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 iii - il groviglio

ACLI: Il momento difficile delle ACLI (Redazione: 1971, pp. 147-53). Conflitto delle ACLI con la gerarchia cattolica (Redazione: 1971, pp. 427-31), le ACLI «senza il consenso» della gerarchia (ib., pp. 239-42).

Un’appropriazione di concetti marxisti snatura la qualifica “cristiana” che le ACLI intendono conservare anche dopo la scelta di Torino e l’ipotesi di Vallombrosa? [v. sopra, pp. 388-89].

L’essere cristiani non è una qualificazione sociologica, e perciò non può di per sé implicare una specifica collocazione nella prassi civile e politica. Questa affermazione è conseguenza di un altro presupposto: la professione di fede, così come i contenuti stessi di tale professione, non offrono strumenti di analisi socio-politici, base immediata di scelte nell’azione sociale e politica.

Occorre, quindi, ricercare quelle mediazioni concettuali e pratiche che costituiscono le modalità e le condizioni nelle quali il cristiano rende operante la sua originaria ispirazione di fede nell’azione sociale e politica che le accomuni, senza alcuna distìnzione e pregiudiziale di posizione privilegiata (p. 150).

Un aspetto peculiare della funzione delle ACLI all’interno del movimento operaio viene riscontrato nel fatto che attitudini e prospettive della scelta socialista ottengono il loro punto di partenza nella persona e nei suoi valori: «seguendo, quindi, un processo inverso a quello dell’analisi marxista» (ib., p. 152). Quanto al conflitto con la gerarchia cattolica, si ammoniscono le ACLI a considerare il fatto che la Gaudium et Spes n. 76 ipotizza due forme di azione politica del credente: una condotta da credenti-cittadini in nome proprio, un’altra in nome della Chiesa e quindi con i suoi pastori (una cum pastoribus). Di fatto «la tradizione cattolica italiana vuole e crede a questa seconda forma» (Redazione: 1971, p. 429). Ma l’interpretazione dell’intervento CEI data dalle ACLI e la sua [delle ACLI] reazione ha l’aria di chi

preferisce ribadire la propria maggiore età. Ancora una volta si deve dire che VS espose il suo dissenso da questa valutazione e da un simile atteggiamento delle ACLI (ib.).

Ma il punto è altrove:

Senza dubbio essere in comunione con la Gerarchia non significa che l’associazione debba essere la fedele esecutrice, sul piano temporale, di quanto la Gerarchia vuole e non vuole eseguire in proprio, anche se in taluni questa concezione è tuttora presente. Ma non può significare neppure muoversi in due diversi e, per tanti aspetti opposti, orizzonti concettuali. Essere in comunione, soprattutto nella chiesa, significa principalmente tendere alla formazione di una mente e di un cuore tra loro trasparenti e in comunicazione. Se, nel caso, la Gerarchia si trova in un orizzonte mentale diverso, se ha preoccupazioni pastorali diverse, si può prendere atto della diversità e reclamare la propria giustezza basata per di più sulla rivendicazione della propria autonomia? (Redazione: 1971, pp. 429-30).

L’interrogativo è sorprendentemente lasciato sospeso nel corso dell’editoriale e si ha la sensazione che quanto detto a pagina 150 sull’autonomia del laicato, si paralizzi prima d’essere operativo in terra italiana.

In realtà il vero fatto nuovo delle ACLI è d’esser passata da «ala operaia del mondo cattolico» a «componente cristiana del Movimento Operaio» (Redazione: 1971, p. 430). E se l’«operaio cristiano» non può evadere il problema dell’alienazione operaia, conseguentemente un’azione pastorale non può non replicare in proprio la medesima ansia.

Alla riflessione teologica spetta il compito di affrontare l’analisi delle contraddizioni che sono proprie di un determinato sistema di rapporti di produzione e di indicare il luogo... da cui si origina un assetto economico-sociale che comporta la negazione di sviluppo umano a determinati gruppi o classi.

È in questo senso ed è a tale scopo che si profila l’impegno “politico” dei laici e dei sacerdoti e del magistero quale impegno unitario (Verde-Camporeale: 1971, p. 242).

La “scelta rivoluzionaria” - a parte i trapassi intermedi - è conseguenza logica e perentoria. È la prassi del credente in situazione di oppressione (cfr. Redazione: 1972, rubrica Terzo Mondo e Vangelo, p. 4).

Un lettore lancia la propria costernazione sulle pagine di VS:

A me questa chiesa del dopo concilio sembra un organismo decapitato, un cuore in fibrillazione, incapace di battere... Si rinuncia a caratterizzarsi per paura di apparire cafoni, e per mostrarsi disinvolti ci si riempie la bocca di “alienazione, profitto, sistema imperialistico”...

Che cosa vorrei, dunque? abolire la rivista? (Interventi dei lettori: 1971, p. 173).

Con vigore e rigore, Simoni aveva già formulato riserve al discorso avviato dagli estensori di Richiami all’essenza della fede (1969, pp. 435-51). Camporeale-Verde mettevano in guardia, in quella nota, da taluni interventi critici del dopo-concilio ispirati o alla nostalgia del passato (von Balthasar, Maritain, Chantraine) o all’attacco intemperato alla chiesa ufficiale: in questo secondo caso i critici appellavano al vaglio del puro vangelo e della nuda fede, il che conduceva inevitabilmente a negare la possibilità di sintesi tra fede e cultura. Mentre il punto della crisi andrebbe individuato nella mancata sintesi tra fede e strumenti culturali con cui la fede avrebbe dovuto essere espressa.

La fede dunque è il punto di riferimento in rapporto al quale si correggono le forme pratiche di vita cristiana e la loro elaborazione teorica. Il richiamo alla fede è perciò l’elemento più importante di ogni rinnovamento ecclesiale (1969, p. 435).

Simoni raccoglieva la riduzione e faceva pressione argomentativa sulla prima unità (fede) del binomio fede-cultura. Come emergono i significati reali di questa fede, a cui pure demandiamo l’ultimo giudizio sul rinnovamento ecclesiale? Sale della terra e fermento del mondo, o solo elemento di sintesi nei vari momenti della civiltà umana? (Simoni: 1970, p. 189, a).

È ovvio. La questione, VS non poteva lasciarla cadere. Veniva toccato il nerbo su cui la rivista aveva tessuto la coerenza del proprio discorso. Un discorso che mirava - tra fede e cultura, tra chiesa e mondo, tra fatti e pensiero - ad articolare quell’istante fluido che precede la saldatura di due metalli. La questione di cui sopra chiamava in causa l’esistenza stessa della rivista.

Una parentesi in proprio. Lo sgretolamento della riforma post-conciliare si ripercuote sulla teologia che la teorizza. E questo va da sé. Ma nella mossa di salvarsi da sola, la teologia s’impiglia con se medesima. Illustro il punto, e giustifico nel contempo il titolo del paragrafo Il groviglio.

1. Avviato il confronto Simoni-Camporeale-Verde, la verifica non gioca più tra prassi di fede e riflessione di fede, nell’istante cioè che il credente conferma l’assenso di fede all’atto della sua esistenza sociale. Qui, per l’opposto, ci si ritrae a scrutinare la coincidenza concettuale delle categorie riflessive. Le opposizioni logiche, la ricerca del dilemma, la denuncia delle contraddizioni, le distinzioni reclamate e trovate tra termini tenuti semanticamente costanti perché dati (chiesa, fede, mondo, cultura, proletariato, lotta di classe...), la sequenza argomentativa restaurano un linguaggio teologico neoclassico. Finanche il lessico nega alla pagina teologica nuovi generi letterari. Così, tenuti semanticamente invariati chiesa, mondo, parola-di-Dio, gli asserti «la parola-di-Dio orienta il mondo verso la chiesa» e «la parola-di-Dio orienta la chiesa verso il mondo», «la parola-di-Dio è attuale perché storica o è anche storica perché attuale?», creano opposizioni linguistiche solo tra relazioni logico-grammaticali all’interno della proposizione. Ma una proposizione di questa fatta rischierebbe il non-senso linguistico se presumesse un asserto dai significati referenziali (esterni al sistema della lingua). Le opposizioni (luogo del significato) così come stabilite sono soltanto intra-proposizionali. Lo stesso si dica delle altre unità oppositive, quali prassi politica, prassi pastorale, criteriologia di fede; proletariato, operaio cristiano; ispirazione cristiana degli operai, autonomia degli strumenti di analisi della lotta di classe; fede-che-parla-di-cose, parole-che-parlano-di-fede (i discorsi di fede!); valori cristiani, strutture mondane, eccetera eccetera. Insomma tutte le varianti dei “due poli” di cui in VS 1966, p. 132. Attratta su questo terreno, l’ermeneutica è esercitata per stabilire non più la coincidenza tra res e atto conoscitivo, bensì la virtualità significativa dei referendi. Ci si è spostati - così mi sembra - da una criteriologia di fede ad una semantica del linguaggio. E nella fraudolenza del linguaggio perfino il rischio ha parvenza di lusinga.

2. Piano teologico. Si era partiti dall’affermazione che non si danno realtà quali “politica cristiana, economia cristiana, filosofia cristiana” in concorrenza con le consorelle laiche (1966, p. 330). Ma il dibattito in corso insegue ostinatamente il tentativo di scoprire dove e come una politica sia “adeguata al vangelo”, una scelta di classe sia “funzione ecclesiale”, un movimento operaio sia d’“ispirazione cristiana” ecc. Pare che si esiti (lo consiglia la prudenza politica?) a trarre tutte le conseguenze dell’autonomia del profano e della teologia della creazione (la quale e fonda e giustifica adeguatamente qualsivoglia attività civile). Ammessa l’autonomia dello Stato laico, se ne tenterà una mediazione col cittadino cristiano? O persuaderemmo altri credenti a cercarsi l’ispirazione islamica, israelita, indù del movimento operaio? A voler sciogliere le relazioni grammaticali, il “politico cristiano” può significare solo che “un uomo, il quale si professa cristiano, fa della politica”, ma non che “la politica è cristiana”. Il politico e l’operaio sono cristiani solo perché soggetti della politica e della lotta di classe. Non credo si possa dir di più, pena il riflusso del panconfessionalismo. Se mi fosse permesso, la proposizione A (qui sotto) la riscriverei come B:

A

B

Poiché quelle attività [politica, economia, filosofia cristiane] non sono originariamente cristiane, e poiché sono anche autonome, sorge il dialogo tra cristianesimo e civiltà che così si va costruendo (Camporeale-Verde: 1966, p. 331).

Poiché quelle attività [politica, economia, filosofia cristiane] non sono originariamente cristiane, e quindi sono autonome, non sorge su di esse alcun dialogo tra cristianesimo e civiltà che così si va costruendo.

Ma rendiamo la parola ai protagonisti del dibattito.

Camporeale-Verde.

[Premesse: l’analisi della crisi fatta dal Serrand porta: a) a metter tra parentesi il recente passato dell’aggiornamento post-conciliare; b) a negare come possibile qualsiasi sintesi tra civiltà tecnica e fede, sia in teoria che in pratica].

Ci sembra che il discorso del Serrand abbia a suo fondamento... la convinzione che la storia è soltanto del mondo civile e che il popolo di Dio come organismo e collettività non si fa storicamente. Da qui deriva che la Chiesa - popolo di Dio - non ha bisogno di alcuna sintesi con i vari momenti della civiltà umana, in rapporto ai quali si trova sempre nello stesso specifico atteggiamento... Escluso quindi il farsi del popolo di Dio, ogni sguardo che si rivolge sul travaglio attuale della Chiesa parte da un punto assoluto di arrivo, in rapporto al quale ogni crisi di sviluppo risulta sproporzionata ed ogni tentativo di trasformazione e di profondo rinnovamento incide negativamente su quella struttura che il popolo di Dio avrebbe in proprio come già data.

In tutt’altra prospettiva invece si presenta il travaglio attuale a chi pone il popolo di Dio sotto il segno della storia: i suoi antichi vestiti possono ritenersi vecchi solo perché se ne deve indossare dei nuovi, perché nudo di storia non può stare. Non può non misurarsi con tutto il molteplice e differente cammino mondano, ed i suoi passi possono risultare falsi, ma non in riferimento al punto di arrivo, in rapporto al quale si riducono tutti positivamente, ma al momento attuale, in quanto o inadeguati o addirittura d’impedimento allo stesso sviluppo. E questo perché la Parola tende a fare del genere umano un Popolo di Dio, le cui tappe di formazione non possono non essere segnate dalle conquiste e dalle sconfitte di tutta la storia che segna il cammino dello stesso genere umano (1969, pp. 449-50).

Nel processo storico hanno una loro ragione anche le deviazioni; riconocsiamo pure che questo fatto non rende indifferenti le scelte, e queste possono essere giudicate giuste o sbagliate in rapporto a ciò che la Chiesa dev’essere (ib., p. 451).

Simoni.

È difficile, per la verità, non rimanere un tantino disorientati di fronte ad affermazioni di questo genere, che denotano tra l’altro un capovolgimento della posizione iniziale del problema. (1970, p. 189, b)...

Si tratta della indiscussa “attualità” della Parola di Dio: è attuale perché storica o è anche storica perché attuale (inclusiva della temporalità)? ... È questione di sapere e di capire se l’attualità della Parola di Dio sia soltanto o prevalentemente di carattere storico, a prescindere da una sua autonoma consistenza metastorica, o sia anche ed inevitabilmente di ordine storico, proprio in forza di una sua indipendenza dal tempo. La risposta a questo interrogativo ci permette di capire meglio se la fede... tenda di suo, per sua assenza, ad una nuova sintesi della Chiesa col mondo o invece a far sorgere e guidare un Popolo di Dio nel mondo: se ci orienti al mondo, invece di orientare il mondo ed orientarci nel mondo (pp. 189, b - 190, a).

Non si capisce e non si fa capire: se sia la trasformazione del mondo a provocare la trasformazione della Chiesa o se spetti anche a questa determinare una trasformazione del mondo... (p. 190, b).

Per farla breve: non si vede proprio, a questo punto, cos’altro possa significare e come sia possibile una invocata «criteriologia della fede» (p. 191, a).

Camporeale-Verde.

Chiariti taluni fraintendimenti testuali e dichiarato che la denuncia dell’estraneazione dal mondo non comporta affatto la negazione che il mondo abbia bisogno della salvezza e sia capace della grazia di Dio (1970, p. 191), C.-V. elucidano così il loro pensiero.

1. Obiezione di ridurre ed esaurire la parola di Dio alla sua storicità.

Noi affermiamo che la storicità, l’essere attuale della Parola di Dio e della Chiesa sono all’interno del loro essere, pur non esaurendolo...

La Parola di Dio non può essere «inclusiva di temporalità» (noi preferiamo dire: di storia), senza che questa le sia in qualche modo intrinseca. E per conseguenza si può senz’altro affermare che la Parola di Dio può orientare il cammino degli uomini e determinare certi sviluppi dell’ambito sociale e culturale soltanto ad una condizione, quella di porsi all’interno del mondo umano (pp. 193, b - 194, a).

2. Obiezione di astrattezza.

Il punto di discussione è una determinata forma storica della Chiesa e una determinata forma storica della società: questo è il terminus a quo...

La chiesa in una determinata forma viene assunta ad oggetto di riflessione teologica e viene «denunciata»... perché, come nel passato ha rivestito spoglie umane, così oggi ne indossi altre, affinché possa presentarsi all’uomo e questi possa riconoscerne la voce (p. 194, a).

3. Obiezione dell’integrazione chiesa-mondo.

Tale integrazione non può essere una semplice questione di fatto, ma è di diritto, appunto perché quella integrazione è frutto contemporaneamente e delle condizioni mondane in cui vive il Popolo di Dio e della volontà di operare evangelicamente da parte dei cristiani... (p. 194, b).

Il dedurre da queste premesse che allora la vita della Chiesa dovrebbe consistere in «un fare e disfare senza fine» è semplicistico... La Chiesa deve incarnarsi in quelle trasformazioni appunto perché la Parola di Dio che l’uomo intende è una parola che subisce necessariamente le trasformazioni del linguaggio umano (p. 195, a).

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