni pubbliche quando l'interesse personale consiglia di far mostra della confessione in Cristo e nel cristianesimo.

Ecco perché è necessario cominciare a liberare il Cristo, non solo dai cristiani ma dalla stessa cristianità. Bisogna sopprimere l'accaparramento che si fa del nome del Cristo (...).

Il Cristo non appartiene esclusivamente ad una categoria determinata dell'umanità. Non è il re d'un raggruppamento sociale. Ha rifiutato d'esser proclamato re... Per questo il Cristo rigetta la confusione dei poteri temporale e spirituale. Egli lascia a Cesare quel che è di Cesare, per restare tutto di Dio e, in tal modo, tutto degli uomini: servitore di tutti e non re d'alcuni.

Omelia del 2 apr. 1972 pronunciata alla presenza di Frangie, presidente della Repubblica Libanese; in Y. MouBARAc, Palestine et arabité (Pentalogie Islamo-Chrétienne, V), Beirut 1972-73, pp. 221-22.

EMILIO PANELLA, o. p.
Pistoia, settembre 1975


APPELLO DEI VESCOVI DEL LIBANO ALLE CHIESE D'OCCIDENTE

I patriarchi e i vescovi cattolici del Libano ai loro venerabili fratelli nell'episcopato e alla chiesa.

Noi, patriarchi e vescovi cattolici del Libano, a tutti voi venerabili fratelli nell'episcopato e alla chiesa, salute e pace in Cristo Gesù dispensatore della vera pace.

La situazione attuale

[Breve richiamo alla presente situazione del Medio Oriente, specie in Libano; proposito di rivolgere la parola ai vescovi e alle chiese di tutto il mondo, «specialmente a quelle dell'Occidente e in particolar modo alle chiese di quei paesi che più direttamente hanno a carico la responsabilità della giustizia e della pace tra gli uomini»]

Due pesi e due misure

Ed eccoci a manifestare la nostra afflizione per il fatto che in Occidente responsabili della politica, promotori d'ideologie, animatori dei mass-media usano  -  a riguardo della congiuntura politica medio-orientale  -  due pesi e due misure nella valutazione del problema; e questo a detrimento delle popolazioni arabe in generale, dei palestinesi e libanesi in particolare.

E' vero che si fanno più numerose le eccezioni a tale generale attitudine; ma ciò non ci dispensa dall'inviare un appello alle coscienze vive affinché la situazione sia compresa e giudicata con più verità e imparzialità. Bisogna certamente condannare l'ingiustizia. Ma è altresì necessario adottare criteri equi. Il genere di condanna deve corrispondere al genere d'oppressione. Più grave e flagrante è l'ingiustizia, più veemente e solenne dev'essere la riprovazione.

Allora bisogna pur chiedersi quale ricorso alla violenza è più biasimevole: quello perpetrato da pochi individui o quello organizzato dallo Stato? Quando diritti fondamentali dei cittadini sono violati dalle forze regolari tramite una strategia ufficialmente decretata da un Stato, l'offesa alla morale non è allora più oltraggiosa che se tali attività  -  pur sempre riprovevoli  -  fossero svolte da piccoli gruppi di ribelli incontrollati?

E' giocoforza dunque tracciare una distinzione fondamentale  -  e taluni l'hanno già formulata -  tra violenza esercitata dagli oppressori e violenza perpetrata dagli oppressi in stato di rivolta. I primi dispongono di poteri e di risorse che permettono d'imporre sistematicamente una sorta di metodico, permanente terrorismo; gli oppressi a loro volta trovano legittimo cedere a esplosioni di terrorismo nel tentativo di scrollare il giogo di tale sistema di violenza da cui non riescono a liberarsi. (...) Costatare come l'Occidente si affretti, in caso di violenza, a vilipendere e condannare solennemente gli oppressi, è motivo di profonda amarezza; il che spiega quanto poco conto gli oppressi facciano d'una opinione pubblica cosiddetta mondiale, ma difattì di parte e ingiusta.

Il diritto al ritorno contro la "legge del ritorno"

Simile discriminazione si replica, nell'attitudine dell'Occidente, sulla questione del «ritorno». Molti rifiutano di comprendere la determinazione dei palestinesi di far ritorno alla loro terra, ma pochi hanno il coraggio di metter in dubbio la famosa «legge del ritorno» inventata a favore degli ebrei del mondo per un ritorno che non può realizzarsi senza ingiuste spoliazioni.

Sotto quale pretesto, ad esempio. un ebreo immigrato dall'URSS può godere del diritto di preferenza sull'abitazione eretta in un terreno or ora confiscato ai palestinesi e sito in zona che lo Stato d'Israele si è annessa sfidando l'opinione della comunità internazionale e violando senza batter ciglio le convenzioni di Ginevra?

Siffatta ingiustizia è commessa frequentemente. Perché viene così raramente condannata?

Un popolo e dei valori

La violenza è a tutt'oggi in atto. I palestinesi vi fanno ricorso qua e là, e il mondo li condanna. Ma perché non condanna ancor più fermamente la permanente violenza di cui i palestinesi sono vittime?

Malgrado la documentazione che può illustrare tale situazione, si preferisce ignorarla. Per scusare l'oppressione si parla di repressione. Per attenuarne l'enormità la si chiama rappresaglia. Noi in Libano sappiamo quali atroci realtà coprono codesti ingannevoli eufemismi, che continuano a ingannare solo chi non vuol né vedere né sapere. (...) Centinaia di migliaia di palestinesi vivono con noi in terra libanese, e la nostra popolazione ne spartisce gli orrori delle rappresaglie.

Non possiamo tacere con voi circa l'avvenire di questo popolo.

Siamo dell'avviso che il futuro della fede e della carità in questa regione sia legato alla giusta soluzione del problema palestinese. Come sperare e come credere, quando l'arbitrio supremo è rimesso alla violenza delle armi? Come intravedere nel futuro una presenza cristiana in questi paesi se i palestinesi dovessero rimanere alla meré del fanatismo religioso e razziale d'uno Stato che pretente fondarsi unicamente sui principi d'ordine etnico e religioso? E' stato affermato a buon diritto che «il rispetto totale dei diritti inalienabili del popolo palestinese è un elemento indispensabile per una pace giusta e duratura» (ONU, assemblea generale 3.XII.1970) (...).

Riteniamo dunque di dover informare rettamente coloro in Occidente che ignorano e disconoscono la reale situazione dei palestinesi. Questi aspirano a veder realizzato in Palestina uno Stato laico nel suo governo e profondamente credente nei suoi figli, adepti delle tre grandi religioni monoteistiche. La testimonianza di vita che offre l'esperienza libanese permette d'augurare un futuro prospero a un simile Stato, solo se il fanatismo delle razze, tradizioni e interpretazioni ne fosse bandito.

La repressione non è la pace

In tali prospettive la pace diventa possibile. Col papa Paolo VI, siamo convinti che la pace è più che possibile; è un dovere (...).

La situazione arabo-israeliana illustra le parole del capo della chiesa, il quale rigetta «l'equivoco che confonde la pace con la debolezza, non solo fisica ma morale, con la rinuncia al vero diritto e alla giustizia.... Il papa continua: «Non è questa la pace. La repressione non è la pace. La vera pace dev'esser fondata sul senso della dignità intangibile della persona umana, da cui sgorgano diritti inviolabili e relativi doveri» (Cf. «Documentation catholique» n. 1646, p. 54).

Abbiamo ritenuto nostro dovere, venerabili fratelli, farvi giungere quest'appello. (...) Confidiamo che sarà ascoltato e accolto col medesimo spirito che ne ha dettato i termini (...).

Invitiamo ciascun fedele e ciascun gruppo di fedeli a dare ìl proprio contributo. Permetteteci, venerabili fratelli, d'invitare tutti i pastori della chiesa nel mondo a soffermarsi su questo dramma umano che vi abbiamo esposto e la cui soluzione coinvolge il futuro di tanti esseri umani e di tanti valori.

«La pace  -  dice ancora il papa  -  vive grazie alle adesioni, anche particolari e anonime, delle persone. Da singolare, l'affermazione della pace deve divenire collettiva e comunitaria. Deve divenire affermazione di popolo e della comunità dei popoli...» (Cf. «Documentation catholique» n. 1646, p. 54).

In tale contesto evangelico e autenticamente missionario, noi confidiamo questo messaggio fraterno alla vostra benevola attenzione, sicuri di trovare in voi  -  e, attraverso voi, in tutti i fedeli delle vostre chiese  -  l'eco più ampia e la risposta più generosa alla speranza che noi riponiamo nella vostra dedizione alla causa della pace (...).

9 luglio 1974.

(originale francese da «La Semaine Religieuse d'Alger», n. 15/187 del 10 ottobre 1974: trad. di E. Panella o. p.)

Archivio SMN I.C.102 B 74r Locutus est Dominus (resp. dom. Quinquag., la fede d'Abramo). Racconto per immagini della historia salutis dall'alto in basso lungo il tracciato verticale della L, muovi a destra nella base, e richiudi verso l'alto a sinistra.
finis

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