dissoluzione del dialogo | a proposito | Nostra aetate | troppo religioso |
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dieci anni dalla dichiarazione “Nostra aetate”. «Vita sociale» 32 (1975) 299-307. - §§ 3-4 anche in «Memorie domenicane» 6 (1975) 398-403 - |
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Nostra aetate | 3 | Islamochristiana [= MD 6 (1975) 398-403, recensione] | |
1 | caso islàm | 4 | riflessìoni conclusive |
2 | Paolo VI | ë |
Il documento Nostra aetate, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristane, del concilio Vaticano II (28 ott. 1965) è passato quasi sotto silenzio. Forse perché intemperate spinte di rinnovamento e repentini conflitti di strutture interne hanno occupato i pensieri delle antiche chiese cristiane d’occidente. O forse perché un testo ímprogrammato e sortito, a dispetto di tutti, dalle stesse vicende conciliari, conteneva novità dottrinali e pastorali da lasciar perplessi, finanche frastornati, molti strati tradizionali della chiesa cattolica. E come non intuire, sia pure confusamente, che se Dio fa il suo popolo dalla comunità degli uomini tutt’intera (Nostra aetate n° 1; Lumen gentium n° 13), se le molteplici confessioni religiose raccolgono l’ansia d’ogni uomo di scrutinare i «reconditi enigmi della condizione umana» (Nostra aetate n° 1) e fanno parte d’un unico piano universale di salvezza per quel che «di vero e di santo» contengono (ib. n° 2), allora come non intuire - si diceva - che molte cose di casa nostra sarebbero forzate ad una riconversione che non elude né stupori né inerzie?
1. Si prenda il caso dell’islàm.
Tutti conosciamo l’infelice storia dello scontro dell’islàm arabo prima, di quello turco-mongolo poi e di quello ottomano con l’Europa “cristiana”. Ancestrali fantasmi di “saraceni” e di “turchi” ancora inàbitano le nostre paure collettive. Il protocollo del dialogo post-conciliare a stento raffrena il cattolico ossequio dal dar parola a innominati sentimenti di scherno per “Maometto e le sue mogli”. La cultura di rotocalco ancora occupa il proprio erotismo a fabulare, dietro il velo delle musulmane, di odalische d’oltremare e di beduine gelosie. E i quotidiani politici d’occidente non hanno creduto recentemente di trarre possibilità d’arguzia da una contaminazione tipo “Allah e il suo petrolio”? Ignoranza e disinformazìone hanno nutrito per secoli il subconscio emotivo del cristiano d’occidente nei riguardi dell’islàm.
Bisognerebbe riandare la letteratura latina medievale e rinascimentale sull’islàm (ma allora si diceva “saraceni, mauri, secta machumetica” e simili) per cogliere all’origine fatali errori di fonti e di testi che hanno sviato irreparabilmente la conoscenza dell’islàm nell’Europa cristiana. La frattura politico-militare dei due mondi ha creato un vuoto culturale e impedito per secoli accesso alle fonti e scambi letterari. La riflessione cristiana sull’islàm ne fu irrimediabilmente compromessa. Il cristiano d’oggigiorno, sollecito della Buona Notizia di Gesù, avrebbe un gran daffare a contenere i propri rossori se dovesse scorrere quanto dell’islàm hanno scritto concili (es. concilio ecumenico di Vienne) e papi (es. Innocenzo III). Eppure questo fa parte della storia della propria fede.
Ecco perché la dichiarazione Nostra aetate ha un che di sconcertante, sia a motivo dell’ineccepibile documentazione di cui fa uso nel trattare dell’islàm (come delle altre religioni) sia per l’audacia teologica con cui persuade il credente a un giudizio evangelico del suo passato di fede.
La chiesa guarda anche con stima i musulmani (muslimos), i quali adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutta l’anima ai decreti di Dio anche nascosti, come a Dio si sottomise Abramo, a cui la fede islamica (fides islamica) volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta, e onorano la sua madre vergine Maria, e talvolta anche la invocano con devozione. Inoltre aspettano il giorno del giudizio quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure essi stímano la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.
Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacro concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori, morali, la pace e la libertà (Nostra aetate n° 3. I migliori commenti al testo: R. Caspar, La religion musulmane, in Les relations de l’Eglise avec les religions non chrétiennes, Paris 1966, 201-36; G.C. Anawati, La religione musulmana, in Le religioni non cristiane nel Vatìcano II, Torino (LDC) 1966, 171-97).
Solo dieci anni prima, Pio XII parlava dell’islàm e della sua espansione in Africa come uno degli ostacoli (dopo il materialismo ateo) all’evangelizzazione dei popoli africani:
Ma mentre i nemici del nome di Dio esplicano su quel continente i loro sforzi insidiosi o violenti, bisogna denunciare altri gravi ostacolì che contrariano in certe regioni i progressi della evangelizzazione. Conoscete in particolare la facile attrattiva esercitata su gran numero di spiriti da una concezione religiosa della vita che, pur appellandosi con forza alla Divinità, trascina nondimeno i suoi seguaci in una via che non è quella di Gesù Cristo. (…) Noi non possiamo considerare un simile stato di cose senza vivo dolore (enciclica Fidei Donum, 21.IV.1957: Acta Apostolicae Sedis 39 (1957) 230-31; Osservatore Romano 27.IV.1957).
L’enciclica ebbe le sue chiose del medesimo tenore nella letteratura di missiologia cattolica.
2. Durante l’intersessione del Vaticano II (dicembre ’63 - settembre ’64), eventi di vita civile ed ecclesiale fanno maturare i germi di Nostra aetate. Ma questi sono ancora dibattutissimi punti sparsi, a stento confluenti in un abbozzo di «schema» extravagante, ora riallacciato al documento sull’ecumenismo, ora trasferito come appendice allo schema «de ecclesia», finalmente impostosi come dichiarazione autonoma. Paolo VI si reca pellegrino in Terra Santa. Ospite d’Israele e della Giordania - e dunque in atteggiamento d’umile interlocutore dì non cristiani - rivolge parole di stima a ebrei e musulmani (gennaio ’64). Il papa matura nel frattempo una profonda riflessìone di fede sulla chiesa aperta al mondo e agli altri (enciclica Ecclesiam suam, 6 ag. ’64); rivolge la parola a rappresentanti delle religioni non cristiane dell’India in occasione del congresso eucaristico di Bombay (2-5 dic. ’64); fa visita all’assemblea generale delle Nazioni Unite e si rivolge ad un uditorio che sollecita dalla Chiesa «un messaggio per tutta l’umanità», «un colloquio con il mondo intero» (Allocuzione di Paolo VI all’ONU, 4 ott. 1965). La Populorum progressio (26 marzo ’67) dà contenuto sociale e politico a tale sguardo della chiesa cattolica sul mondo.
Nel frattempo viene creato presso la curia romana il Segretariato per le religioni non cristiane (19 maggio ’64), con una sezìone islàm; questa acquista recentemente la figura di «Commissione per l’islàm», parallela a quella per l’Ebraismo (Osservatore Romano 23 ott. 1974). Nel ’66 il segretariato ìnizia la pubblicazione del suo organo ufficiale Bulletin, Secretariatus pro non Christianis, in edizione francese e inglese (unificata a partire dal ’74); fanno seguito pubblicazìoni collaterali sulla teologia delle religioni non cristiane e dialogo interreligioso.
3. Mancava, al di là degli organismi ufficiali della curia pontificia, un punto d’incontro e di confronto culturale tra cristiani e musulmani. L’Institut Pontifical d’Etudes Arabes (IPEA; «Centre d’Etudes pour le Dialogue Islamo-Chrétien», Roma) provvede da circa un decennio all’insegnamento altamente qualificato delle scienze islamiche (e della lingua araba) ìn una prospettiva ecumenico-pastorale. Ora appare il primo numero della rivista che vuol essere l’organo ufficiale dell’IPEA: Islamochristiana, Islàmiyyàt Masìhiyyàt. Esso intende essere - si dice nella presentazione - «uno strumento scientifico del dialogo tanto desiderato tra cristiani e musulmani» (Islamochristiana 1 (1975) p. V). Più in particolare:
Se gli uni e gli altri vogliono fare «l’opera di Dio», devono in effetti inventare i mezzi e il linguaggio della «riconciliazione» cosicché, nel rispetto assoluto dell’altro «quale egli vuol essere», cristiani e musulmani scoprano insieme il «senso» della loro comune fede in Dio unico, «vivente e misericordioso», attraverso la diversità delle loro teologie, delle loro liturgie e delle loro spiritualità. (…)
È in questo spirito che Islamochristiana vorrebbe aiutare gli unì e gli altri a esprimersi, spiegarsi e comprendersi, in vista d’una più totale fedeltà a Dio, pur consapevoli dei brancolamenti e balbettii che ciò suppone, così come delle audacie (audaces) e talvolta delle temerità (outrances) più generose (p. VI; originale in francese).
Il medesimo Liminaire fa menzione delle difficoltà, delle remore, dei bloccaggi di cui è seminata la storia della convergenza delle due religioni fin in tempi recentissimi. Ci sono «dialoghi irenici e facili - si dice ancora -, dove il protocollo e le buone maniere sono di regola; e ci sono dialoghi “dialettici” e vigorosi dove ciascun partner si mostra esigente di fronte al proprio interlocutore, perché in fin dei conti sa d’andare ìn cerca della verità, di Dio e d’un più grande rispetto per l’altro» (p. VI).
Tale la prospettiva con cui Islamochristiana si presenta a qualunque credente abbia caro l’approfondimento della conoscenza - e corresponsabilità - della volontà di Dio su tutta la storia e su tutti gli uomini.
La redazione e il comitato di redazione sono costituiti dallo staff dell’IPEA, ma un’ampia lista di collaboratori permanenti presenta nomi illustri sia di cristiani che di musulmani già da tempo impegnati nel dialogo interreligioso. La rivista è altresì aperta a qualsiasi collaborazione esterna «musulmana e cristiana» che intende approfondire «la mutua comprensione nella meditazione dell’insondabile mistero del piano di Dio e della condizione umana» (p. VII).
Il primo volume d’Islamochristiana non smentisce né i propositi né le promesse. Annoto il contributo finale, prima parte d’un monumentale progetto di lavoro storico: Bibliographie du dialogue islamo-chrétien, pp. 125-81, frutto di collaborazione scientifica tra cristiani e musulmani. Si tratta - come il coordinatore R. Caspar <mio professore all’IPEA nel lontano biennio 1965-67> illustra nell’introduzìone (pp. 125-31) - del primo tentativo d’un repertorio completo e critico degli scambi letterari islamo-cristiani dall’origine dell’islàm ad oggi. Più esattamente i limiti sono fissati sui testi letterari religioso-dottrinali dì autori musulmani sul cristianesimo e di cristiani sull’islàm. Il piano prevede una bibliografia generale e introduttiva, e la bibliografia specifica dei singoli autori divisa in nove periodi storici dal VII al XX secolo. Il primo fascicolo della bibliografia qui presentato copre i secoli VII-X e si divide in quattro sezioni: autori musulmani di lingua araba (a cura di A. Charfi), cristiani di lingua araba (R. Caspar, P. Khoury), cristiani bizantini di lingua greca (A.Th. Khoury), cristiani del mondo latino (M. De Epalza). Il comitato coordinatore si ripromette di sollecitare altri specialisti per integrare sezioni linguistiche quali la siriaca, la copta, l’armena, la turca, la persiana ecc. Ma pur nei limiti descritti, questo saggio di bibliografia islamo-cristiana s’impone e per il rigore scientifico e per l’importanza dottrinale che riveste ai fini di riandare criticamente la storia delle relazioni tra islàm e cristianesimo.
La bíbliografia generale introduce agl’inventari e repertori di base, collezioni di testi, cataloghi di manoscritti, opere generali di consultazione (pp. 125-42). La bibliografia specifica per ordine cronologico segue la tecnica dei repertori critici: autore, suoi estremi cronologici; opere: titolo, data di composizione; descrizione dell’opera: indicazione dei mss, eventuali edizioni e traduzionì; breve esposizione critica del contenuto; referenze a studi monografici.
L’opera del Caspar e collaboratori merita l’attenzione e la riconoscenza sia degli islamologi di professione che dei credentí impegnati nel dialogo islamo-cristiano. Ripercorrere la propria storia per scoprire occasioni propizie di crescita comune nella fede, ora ignorate ora eluse, significa istaurare una critica evangelica al proprio passato per non fallire le occasioni di grazie del presente.
E segnaliamo la rivista Islamochrìstiana nel suo insieme. Costituirà l’organo d’informazione e di formazione al dialogo islamo-cristiano alieno da ogni semplicismo utopistico; vigile ai dati reali dell’identità culturale e religiosa degli interlocutori; altrettanto fiducíoso che là dove uomini di buona volontà ricercano, in sincerità di cuore, il senso di Dio nella storia e il recupero della condizione umana dell’esistenza, si apriranno strade convergenti e forse comuni.
4. A conclusione, alcune riflessìoni in spirito di sincera collaborazione e comune ricerca.
a) I collaboratori che confluiscono nell’incontro interreligioso di Islamochristiana sono nel loro insieme dediti professionalmente allo studio scientifico dell’islàm e dei suoi rapporti col cristianesimo (la stessa introduzione al fascicolo lo rammenta più volte). E difatti il tono generale della rivista piega verso consonanze, intrecci, arditezze proprie dell’élite culturale dei due mondi. Non si corre il pericolo di rinserrare siffatto dialogo entro la strettissima cerchia dell’intelligentia delle due comunità? Di perseguire un dialogo alieno e irraggiungibile dai milieux popolari cristiani o musulmani (che sono in definitiva quelli che determinano le nuove realtà sociali nei paesi d’antica tradizione confessionale)? Se il dialogo condotto dal vertice diplomatico può prevedibilmente approdare a leghe cristiano-musulmane contro un qualche comune nemico (contro «il dilagante comunismo ateo», ad esempio, secondo il tenore degli scambi tra delegazioni vaticana e del re Faysal dell’ottobre ’74), il dialogo racchiuso nel pugno degli intellettuali modernizzanti (spesso non rappresentativi e non accetti alle rispettive comunità musulmane) rischia di perdere il treno su cui viaggiano i grandi strati popolari; che sono di fatto i portatori dei nuovi progetti e gli attori delle grandi trasformazioni.
b) Sappiamo che studiosi come quelli d’Islamochristiana sono indenni dall’ingenuità di decantare il dialogo islamo-cristiano in un confronto islàm-cristianesimo come tra due sostanze pure, incorrotte e onnirealizzate, perennemente imperturbate al cospetto del divenire della storia degli uomini e delle vicende della fede. Sappiamo pure che non ricadrebbero, per altro verso, nella medesima trappola: di confrontare cioè il “cristiano” e il “musulmano” storici quasi portatori incontaminati d’una fede che non patisce diluzioni di sorta. Eppure lo sforzo d’Islamochristiana - non protestato ma comunque onnipresente - di trattenere il discorso sul binario ideologico-dottrinale rischia di giustapporre islàm e cristianesimo tramite le proposizioni di fede proiettate nei calchi verbalizzanti delle rispettive teologie. La strada imboccata porta irreversibilmente al raffronto dogmatico, e percìò a pochi passi dalla polemica. Solo la cortesia ecumenica riesce a trattenere gli automatismi del linguaggio al di qua del terreno mìnato. Tal è, comunque, l’impressione che si ricava dagli approcci di cristologia tentatí dal musulmano A. Merad, e di teodicea dal cristiano R. Arnaldez (qui anzi la decantazione è spinta ad altissimi gradi di purità: «... ce qu’il va falloir faire, au cour de ce dialogue, c’est de tenter ensemble, chrétiens et musulmans, une recherche de ce sur quoi on peut tomber d’accord. Effectivement, sur ce quoi on sera le plus profondément d’accord. ce sont des réalités mystiques... », p. 21). Giustissimo il rigore filologico di mantenere la distanza semantica tra il Cristo del vangelo e quello del corano nonostante l’identità denotativa (cfr. R. Caspar, Témoignage oecuménique en terre d’islàm. «Parole et Mission » 48 (1970) 71-84, in particolare pp. 71-77); così come è doveroso, per l’inverso, registrare parziali coincidenze connotative tra i due lemmi Allah e Theòs. Ma posto così il problema, il dialogo non potrebbe non risultare che un’informazione positìva dei risultati critici su un testo letterario, oggettivamente isolato e culturalmente concluso. Una sorta di filologia classica esercitata sui documenti religiosi del passato. Ma il Dio e il Cristo del credente dialogante sono consegnati più alla tradizione viva della fede che al testo letterario del passato. E la crescita della fede, tra le alterne vicende e le coesistenze storiche della situazione umana, provoca inedite possibilità di convergenze, impreviste coincidenze ovunque si porti l’esperienza religiosa. Convergenze e coincidenze che la rappresentazìone verbalizzata di asserti di fede non poteva né preannuciare né sollecitare. Un esempio:
Concilio ecumenico di Vienne (1311-1312) |
Concilio ecumenico Vaticano II (1962-65) |
È offesa al nome di Dio ed insulto alla fede cristiana il fatto che in regioni soggette a prìncipi cristiani, dove saraceni vivono o isolati o frammisti a cristiani, i loro sacerdoti, in determinate ore del giorno, nei loro templi o moschee dove ì saraceni si radunano per adorare il falso Maometto (…) e fare pubblica professione di fede... Poiché cose siffatte sono d’offesa alla maestà divina e quindi da non tollerare, noi, con l’approvazione del santo concilio, strettamente proibiamo che si ripetano tali cose in terre cristiane... (e che) la suddetta pubblica professione del sacrilego Maonietto abbia luogo in alcun modo in avvenire (Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1973, 380). |
Il disegno di Dio abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani (Musulmanos), i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nell’ultimo giorno (Lumen gentium n° 16). Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie son sorti tra cristiani e musulmani (Muslimos), il sacro concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione... (Nostra aetate n° 3). |
Il medesimo lemma “Dio” ricorre in ambedue i concili. Ma non ci deve sfuggire la non-coíncidenza dei due campi semantici che il medesimo segno linguistico a stento dissimula allo stupore del destinatario-credente. Evidentemente il secondo testo raccoglie ulteriori intuizioni della fede cristiana tramite rinnovate esperienze del Dio che salva nella storia. Parimenti, se una critica di fede cancella dalla propria storia la «benedizione di Dio alle armate cristiane» che affrontarono a Lepanto i cannoni musulmani (o degli ottomani?) sulla cui bocca era inciso «Allah è grande!», allora una convergenza dialogica ha già avuto luogo di fatto nell’obbedienza di fede alle epifanie vere di Dio nella storia dell’uomo.
c) Ma se l’esperienza religiosa e la convergenza dialogica si fa in questa linea, e tra le coesistenze storiche (da quelle culturali alle economiche e politiche) della situazione terrena del credente, allora è lecito domandarsi se non sia eludente trattenere i termini del dialogo interreligioso entro la sfera dottrinale e scientifica; e, soprattutto, se non sia pregiudizievole all’intelligenza delle reali convergenze storiche ricondurre con enfasi la competenza dell’impegno dìalogico alla sfera del “religioso”; laddove la specificità di quest’ultimo sembra stabilita non per una qualche sua intrinseca coerenza ma in antitesi al sociale e al politico. La dichiarazione fatta in tal senso dal portavoce del segretariato per i non cristiani lascia perplessi:
Sappiamo che una religione autentica è sempre connessa con la concretezza della vita e delle più profonde aspirazioni dell’uomo. Conseguentemente noi consideriamo con attenzione tutti i problemi della vita, specialmente d’ordine politico e sociale. Tuttavia, come organo istituzionale della Chiesa, noi ci limitiamo agli aspetti religiosi degli umani problemi, e in tal modo diamo il nostro contributo religioso. Si consideri, per esempio, il campo sociale. Noi non studiamo programmi di giustizia sociale o di sviluppo, ma, in quanto uomini religiosi, ci proponiamo la possibilità di favorire una vera comunicazione tra gli uomini e una relazione di fratellanza, di amore, che appartiene al dominio della religione (to the realm of religion).
(…) Il compito specifico del Segretariato è il dialogo con l’uomo religioso del mondo. Ci limitiamo di proposito agli aspetti religiosi degli uomini. Pertanto il campo proprio del nostro dialogo e del nostro punto di contatto con gli altri è l’esperienza religiosa, vale a dire la ricerca dell’Assoluto, che trascende l’esperienza empirica e getta una luce speciale sulla vita e attività umane (riportato in Islamochristiana 1 (1975) p. 89; originale in inglese).
Come circoscrivere il dialogo entro «l’esperienza religiosa dell’Assoluto» se la fede dell’Assoluto d'uno dei due dialoganti genera la polis per propria interna coerenza? dove porre i confini del «dominio della religione (the realm of religion)» se religione e polis (dìn-dawla) concorrono a stabilire una sola umma e a regolare lo stato in tutte le sue subalterne articolazioni?
Quando e perché l’esperienza “religiosa” del Dio della guerra cede all’esperienza “religiosa” del Dio che si fa un popolo tra tutti gli uomini (cfr. Lumen gentium n° 13)? Quali le componenti storiche entro cui di fatto sbocciano sentimenti “religiosi” convergenti al Cristo? - al Cristo non bersaglio esposto all’abilità di cattura del linguaggio assertivo, ma soccorritore del samaritano del giorno, quale che sia la sua pelle, il suo popolo, la ragione della nequizia cui soccombe.
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ISLAMOCHRISTIANA. Islàmiyyàt Masìhiyyàt, 1 (1975) pp. 181. Institut Pontifical d'Etudes Arabes (Centre d'Etudes pour le Dialogue Islamo-chrétien), Piazza S. Apollinare, 49 - ROMA. Recensione in «Memorie domenicane» 6 (1975) 398-403; più o meno quanto qui sopra al § 3 = «Vita sociale» 32 (1975) 301-307.
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