Sulle creste selvagge di granito e sui crinali stranamente frastagliati dei monti di Sardegna, giungono i primi bagliori d’un'aurora di fuoco. Fra le capricciosità delle rocce e una fitta boscaglia di elci si snoda una mulattiera ciottolosa e irregolare che porta alla radure di agavi e alle numerose «tanche» di bestiame; le donne sarde la risalgono quando vanno per legna o per asfodeli.
Per quel viottolo, un mattino di maggio nel 1935, avanzarono in silenzio due ragazze. Avevano un passo da togliere il respiro, attente a scansare col gomito i pruni che ingombravano la strada e ad evitare prudentemente i passi scoscesi.
La più grande, Antonia Mesina, di sedici anni, aveva lasciato molto per tempo il «letto» (una stuoia sull’acciottolato della casa), e si era data un gran da fare tra la madia, lo staccio e la farina per fare il pane (ha a sue spalle una brigata di fratellini da sfamare e, quel ch'è più, da tenere in briglia! La farina era impastata, il forno ripulito, ma la legna... Antonia era corsa da Annedda, una sua compagna, e l'aveva pregata d'accompagnarla alla montagna a «legnare», conte dicono in Sardegna.
Annedda, di dodici anni, teneva a fatica il passo di Antonia. In un punto dove il sentiero si faceva più largo, le ragazze s'incrociarono con due giovani: due pecorai sconosciuti in paese. Uno di essi (Annedda notò che zoppicava) sbirciò Antonia, la più grande, poi strizzò maliziosamente un occhio e parlottò all’orecchio del compagno. Antonia non dette punto peso alla cosa e tirò avanti. Poco dopo le due ragazze entrarono nel bosco e si misero subito al lavoro: raccogliere il frascame, ammonticchiarlo e affastellarlo.
Un fruscio fra le rame di elci e gli osfodeli secchi... un uomo (uno dei due giovani incontrati poco printa) sbuca dalla macchia, discinto e zoppicante, e si lancia contro Antonia piegata sui fastelli... Annedda emette un grido. Troppo tardi! Il malintenzionato giovanotto ha raggiunto la povera ragazza e l'ha afferrata alle spalle. Antonia esclama appena «Madonna mia!», poi lascia andare a terra la manna di frasche e si dimena furiosamente fra gli artigli del bruto. Il giovinastro, imbestialito dalla tenace resistenza, trascina la ragazza nel più folto della macchia... Annedda grida e corre all’impazzata in paese a chiedere aiuto...
Quando gli uomini di Orgosolo (il paesello di Antonia Mesina), armati di fucili, pugnali, randelli e forche, giunsero sul luogo indicato da Annedda, trovarono il corpo di Antonia abbandonato fra le ceppaie di due elci, con la testa fracassata, immersa in una pozza di sangue nero e raggrumato. D'intorno i segni della lotta: erba calpestata e grumi sparsi sulle foglie di agavi e di felci. Ma la purezza di Antonia era salva: le braccia ripiegate e strette in avanti, le ginocchia contratte e le lunghe vesti avvolgenti la persona, testimoniavano la vittoria dell’anima conquistata col martirio del corpo!
Antonia Mesina era una devota di Maria. Era vissuta oscuramente, come lutte le donne sarde, in un paesino adagiato sulla scarpata di una montagna nel cuore della Sardegna. Legata indissolubilmente alla casa dalla cura di numerosi fratelli, sarebbe rimasta nell'oscurítà se il finale tragico della sua esistenza non avesse gettato una luce su tutta la sua vita e non avesse confermato, sotto la semplicità e normalità della vita quotidiana, una tempra di santa. Fu dopo la sua morte che le compagne ricordarono e dettero peso alle minute e molteplici nianifestazioni di virtù che Antonia aveva date in vita. Si ricordarono della sua serietà, della sua compitezza, della sua pietà. Si ricordarono che Antonia, quando, dopo una giornata spossante di lavoro in casa, le rimaneva un ritaglio di tempo libero, si accoccolava sotto la cappa del camino e scorreva i grani della corona. A «legnare», sulle alture, ci andava con le compagne, e al ritorno le portava davanti a una cappella solitaria e le invitava a recitare il Rosario insieme. L'unica fotografia che abbiamo di lei, in caratteristico costume sardo, ce la presenta con la corona in mano.
Negli ultimi tempi della sua vita aveva sfraordinariamente moltiplicato le pratiche di pietà. Uno strano presentimento le si era affacciato alla mente: «Ecco, io sono morta! Che cosa fate voi?», diceva ai fratelli spaventati. Un'altra volta confidò alle compagne: «Morrò presto, e vi tirerò tutte lassù con me!».
Il presentimento della prossima fine si avverò. L'appello «Madonna mia!», lanciato nella lotta finale, le assicurò l'assistenza di Maria e la vittoria delle vergini.
La Corte d'Appello confermò la pena di morte sententiata dai Tribunali. La richiesta di grazia fu respinta dal re. Un mattino prima dell'alba, Ignazio Catgiu, l’assassino di Antonia Mesina, fu portato, con gli occhi bendati e le mani legate, in un prato solitario... Una scarica di fucileria, e il giovane stramazzò a terra...
Ignazio Catgiu, nel corso del processo, aveva caparbiamente negato il delitto e ostinatamente rifiutato il sacerdote. La vigilia dell'esecuzione, con grande stupore di tutti, chiese il prete, poi si confessò e comunicò!
Antonia Mesina, dal cielo, aveva ottenuto, dalla Regina delle Vergini, la salvezza eterna di chi aveva inutilmente insidiato la sua purezza!
Iacopo cantò il suo amore, |
Jacopo, della nobile famiglia dei Benedetti, aveva sposato la bellissima Vanna dei conti di Coldimezzo. Ma durante un ballo, in un ritrovo mondano, un pauroso crollo del pavimento venne nel bel mezzo a turbare la festa, e Vanna rimase soffocata sotto le macerie. Jacopo, caduto in un fosco stato di depressione spirituale e quasi prostrato dagli attacchi della disperazione, abbandonò gli abiti lussuosi, si gettò sulle spalle un rozzo saio e si dette, come «bizoco», a una penitenza aspra e talvolta eccessiva, ad una vita selvatica e randagia.
Era nato a Todi nel 1230 ed era vissuto sbrigliato e scapigliato come tutti i giovani della nobiltà del suo tempo. A Bologna, insieme allo studio di legge aveva coltivato anche il libertinaggio facendo lega con i giovani più scapestrati e goliardici della «docta Bononia». La tragica morte della moglie spezzò la vita del giovane gaudente e le impresse una piega quanto mai impensata: nel 1278 Jacopo entrò nell'Ordine Francescano e divenne fra' Jacopone da Todi.
La conversione fu totale e sincera, ma ciò non impedì che in fondo all'animo del frate rimanesse un resticciolo delle focose passioni giovanili: una irruenza di carattere, una innata insubordinazione d'animo, una intransigenza cieca e caparbia, una intemperanza di trasporti e di parole. Nelle centodieci laudi che ci rimangono di lui, tutto ciò balza evidente, data la cristallina schiettezza dell'anima di Jacopone.
L’aspirazione più felice e più amata dell'arte di Jacopone: Gesù Bambino e la Madonna. Due sorgenti, un unico fiume. La fanciullezza di Gesù e la maternità di Maria sono fatte l'una per l'altra: sono inscindibili; l'una richiama l'altra: due variazioni di un unico tema. Jacopone penetra con incredibile acume nel cuore della giovane Madre, scandaglia i suoi sentimenti, penetra nella intimità della casa di Nazareth, vezzeggia il Divino Fanciullo e assiste con sguardo curioso e divertito (si direbbe indiscreto!) alle più deliziose scenette: lo sgambettare dei piedini di Gesù sul fieno della greppia, l’immergere delle braccia nude nel seno della Madre, la trepida preoccupazione di Maria nel ricoprire il Pargolo, la gioia materna nel porgere la poppa…
Allora anche il verso diventa piano e scorrevole, perde l'asperità e la rozzezza, si piega docile alla piena bollente degli affetti, alla effusione commossa dei sentimenti, alla rievocazione viva delle scene. Ecco gli angeli che circondano la cuna:
«Gli angioletti d'intorno - Se ne gian danzando
Facendo dolci versi - E d'amor favellando:
I giusti e i peccatori - Con amor invitando».
Bellissima la diputa fra la Madonna e il poeta che le chiede Gesù:
«Quello dolce bambino - Dico, che tu ci hai fatto
Quel grande piccolino - Dalloci Madre in braccio!».
La Madonna si rifiuta, ma il poeta non si dà per vinto e insiste con una ingenua ed ingegnosa argomentazione:
«Nel mi dicer Madonna mia;
Che io ne pur vo la parte mia.
Però nacque lungo la via
Che chiunque 'l vuole il possa avere».
In un'altra lauda Jacopone discorre amorevolmente con la Madonna e tocca tasti dai suoni meravigliosi nell'accordo armonioso del divino e dell’umano.
ed. critica F. Mancini, Bari 1977, n° 32 vv. 103-106 | |
«Quand'esso ti sugea - L'amor che ti facea? | Quann'isso te sogìa - l'amor con' te facìa |
Smisuranza potea - Esser da te lattata? | la smesuranza sia - essar da te lattata? |
Tu nel mar magno stavi - Quando il latte gli davi; | |
D'annegar non pensavi, - Ch'amor t'avea levata». |
Le poesie di Jacopone da Todi ispirate alla Madonna sono le più umanamente sentite, e le più liricamente elevate. Il poeta nutre una profondissima passione per Maria e ne vive e ne interpreta, nei suoi versi, tutta la vita. Lo «Stabat Mater» corona la serie delle poesie mariane e interpreta in modo drammatico e popolare la Passione del Figlio riflessa nell'anima della Madre: due Martiri, una sola Passione: quella che si svolge nel cuore di Maria.
Ma Jacopone ha composto anche un altro «Stabat», quello del Presepio. Scritto nello stesso metro melodioso e popolare, in versi sillabici rimati, è rimasto ingiustamente sconosciuto. Lo scoprì Federico Ozanam nella Biblioteca Nazionale di Parigi e lo pubblicò e tradusse in italiano il Cattaneo. Lo «Stabat» del Presepio è in pieno parallelismo poetico e formale con lo «Stabat» della Croce: l'uno raccoglie i gemiti della Madre davanti al Figlio moribondo, l'altro i palpiti di gioia della Vergine adorante il Divino Neonato. Ambedue hanno i medesimi spunti e ricalcano le medesime rime. Ecco qualche strofa dello «Stabat» della gioia:
«Stabat Mater speciosa - Juxta foenum gaudiosa - Dum jacebat parvulus.
Cuius animam gaudentem - Laetabundam et ferventem - Pertransivit jubilus.
O quam laeta et beata - Fuit illa immoculata - Mater Unigeniti!».
Poi si riaffaccia il desiderio, caro al poeta, di stringere fra le sue braccia Gesù:
«Virgo virginum praecIara - Mihi jam non sis amara - Fac me parvum rapere.
Fac ut pulchrum fantem portem - Qui nascendo vicit mortem -- Volens vitam tradere.
Fac me tecum satiari - Nato tuo inebriari - Stans inter tripudia».
Così tutta la vita della Madonna, intrecciata con quella di Gesù, è rivissuta con le stesse ansie, con le stesse gioie, con gli stessi dolori. Jacopone da Todi, fra tutti i poeti, è stato l'unico, forse, che ha penetrato tanto a fondo il cuore di Maria; oltre che poeta, si capisce, era anche mistico, e viveva i misteri che cantava.
ed. critica F. Mancini, Bari 1977, n° 32 vv. 107-110 | |
«Quand'esso ti guardava - E Mamma ti chiamava, | Quann'isso te clamava - e mate te vocava |
Come ’l cor non scoppiava - Madre di Dio vocata?». | co' nno te consumava, - mate de Deo vocata? |