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dissoluzione del dialogo | a proposito | Nostra aetate | troppo religioso

Cristiani e musulmani.
Quando il dialogo è troppo religioso
,

«Vita sociale» 39 (1982) 161-70.

1 Segretariato per le relazioni con i non cristiani (1964) 5  La chiesa nel tempo
2 Orientamenti per il dialogo tra cristiani e musulmani (1969) 6 Chiesa/mondo. Rischio di decantazione
3 I sei capitoli di Orientamenti 7 Regola prima di Francesco d’Assisi, capitolo XVI
4 Concilii ecumenici:
Vienne (1311-12), Vaticano II (1965)
8 Quando la fede genera lo stato
 

"Zabazala" che significa?

9 Fede religioni società:
dialogo a triangolo  |
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1 Nella Pentecoste del 1964, 19 maggio, Paolo VI istituiva presso la Santa Sede il Segretariato per le relazioni con i non cristiani. Il concilio ecumenico Vaticano II si pronunciava espressamente sulle relazioni tra islàm e cristianesimo nella costituzione sulla chiesa Lumen gentium (2.XI.1964) e nella dichiarazione sulle relazioni con le religioni non cristiane Nostra aetate (28.X.1965). Si sono succeduti da allora incontri, simposi, congressi che hanno riunito rappresentanti cristiani e musulmani per riflettere su problemi comuni, su ciò che unisce e su ciò che separa, in un clima relativamente amicale. Incontri promossi ora da gruppi o centri d’amicizia islamo-cristiani ora da organismi ufficiali sia della Santa Sede, o del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che d’istituzioni islamiche, accademiche o governative. Un dialogo, come si suol dire, “organizzato”, che per sua natura e suoi soggetti non poteva non risultare elitario e di vertice.

Bisogna prenderne atto. Ma senza scandalizzarsi. Se le chiese cristiane sono in parte allogene alle unità politiche, la Umma (comunità dei musulmani) - al di là della comunione nella medesima fede - ritrova di fatto i propri soggetti raccolti nelle unità socio-politiche degli stati a tradizione musulmana emersí a sovranità giuridica nel riassetto politico seguìto alle due guerre mondiali. La partecipazione e l’iniziativa di base a movimenti religiosi e culturali seguono i ritmi e i gradi di partecipazione alla gestione reale della cosa pubblica; specie in società a tradizione musulmana dove il modello inglobante dell’islàm religione e polis (dìn-dawla) è perennemente attivo. La forza, la collocazione geo-politica, l’indirizzo di politica culturale e religiosa dei singoli stati imprimeranno direzioni e intenti diversi al “dialogo organizzato” con i partner cristiani. Così le visite scambiatesi l’Alto Consiglio Islamico del Cairo e il Segretariato per i non cristiani prima a Roma (dicembre 1970) e poi al Cairo (settembre 1974); la visita della delegazione dell’Arabia Saudita, presieduta dal ministro della giustizia, alla Santa Sede e organismi vaticani (ottobre 1975); il più imponente simposio, patrocinato dal governo libico e promosso dall’Uniohe Socialista Araba col Segretariato romano per i non cristiani (febbraio 1976). Colloqui simili sono stati promossi in quest’ultimi anni in Europa, Asia e Africa dalla commissione per il Dialogo con Credenze e Ideologie del nostro tempo (DCI) del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Nessuno, a dire il vero, ha mai riposto smoderate speranze in tale tipo di dialogo, neppure coloro che ne sono stati promotori e attori in prima persona. Ma il fatto che musulmani e cristiani, sia pure del cerchio dell’intelligencíja aperta e illuminata, si ritrovino a scambiare e dibattere problemi comuni, con reciproco rispetto e onesta attitudine di mente a meglio conoscersi gli uni gli altri, non è di poca importanza. Un filo di comunicazione è stato stabilito. Fragile e isolato, se si vuole. Ma è quanto ragionevolmente permetteva la non remota storia di affronto o d’indifferenza tra i due mondi.

2. Ai primi entusiasmi e ai primi passi sulla strada del dialogo è succeduta una fase di sosta, quasi di riflessione. A che punto si è? Quali i soggetti del dialogo? Su che cosa e come dialogare? Coincidenza con la riscossa della coscienza islamica di quest’ultimì anni, col peso crescente dei paesi arabo-musulmani nella scena politica internazionale, con la riproposta di polís íslamica dell’esperienza iraniana, con la resistenza afgana dall’impulso nazional-confessionale, con le tendenze reislamízzatrici delle strutture statuali in molti paesi a maggioranza musulmana?

Nel 1969, a ridosso del Vaticano II, il Segretariato romano per i non cristiani aveva pubblicato un aureo libretto Orientamenti per il dialogo tra cristiani e musulmani (ed. ital., EMI, Bologna 1970). A distanza di poco più di dieci anni il medesimo Segretariato sente il bisogno di riflettere sull’esperienza dei primi tentativi, di approfondire il soggetto, di dare nuove dimensioni al dialogo della chiesa cattolica col mondo islamico. Maurice Borrmans, padre bianco, illustre studioso di etica e diritto islamici, s’incarica di redigere il testo usufruendo dei suggerimenti e della collaborazione dei consultori del Segretariato: Orientations pour un dialogue entre Cbrétiens et Musulmans. Nouvelle éditìon entìèrement revue et corrigée, Les Éditions du Cerf, Paris 1981, pp. 191.

Il testo è un modello di “spiritualità del dialogo”, maturato nella chiesa cattolica del dopoconcilio. È diretto principalmente a lettori cattolíci; ma ogni cristiano - e ogni musulmano - vi troverà termini, condizíoni e problemi perché portatori di tradizioni religiose diverse possano incontrarsi, condividere valori comuni, arricchirsi dei valori altrui, collaborare; e soprattutto rispettarsi nelle reciproche diversità.

I caratteri generali di questi Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani saltano subito agli occhi: non cristianesimo e islàm a confronto, ma cristiani e musulmani, i portatori storici delle rispettive tradizioni religiose. Vengono tratteggiate, ovviamente, le grandi linee teologiche delle due fedi e le loro implicanze etiche e sociali, ma intraviste nelle persone che di fatto vivono la propria identità religiosa e che risultano gli attori dell’incontro. Con estrema franchezza sono illustrate le profonde realtà comuni alle esperienze religiose di tradizione abramitica, ma non si tacciono le divergenze che marcono identità e originalità della fede cristiana e di quella musulmana. Affronti del passato - militari e ideologici - incomprensioni, disinformazione sono evocati con tratti discreti, quanto basta a trarne lezione per il presente. Punto di partenza del dialogo è una onesta, completa e oggettiva conoscenza reciproca. Il musulmano dovrebbe potersi riconoscere (chi è e che cosa vuol essere) nel disegno tratteggiato dall’interlocutore cristiano; quest’ultimo dovrebbe potersi riconoscere nel disegno tratteggiato dall’interlocutore musulmano. Riferimenti storici, biblici, coranici, caratteri della psicologia personale e collettiva degli interlocutori, modelli etici e sociali delle due comunità sono descritti con pertinenza e sobrietà nel medesimo tempo. Prevale la fiducia nel domani e nell’azione dell’unico Dio che ha in mente, da tempi antichi, di fare «tra tanti popoli un solo popolo». Ma non s’ignorano gl’inceppi del presente e i condizionamenti storici.

3. Il testo è distribuito in sei capitoli.

I. Interlocutori del dialogo. Si definisce a grandi tratti la collocazione degli ínterlocutori: il cristiano, le sue chiese e comunità; i musulmani: elementi di unità dell’Umma islamica, le diversità culturali, nazionali e dottrinali all’interno del vastissimo panorama delle popolazioni musulmane, inclusi i musulmani della diaspora nei paesi occidentali.

II. Luoghi e vie del dialogo. Sono abbozzati gli elementi della spiritualità del dialogo: accoglienza, comprensione, condivisione nella vita quotidiana, collaborazione, progetto divino di salvezza, conversione a Dio, riconciliazione tra gli uommi.

III. Riconoscimento dei valori altrui. Vi si descrivono i valori religíosi di base in cui cristiani e musulmani trovano di fatto comune terreno di vita e d’intesa, pur nelle divergenze che tali valori prolungano nelle rispettive comunità: fede e sottomissione a Dio, centralità della rivelazíone, imitazione dei modelli profetíci, solidarietà nelle comunità di fede, culto di Dio, osservanza dei precetti divini, superamenti ascetici e mistici nello sviluppo della vita di fede.

IV. Ostacoli al dialogo. Ingiustizie e incomprensioni del passato, rappresentazioni deformate della fede dell’interlocutore; radicali diversità su punti centrali delle rispettive fedi e modelli di comunità.

V. Collaborazione a livello umano. A servizio dell’uomo e della sua dignità, impegno comune nella società e mondo contemporaneo per promuovere la dignità del matrimonio, della famiglia, della donna, la cultura e l’istruzione, la crescita economica e sociale di tutti gli uomini, la pace internazionale tra i popoli.

VI. Le convergenze religiose possibili. Il mistero di Dio, il ruolo della Parola rivelata e dei profeti, ecclesialità e proclamazione della fede, preghiera, vie alla santità.

Il volume chiude con una guida bibliografica (pp. 181-87).

4. Nel corso di quattordici secoli dalla nascita dell’islàm, la chiesa si è pronunciata ufficialmente due volte tramite il supremo organo della propria espressione di fede e di vita ecclesiale: nel concilio ecumeníco di Víenne (1311-12) e nel concilio ecumenico Vaticano II (1962-65).

Concilio ecumenico di Vienne (1311-12), canone 25:

È offesa al nome di Dio ed insulto alla fede cristiana il fatto che in regioni soggette a prìncipi cristiani, dove saraceni vivono o isolati o frammisti a cristiani, i loro sacerdoti - detti Zabazala in volgare - in determinate ore del giorno, nei loro templi o moschee (mesquitis) dove ì saraceni si radunano per adorare il falso Maometto (perfidum Machometum), tutti i giorni, in determinate ore, in luogo ben visibile invocano ed esaltano a gran voce - udibile da cristiani e saraceni - il nome del detto Maometto e proclamano parole in lode di costui; inoltre gran moltitudine di saraceni si porta da ogniddove presso il sepolcro d’un saraceno, dove costui viene venerato come santo. Tutto ciò nuoce non poco alla nostra fede e genera grave scandalo nei cuori dei fedeli.

Poíché cose siffatte sono d’offesa alla maestà divina e quindi da non tollerare, noi, con l’approvazione del sacro concilio, strettamente proibiamo a tutti e singoli i prìncipi cristiani nel cui territorio dimorano saraceni e accadono tali cose, e in ossequio al divino giudizio imponiamo che essi, da veri cattolici, zelatori della fede cristiana e ìn vista del premio della beatitudine eterna, rimuovano dalle loro terre siffatto abbrobrio, espressamente proibendo per l’avvenire la pubblica professione e invocazione del nome del sacrilego Maometto (sacrilegi Machometi) e il sopraddetto pellegrinaggio. Siano inoltre puniti, a motivo della divina riverenza, quanti avessero presunzione di contravvenire, cosicché dissuasi da esemplare penitenza altri non osino fare altrettanto (originale latino in Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1972, 380; il decreto ha in vista le regioni d’Andalusia).

Il testo del concilio - si noti - fu inserito nel corpo delle Decretali, cioè nel diritto canonico del tempo (Clementine V, 2 cap. un., promulgazione 1317) e divenne norma attiva nel diritto pubblico della chiesa fin quando rimase in vigore l’antico Corpus iuris canonici (2), in linea di principio fino al Codice di diritto canonico del 1917.

 n      Commento (glossa ordinaria) del giurista Giovanni d’Andrea († 1343) al decreto di Vienne, ricevuto nelle Decretali Clementine (= corpo del diritto canonico del tempo), alla voce “Zabazala”: «Ebbi informazione da Giovanni tesoriere del re di Francia, a suo tempo prigioniero dei saraceni per quattro anni, che la parola [Zabazala] è errata. I saraceni infatti hanno due tipi di sacerdoti: i primi sono chiamati Foqui [al-faqìh: giureconsulto] al singolare, Foca [al-fuqahá] al plurale... ; i secondi sono chiamati Alhages [al‑hàjj: chi fa il pellegrinaggio]... Ogni moschea ha un sacerdote dei primi, e un ministro chiamato Muerdem [mu’adhdhin: muezzino], che significa banditore, e che supplisce alle [nostre] campane... Le ore dell’appello alla preghiera sono cinque: la prinia è l’aurora, chiamata Zalazobh [salàt al-subh] che significa appunto preghiera mattutina; e forse proprio questo termine ha dato occasione all’errore della parola [Zabazala] male intesa quando proclamata dal banditore» (Decretali con glossa, Clementine V, 2: ed. Roma 1584, 184b). Di fatto in islàm non esiste sacerdozio, né Zabazala del testo conciliare trova ragione nelle istituzioni islamiche; può esser spiegato come deformazione per metatesi di salàt al-subh (preghiera dell’aurora), come suggerito dal glossatore; oppure come corruzione di zamàn al-salàt, tempo della preghiera ufficiale. Ad ogni modo non è soltanto in questo dettaglio che il testo conciliare dà prova di grave disinformazione e deformazione della realtà dell’islàm andaluso.

 Concilio ecumenico Vaticano II, dichiarazione Nostra aetate (28.X.1965) n° 3:

La chiesa guarda anche con stima i musulmani (muslimos), i quali adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutta l’anima ai decreti di Dio anche nascosti, come a Dio si sottomise Abramo, a cui la fede islamica (fides islamica) volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta, e onorano la sua madre vergine Maria, e talvolta anche la invocano con devozione. Inoltre aspettano il giorno del giudizio quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure essi stímano la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.

Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacro concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori, morali, la pace e la libertà.

5. Certo, distanza di tempi e diversità di situazioni storiche “spiegano” l’iniziale stupore di vedere il medesimo soggetto (concilio ecumenico) parlare del medesimo oggetto (musulmani) con opposto linguaggio. A patto però che “tempi” e “situazioni” non siano invocati quali elementi esterni ed escusatori anziché come categorie strutturalmente coesistenti con le vicende della chiesa e della fede; aventi con queste rapporti diversi a seconda del rapporto che la chiesa e la fede hanno stabilito con la società degli uomini. Tempi e situazioni al di fuori dei quali la chiesa non potrebbe esprimere né la sua presenza storica né la proclamazione della Parola (sacramentum salutis). Tempi e situazioni che la fede deve costantemente scrutinare al vaglio evangelico perché secondino il “rapporto d’incarnazione” (conversione e assunzione) col mondo, ma che non può impunemente ignorare, visto che fede e chiesa del Verbo íncarnato non si danno se non nel tempo e nella socialità. Distanza di tempi e diversità di situazioni mal spiegherebbero il fatto che appena otto anni prima della dichiarazione Nostra aetate, Pio XII nell’enciclica Fidei donum del 27.IV.1957 (un documento peraltro di notevole importanza nella teologia e prassi della missione) ancora denunciava l’espansione islamica in Africa come un «ostacolo» al progresso dell’evangelizzazione, cosa che non si poteva considerare, «senza vivo dolore» (cfr. Acta Apost. Sedis 39 [1957] 230-31).

Le congiunture - e le collusioni - economico-politiche che hanno ispirato sentimenti e fatti ostili ad altre tradizioni religiose sono giustamente e fortemente denunciate dai promotori postconciliari del dialogo interreligioso. Siamo anzi invitati a vigilare a ché il dialogo non pieghi a interessi e schieramenti estranei ai valori religiosi. Contro le pressioni a suo tempo esercitate sull’attitudine negativa delle chiese verso le religioni non cristiane dalla collateralità con determinati sistemi ideologici e politici, si avverte l’acuto bisogno di definire spazi rigorosamente religiosi in cui il dialogo possa svolgersi senza inquinamenti di sorta: «Cristiani e musulmani sono condotti, dalle loro motivazioni profonde, a prospettare le dimensioni propriamente religiose del loro dialogo» (Orientations, p. 49). L’islàm ha un duplice progetto, uno di civilizzazione l’altro religioso: «tenendo conto dei primo progetto, abbiamo qui tentato di valorizzare le chances e i limiti di oggi per il dialogo sul piano del secondo, cioè del dialogo religioso tra cristiani e musulmani» (ivi, p. 167). Ritrarre il religioso dal sociale (in tutte le sue componenti) appare l’unica condizione per contenere i rischi della strumentalizzazione, eliminare gli agenti di disturbo, riportare l’incontro sul terreno “proprio” del dialogo tra due tradizioni religiose; ne restituisce anzi le condizioni stesse del suo sorgere e svilupparsi. La decantazione raggiunge vertici altissimi: «Possono forse i cristiani dimenticare che il loro dialogo con i musulmani sarà relativamente più facile se esso parte ínnanzitutto dall’assoluto di Dio, sebbene possa svilupparsi anche a partire da un impegno comune al servizio della dignità dell’uomo?» (ivi, p. 19). Non c’è dubbio che riconoscimento e perdono delle reciproche passate ingiustizie devono creare nuove condizioni all’incontro del musulmano col cristiano: «Liberando i valori religiosi, cristiani e musulmani, dalle ingiustizie della storia commesse dai credenti, o loro falsamente attribuite, sarà possibile prospettare un pari oblìo presso gli attuali fedeli» (ivi, p. 99).

6. Posto così il rapporto tra “il religioso” e “il sociale” (e intendo per sociale le dimensioni storiche e reali in cui l’esperienza religiosa collettiva di fatto si esprime), la distinzione tra vicende della fede e vicende della storia è spinta a un’ipostatica separazione di diritto. Solo quando - per accidente di fortuiti concorsi - la commistione si è malauguratamente verificata, allora i condizionamenti politici hanno inquinato “il religioso”. Stando così le cose, vi si potrebbe trovare anche congruo argomento escusatorio: «I cristiani devono dunque spiegarsi su queste “inimicizie del passato”, ricordarsi che i fattori economici, ideologici e politici vi hanno svolto un ruolo tanto importante quanto i fattori religiosi, se non superiore, e devono incoraggiare i partner musulmani, grazie alla propria autocritica, a relativizzare quanto più le responsabilità delle due religioni negli avvenimenti dolorosi della loro storia comune» (ivi, p. 98).

È vero che la fede trascende le proprie espressioni, il dogma trascende la propria formulazione, la chiesa trascende la società in cui s’incarna, il regno di Dio trascende ogni storica realizzazione del popolo di Dio. È un punto irrinunciabile d’ogni fede che trae le proprie origini e il proprio alimento dalla parola di Dio e dal progetto messianico di fare «di molti popoli un solo popolo». E chi non sottoscriverebbe le raccomandazioni di Orientations, p. 109: «L’interlocutore cristiano dei musulmani deve, ancora una volta, saper distinguere tra fatti e diritto, tra le realizzazioni - sempre imperfette - e il progetto che le trascende e che mira a farsi perfetto»?

La fede trascende la storia, la chiesa trascende la società, la religione trascende il temporale. Il primo termine “trascende” il secondo perché mai pienamente realizzato nel secondo, perché mai esaurito dal controtermíne (dunque i due termini non s’identificano); non certo perché possa sussistere senza il secondo. Il linguaggio di fede trascende il linguaggio dell’uomo, ma non significa senza il secondo. La chiesa trascende le forme storiche che si dà entro una data società, ma non è sacramento senza la società. È la legge dell’incarnazione. Il religioso trascende il sociale e il politico. Ma non conosciamo esperienze religiose collettive che sussistano fuori e senza le strutture storiche della società, dal linguaggio ai simboli, alla cultura, alle forme di produzione, agli ordinamenti politici ecc. Questi non sono soltanto dei luoghi o recipienti del religioso (così come la parola non è recipiente del significato di fede), né sono tangenti esterne dell’esperienza religiosa, specie quando espressa in comunità di credenti (religioni, chiese ecc.); ma sono costitutivi dei contenuti stessi dell’esperienza religiosa. Il linguaggio di fede preme per oltrepassare questa parola del linguaggio dell’uomo, ma esso non significa se non tramite questa parola e tramite i significati che il sistema linguistico attiva in questa parola. Partiamo «dall’assoluto di Dio» per stabilire una comune intesa di fede? Ma supposto che “assoluto di Dio” già significhi alcunché per il cristiano e per il musulmano, quali i contenuti e quale la loro origine? Il lemma “Dio” del testo del concilio ecumenico di Vienne era portatore della medesima esperienza religiosa (conoscenza e prassi di fede) del “Dio” del testo del Vaticano II? Non sembrerebbe, se se ne traggono valori e atti orientati in opposte direzioni. I contenuti storici (i “tempi e situazioni diversi” di cui si diceva all’inizio) assunti ed espressi nell’atto religioso avevano maturato una diversa “conoscenza” di Dio, e dunque una diversa prassi pastorale. Lì ossequio divino comportava repressione del culto islamico, qui comporta riconoscimento dei doni di Dio nella fede altrui. Il rapporto che la chiesa aveva stabilito col mondo nella concrezione storica della respublica christiana non era una tangente dell’esperienza religiosa, ma determinava per intrinseca logica l’eliminazione della dissidenza ideologico-politica, fosse quella dei catari, degli ebrei o dei musulmani d’Andalusia; come dire che produceva sgnificati della conoscenza di “Dio” e generava atti reclamati dalla “fede”.

7. Francesco d’Assisi non espunse il mondo (né ci sarebbe riuscito, d’altronde) dalla sua conoscenza di Dio quando scrisse il capitolo XVI della prima Regola (non bollata), sulla missione presso i saraceni e i pagani, De euntibus inter saracenos et alios infideles: ma invertì il rapporto chiesa‑mondo sulle esigenze del vangelo. Di fatto tutto restò come conversione “dell’individuo”, come dire “il dialogo delle persone”: la chiesa nella sua socialità (il sociale non è la somma delle persone) rispondeva ad altre esigenze, e così fece sopprimere il capitolo XVI nella seconda e definitiva Regola dei Frati Minori. Ieri come oggi. Argentini e inglesi pregano la domenica un medesimo Dio mentre fanno morti nell’atlantíco australe? E pregano un medesimo Dio irakeni e iraniani mentre fanno morti nella guerra di frontiera? Partire dall’assoluto di Dio potrebbe significare partire da una larva, se i contenuti conoscitivi ed operativi che il credente elabora giorno per giorno nella trama della propria esistenza non fossero costantemente assunti e vagliati nella parola, nel sacramento, nell’obbedíenza, nella preghiera, nella grazia che lo stabiliscono davanti a Dio e costantemente ne saggiano verità di conoscenza e di rapporto. I contenuti reali che si raccolgono nel lemma “Dio” e ne qualificano il nostro rapporto con lui e col prossimo - e dunque il senso della nostra esperienza religiosa - non si danno da soli come punto di partenza assoluto ma sono frutto del particolare rapporto stabilito tra fede e mondo, tra fede e storia, tra fede e vita e suoi molteplici quotidiani accadimenti.

8. Le dimensioni storiche (dalle culturali alle sociali alle politiche ed economiche) non esauriscono l’esperienza religiosa (dunque «non s’ídentificano con»), ma queste non sono coesistenze accidentali dei fatti religiosi. Nel cristianesimo come nell’islàm; sia pure con diverse ragioni, che imprimeranno rapporti diversi e giudizi diversi tra “il religioso” e “lo storico”.

Le Orientations, pp. 107, 158, hanno ragione a invitare i cristiani, e soprattutto i musulmani, a non insistere in una visione «globale e quasi totalitaria» della loro religione che, quando presume derivare con mecca nica conseguenzíalità dal progetto di fede (quasi per omogenea estensione di sé) forme e strutture della polis, darà necessariamente esiti teocratici; mentre pluralità ideologica e confessionale, laicità, diritto delle minoranze religiose sono là a testimoniare l’impraticabilità della restaurazione di tale modello di comunità politica. Il che da una parte comporta presa di coscienza che il sociale ha originalità e dinamismo propri coi quali convíene confrontarsi sul loro specifico terreno, dall’altra non può dispensare il religioso dal prendere posizione circa forme e strutture della costruzione della società, vìsto che esperienza religiosa e comunità di fede non sussistono se non entro la comunità degli uomini. Si prenda il caso delle minoranze religiose non musulmane in paesi a legislazione più o meno islamica. Il non musulmano sarà cittadino di seconda classe, soggetto allo statuto legale di «protezione» (dhimma), se la struttura statuale trae forme e assetto dal Corano e dalla Sunna. Vedi, recentissima, la Dichiarazione islamica universale del 12.IV.1980 e la Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo del 19.IX.1981 del Consiglio Islamico d’Europa. Questo secondo testo - a prima vista meno teocratico del primo - afferma principi di grande valore sulla dignità e diritto dell’uomo, ma li fonda «nel nostro obbligo di stabilire un ordine islamico» (Preamb. g); le leggi della polis umana devono conformarsi alla Legge (sharì‘a) (Preamb. g. 7). Nell’art. 10 si affermano i diritti delle minoranze religiose, ma l’art. 11 dice che l’esercizio delle funzioni pubbliche spetta ai membri della Umma. Nell’art. 13 si afferma il diritto alla libertà religiosa, ma tutti sappiamo il valore della reticenza: non si fa menzione del diritto di cambiar religione.

9.  Bisogna dire - e risulta involontariamente ironico - che è stata la società pluralistica e laica, frutto dell’evoluzione liberal-borghese dei paesi occidentali del XIX e XX secolo ad esprimere modelli statuali dove confessioni religiose godessero uguali diritti: quando e dove le religioni hanno perso la forza politica di progettare in proprio la società civile (dissoluzione della societas christiana nell’Europa latina e dissoluzione del califfato nella geografia politica dell’islàm). E va riconosciuto sul piano storico che né cristianesimo né islàm hanno prodotto per loro interno dinamismo comunità civili in cui non cristiani, o non musulmani, godessero pari diritti in società rispettivamente “cristiane” e “islamiche”. E se in contesto occidentale sono venute meno le condizioni storiche che possano far pensare a una riproposta inglobante di “società cristiana”, non fanno però difetto spinte isolate a reclamare leggi civili che esprimano i valori della fede cristiana. Sì tratta di movimenti e istituti ecclesiali di notevole successo in questi ultimi anni, che una forte carica “religiosa” spinge a investire il sociale e il politico. Il cristiano invoca deislamizzazione a simili movimenti integristi in paesi a maggioranza musulmana.

Resta che valori possano provenire anche da movimenti storici di matrice laica, al di là - per intenderci - del terreno coperto dalle religioni. E se tali valori coinvolgono cultura e polis - senza le quali né il linguaggio religioso può darsi parola né le chiese possono darsi corpo sociale - allora il terzo polo del dialogo (la secolarità) non può non entrare di diritto e immancabilmente come elemento necessario del dialogo “religioso”, quando questo implica, per sua stessa natura, analisi culturali del suo conoscere e forme sociali del suo porsi. Un esempio. Cristiani e musulmani dialogantì riconoscono come debito luogo della loro testimonianza la promozione della dignità del lavoro, s’impegnano anzi a collaborare per superare situazioni di poverta e d’oppressione, per instaurare - in altre parole - la giustizia. La Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, di cui sopra, pone così il problema nell’art. 17:

«L’ islàm onora il lavoro e il lavoratore e ordina ai musulmani di trattare il lavoratore certo con giustizia, ma anche con generosità. Non solo egli deve ricevere prontamente il salario che ha guadagnato, ma ha anche diritto a un riposo e a sufficienti svaghi».

Né qui né altrove il testo determina in che ruolo il lavoro debba entrare nel processo produttivo. Il lavoro è scambiato col salario. La giustizia interviene “dopo”: l’operaio deve esser trattato con giustizia. Ma in base a quali analisi sono fissati i contenuti e i termini della giustizia da rendere al produttore di ricchezza? Si assume, senza dubbi di sorta, il lavoro scambiato col salario. Non si potrebbe ritenere che le strutture d’origine e di trasmissione d’ingiustizia siano già state poste e ratificate?

L’istanza religiosa, in quanto tale, non rivendica analisi in proprio sullo specifico della questione, pena l’integrismo (vedi interessanti considerazioni sull’ integrismo in Vita sociale n° 200, marzo-apr. 1982, pp. 116-30, specie p. 121). Eppure l’istanza religiosa si fa pubblico carico dell’instaurazione della giustizia. Non dovra allora “il religioso” dialogare “col laico” (nella specificità del sapere profano e della costruzione della società civile) per assumere le analisi dei processi d’ingiustizia, e collaborare eventualmente col laico nel comune progetto d’una comunità umana più gíusta?

Le religioni dialoganti o includono nelle funzioni conoscitive e operative del loro dialogo i contributi della secolarítà (dal culturale all’economico al politico) - un’assunzione critica e dialettica -, e allora sapranno render ragione della testimonianza delle dimensioni del Regno del loro messaggio; oppure recintano “il religioso” contro i condizionamenti socio-politici, e allora decreteranno la loro irrilevanza nella comunità e nella storia dell’uomo. Solleveranno perfino sospetti sulle loro buone intenzioni. Il simposio di Tripoli del 1976 può esser credibilmente rivendicato a volontà di “dialogo esclusivamente religioso” se la controparte díalogante di fatto ha per soggetto lo stato libico di Gheddafi, o se il partner musulmano vive la propria esperienza religiosa in sostanziale e ínscindibile concrezione di religione e politica?

Quale modello di giustizia e quali schieramenti sociali sono già consumati quando si esorta ad esser «generosi con l”operaio», a pagargli «prontamente il salario che ha guadagnato», a riconoscergli «il diritto a un riposo e a sufficienti svaghi», se si assume che la funzione sociale del lavoro è di scambiarsi col salario?

finis

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