precedente ] successiva ]

 Il “Parere” del P. Girolamo Gigli o.p.
sull’ortodossia di Antonio Rosmini,

 «Memorie domenicane» 84 (1967) 181-94.

 

Girolamo Gigli († 1873) |  polemica rosminiana

 

 «Parere» (1851-54) |  Accusa e critica: 1  2  3  4  5  6  7

 

conclusione  ë  | NB, Nov. 07...

Composto ad istanza di p. Isnardo Grossi OP († 20.IV.1997), allora archivista del conv. Santa Maria sopra Minerva (Roma), che mi mise a disposizione relativa documentazione.

Il «caso Rosmini» non pare ancora definitivamente chiuso. Il nostro tempo, anzi, offre un quadro di civiltà dove movimenti dottrinali, attitudini di spirito, sollecitazioni critiche sembrano creare per l’appunto un clima ideale per una nuova intelligenza dell’opera del Rosmini. Il nostro secolo offre una base culturale d’interpretazione del grande Roveretano che l’intricato giuoco delle implicanze politico-religiose dell’Italia del Cavour e di Pio IX non era capace di dare. È la stessa problematica spirituale del nostro tempo che riapre di prepotenza il «caso Rosmini» alla nostra critica. E lo rende attuale.

Il tempo entra, così, di diritto tra le categorie di giudizio d’un pensiero religioso e teologico che, appunto in quanto tale, si pone come riflessione e intelligenza dell’impatto della Parola di Dio con l’«oggi» della storia dell’uomo.

L’opera del Rosmini supera, pertanto, l’interesse dei confini cronologicamente circoscritti del suo manifestarsi e si propone ad una teologia critica come caso-tipo di un pensiero cristiano fatto sull’oggi vitale della Chiesa e la cui valutazione, per l’opposto, è inadeguatamente condotta con schemi discriminativi ricalcati o su posizioni mentali a cui si fa appello astoricamente o su frasari gelosamente conservati nella loro formalità espressiva.

L’interesse del «caso Rosmini» per noi è appunto qui: stimolare la ricostituzione di una metodologia teologica che nel suo farsi, mentre esprime il contenuto di predicazione evangelica agli uomini del suo presente, ne assume nello stesso tempo le determinazioni storiche - da quelle culturali a quelle economiche e politiche - come componenti di diritto le categorie critiche e valutative dello stesso sforzo teologico.

È con questo interesse ed in questa prospettiva che intendiamo presentare un inedito del domenicano Girolamo Gigli in difesa dell’ortodossia teologica del Rosmini. L’importanza dello scritto - pensiamo - è soprattutto qui, al di là del valore oggettivo dell’opera in sé e del contributo che può dare alla ricostruzione d’una fedele esegesi dell’opera e della polemica rosminiane.

Notizie bio-bibliografiche

ASMN I.C.102 H 72r Felix Thomas (ant. ad vesp., s. Tommaso d' Aq.)P. Girolamo Gigli [o Giglio], nato a Fuscaldo in diocesi di Cosenza all’inizio del sec. XIX, entrò giovane nell’Ordine domenicano nel convento di Soriano e compì gli studi a Napoli. Passò più tardi alla «Provincia Regni», dove fu Reggente degli Studi, poi Priore di S. Domenico Maggiore a Napoli e finalmente, ancor giovane, Provinciale. Chiamato a Roma da Pio IX - che probabilmente era venuto a conoscenza della fama del Gigli durante l’esilio a Gaeta - diresse per breve tempo l’Ordine domenicano come Vicario Generale, fu a servizio delle Congregazioni Romane e insegnò alla Casanatense, di cui fu eletto Bibliotecario l’8 novembre 1850. Ebbe nome d’ottimo conoscitore di S. Tommaso e di valente latinista. Fu Priore del Convento della Minerva e nel 1856 Teologo Casanatense, mentre continuava a prestare la sua opera di Consultore presso le Congregazioni. Nel 1859 Pio IX lo nominò Maestro del S. Palazzo. Per un’imprudenza d’un suo collaboratore (pare che costui avesse concesso l’imprimatur ad un libro di tendenza «liberale») dovette dare le dimissioni (1868). Per questo e per altri dispiaceri «sembrò che il suo ingegno molto perdesse». Morì a Roma il 15 novembre 1873. (Dalle «Memorie Istoriche della Biblioteca Casanatense» del P. Tommaso Masetti O.P., manoscritto presso l’archivio del Conv. di S. Maria sopra Minerva, Roma).

[Importanti integrazioni biografiche su Girolamo Giglio: G. Esposito, San Domenico di Cosenza (1447-1863), MD 5 (1974) 402b e tav VII; altri titoli segnalati in AFP 51 (1981) 170a voce "Giglio Hier."; G. Cioffari - M. Miele, Storia dei Domenicani nell’Italia meridionale, Napoli-Bari 1993, III, 519-21].

Sempre il Masetti c’informa: «Del P. Gigli non abbiamo a stampa se non alcuni discorsi Accademici: ma i suoi più dotti lavori fatti per commissione del Papa e per le Congregazioni sono inediti e rimasti sepolti negli archivi della Congregazione dell’Indice, segnatamente circa le due grandi cause agitate circa le opere del Günther e del Rosmini, nelle quali il P. Gigli si fece grande onore sopra tutti i Consultori».

Ora è proprio il saggio sul Rosmini che, sfuggito all’attenzione del Masetti, è conservato nella Biblioteca del Convento della Minerva in Roma. Si tratta di uno stampato «pro-manuscripto» di 134 pagine in 167 paragrafi. Un esemplare delle poche copie destinate esclusivamente ai Cardinali dell’allora Congregazione dell’Indice che presiedettero al giudizio circa l’ortodossia del Rosmini. L’esemplare, probabilmente rimasto all’Autore perché tipograficamente mendoso (le pagine 125 e 132 sono in bianco), fu successivamente inserito in una miscellanea non catalogata.

Il saggio porta il titolo: Parere intorno alle Opere dell’Abbate Antonio Rosmini-Serbati di Fr. Girolamo Gigli ex-Vicario G.le dell’ordine de’ Predicatori Consultore. Il bibliotecario p. I. P. Grossi, ritrovatolo, ce l’ha gentilmente segnalato pregandoci di illustrarlo.

Il saggio del Gigli e la polemica rosminiana

Nell’intricata e arroventata polemica sulle opere rosminiane svoltasi sotto Gregorio XVI e Pio IX, l’opera del Gigli - che nel nostro esemplare non porta data - va posta tra il 1851 e il 1854.

La polemica risaliva al 1840 quando un libello anonimo, dal titolo Eusebio Cristiano, denunciò le opere del Rosmini come una somma d’eresie, dal nestorianesimo in su, non esclusi luteranesimo, calvinismo e quesnellianismo. Il Papa Gregorio XVI, dopo esame delle accuse, impose silenzio alle due parti in lite con lettera del 27 marzo 1843. Ma non pare che gli anti-rosminiani stessero all’ordine. Frattanto, con decreto del 30 maggio 1849, la Congregazione dell’Indice proscriveva due opere del Rosmini (Delle cinque piaghe della Chiesa e La Costituzione secondo la giustizia sociale). Altri due libelli anonirni, Postille e Lettere del Prete Bolognese, ripresero con più violenza l’attacco al Rosmini e riportarono la denuncia sul terreno esplicitamente dommatico. Nel 1850 per ordine di Pio IX la Congregazione dell’Indice sottopose ad esame le Postille, riprovò il libello e scagionò le opere del Rosmini da qualsiasi accusa. La cosa non calmò le acque. Pio IX, volendo farla finita una volta per sempre, nominò sei relatori col compito d’esaminare direttamente le opere del Roveretano e di riferire sulla loro ortodossia. Costoro erano: Mons. Asinari, Arciv. di Efeso; Mons. Tizzani, Arciv. di Nisibi; P. M. Gavino Secchi-Murro, dei Servi di Maria; P. Antonio da Rignano, dei Minori; P. M. Girolamo Gigli, dei Predicatori; Canonico Avv. D. Angelo Fazzini. Il lavoro dei consultori si protrasse per tre anni (1851-1853). I «Voti», consegnati per iscritto alla Congregazione dell’Indice, risultarono tutti favorevoli al Rosmini, eccetto quello del can. Fazzini. La Congregazione dei Consultori ratificò il giudizio il 26 apr. 1854, e nell’adunanza generale, presieduta dallo stesso Pio IX, fu emessa la sentenza assolutoria delle opere del Rosmini (Dimittantur del 3 luglio 1854),

Il seguito è noto. Il Rosmini morì nel 1855. Col pretesto delle opere postume gli anti-rosminiani riaprirono la polemica. Gli scrittori della Civiltà Cattolica tentarono di girare il verdetto della Congregazione interpretando il Dimittantur come semplice permesso di pubblicazione e di lettura degli scritti rosminiani, non come giudizio di riconosciuta non eterodossia delle medesime. Il Maestro dei Sacri Palazzi P. Vincenzo M. Gatti O. P., con lettera all’Osservatore Romano del 16 giugno 1876, richiamò gli anti-rosminiani (P. Liberatore e scrittori della Civiltà Cattolica) alla validità del giudizio assolutorio e al senso giusto del Dimittantur del 1854. Nella medesima lettera era reso noto il testo del famoso decreto («Antonii Rosmini-Serbati opera omnia... esse dimittenda...»).

Ma non tutto finì qui. Sotto Leone XIII la polemica piegò in favore degli anti-rosminiani, i quali ebbero la meglio: un decreto del S. Ufficio del 7 marzo 1888 condannava quaranta proposizioni tratte dalle opere del Rosmini.

Il «Parere» del P. Girolamo Gigli nella questione rosminiana ci sembra di notevole importanza. Il testo, infatti, è destinato ai Cardinali della Congregazione dell’Indice che, per ordine di Pio IX, dovevano pronunciarsi circa l’ortodossia degli scritti del Rosmini. Sappiamo che il verdetto (3 luglio 1854) fu di plenaria assoluzione da ogni contestazione d’ortodossia. Se si tien conto della conclusione del votum del Gigli, decisamente favorevole al giudizio assolutorio, e della sodezza delle argomentazioni, bisogna supporre che il «Parere» del Consultore Domenicano dovette svolgere un ruolo decisivo nel Dimittantur del 1854.

All’interesse di carattere storico per la polemica rosminiana, si aggiunge quello del valore interno dello scritto del Gigli, il quale vi mette in atto un tipo d’esegesi testuale che può servire da modello. Il senso acuto della ricerca del contesto, soprattutto l’attenzione e il ricorso alle premesse filosofiche e teologiche del Rosmini per scoprire il senso autentico delle tesi particolari, rivelano doti di sensibilità intellettuale e di seria metodologia critica che sembravano, appunto, far difetto agli scrittori e libellisti lanciatisi pro e contro nella polemica rosminiana.

Un’altra dote del nostro testo: la posatezza e l’equilibrio nella terminologia come nei giudizi espressi. Tale carattere, insieme al ricorso esclusivo alle fonti dirette degli autori chiamati in causa, rivelano nell’opera un metodo di critica di schietta impostazione scientifica; e, mentre pongono il documento in questione fuori - e al di sopra - della polemica di parte, gli assicurano un indiscusso valore storico e dottrinale.

Del saggio del Gigli - troppo lungo per poter esser qui pubblicato integralmente - faremo una breve sintesi, necessariamente sempIificata e ridotta ai punti essenziali.

***

«Parere intorno alle opere dell’Abbate Antonio Rosmini-Serbati»
di Fr. Girolamo Gigli O. P.

Per prima cosa il Gigli sottrae la questione rosminiana alla polemica di piazza condotta con passionalità incontrollata e con intemperanze verbali. Sbarazzato il campo dalla libellistica di bassa lega, prende in esame l’opera anti-rosminiana più poderosa e più degna d’attenzione, sia per il valore dell’autore che per la serietà delle accuse. Si tratta d’un’opera in 2 voll. pubblicata a Milano nel 1850; il terzo volume rimase inedito perché il Papa impose silenzio ai contendenti e affidò la cosa alla Congregazione dell’Indice. Il titolo è: «Princìpi della scuola rosminiana esposti in lettere famigliari da un Prete Bolognese». L’autore si nascondeva sotto lo pseudonimo di Eusebio Cristiano, ma era risaputo che si trattava del noto moralista gesuita Antonio Ballerini (1805-1881). Il Ballerini polemizzava da vecchia data col Rosmini, tanto che questi si vide costretto a difendersi con una «Apologia». Qui, a giudizio del Gigli, il Rosmini «sensibile agli attacchi in materia di fede... scrisse con molta acrimonia e con severo risentimento». Inde irae, e non solo quelle personali del Ballerini, che veniva pubblicando le Lettere Famigliari con l’appoggio del Generale dei Gesuiti P. Roothan, ma di tutta la Compagnia, che si sentì in dovere di far corpo in difesa del Ballerini contro i rosminiani. Il Gigli rileva la mossa e dice - alquanto maliziosamente - che lo schieramento della Compagnia «era ben naturale soprattutto se voglia ritenersi che l’Eusebio Cristiano appartenga a quella illustre famiglia, nella quale siccome l’individuo è interamente pel corpo morale, così tutto il corpo è per l’individuo, immedesimandosi parte con parte, parte con tutto e tutto con parte; ciò che forma la nobiltà e la grandezza di quel corpo, che io in testimonio di rispettosa osservanza non nomino» (n. 1). E così l’annotazione, trattenuta entro i limiti della lode sincera, è spinta acutamente a sfiorare i confini dell’ironia.

Comunque il Gigli, pur condannando le parole grosse che son corse tra i polemizzanti, riconosce sincerità e onestà d’intenti all’una e all’altra parte. Per conto suo intende condurre l’analisi della questione riferendosi unicamente ai testi originali e diretti del Ballerini come del Rosmini. «Mi confermai in questa opinione che avvertii non potersi giudicare Rosmini se non col medesimo Rosmini» (n. 4). E verrà formulando la sua conclusione «dopo molta fatica durata e meditazione; perciocché trovandomi coll’animo tenacemente preoccupato dei tanti contrari argomenti del Prete Bolognese sostenuti dalla sua stringente logica, mi è convenuto leggere e rileggere da un lato l’opere del Rosmini, e massime il Trattato della coscienza, i Principi della scienza morale e l’Antropologia, e dall’altro le Lettere Famigliari del Prete Bolognese, e quindi meditarle, compararle e giudicarle, riportandole al criterio della verità, che per me dopo la dottrina dei Padri della Chiesa e dei Teologi non è stata che la ragione, non essendo perciò il mio voto che un ben ponderato e coscienzioso giudizio della mia mente» (n. 167).

Nello stesso tempo fissa i limiti dell’indagine: l’opera teologica del Rosmini e la verifica della validità o no dell’accusa d’eresia lanciata nei suoi confronti. E qui si propone una metodologia di valutazione teologica che, riportando al livello d’esegesi testuale la nota distinzione teorica dell’eresia materiale e formale, fonda la giustificazione stessa del porsi d’un giudizio d’ortodossia teologica: esaminare «cioè se dal contesto, o meglio dall’altre sue novelle dottrine ne risultassero i capi dell’accusa; perciocché siccome nuove sono nel Rosmini le conseguenze, così nuovi ne sembrano i principi; onde riconoscer bisogna nel giudizio quei principi, dai quali tali conseguenze discendono, siccome ha dovuto riconoscerli il Rosmini; non avendo altrimenti potuto ammettere e scrivere quelle verità dedotte. Che se i principi fossero in se stessi, o si dimostrassero, filosoficamente falsi, reo non sarebbe il Rosmini delle conseguenze eretiche, perché tali conseguenze non furono da lui ricavate che secondo quei dati principi da lui riconosciuti come veri. Ora così appunto debbonsi riconoscere da chi procede a giudicare delle opere del Rosmini, non essendo quelle conseguenze che sempre vere ipoteticamente, quantunque fossero realmente false nel caso che veri non fossero stati i dati» (n. 4).

Il che, a nostro parere, è ben più che la semplice applicazione della distinzione dell’eresia formale e materiale.

Solo simile metodologia d’onestà scientifica può «sciogliere il nodo delle quistioni» e portare un giudizio definitivo sulle accuse del Prete Bolognese che addebita al R., senza batter ciglia, tesi di baianismo, quesnellianismo, molinosismo, calvinismo e luteranismo. Ce n’è - come si vede - a sufficienza. 

Riconosciuta al R. «una novità o vera o apparente che sia di linguaggio che di teoriche» (n. 7), e facilmente smantellata l’accusa secondo la quale l’imputato intendeva palliare furbescamente tesi eretiche con un linguaggio nuovo e sfuggente (nn. 8-11), il Gigli esamina una per una le più importanti accuse d’eterodossia lanciate contro il R. dall’Eusebio Cristiano (alias Ballerini).

1.  Accusa di giansenismo e baianesimo (nn. 12-14). Il R. ha insegnato la dottrina della «moralità senza coscienza»; ma gli atti morali senza coscienza non sono liberi; attribuire, quindi, merito o demerito a tali atti - come fa il R. - significa riprendere la dottrina della terza proposizione giansenistica condannata [Denz. 1094/ 2003].

Critica (nn. 15-60). È vero che il R. sostiene la teoria della «moralità senza coscienza». Ma tale posizione va giudicata nel contesto delle premesse della teologia rosminiana; soprattutto nella concezione che il R. ha della coscienza, che non ricalca la definizione tradizionale. Ora, in primo luogo il R. afferma la necessità della libertà per l’imputabilità degli atti (Trattato della coscienza morale, Napoli 1849; Antropologia in servizio della scienza morale, Milano 1838). E sostiene l’esistenza nell’uomo d’alcuni atti morali senza coscienza (teoria della «moralità senza coscienza»). Ma è appunto la peculiare concezione rosminiana della coscienza che entra qui in giuoco. R. definisce la coscienza: «un giudizio speculativo sulla moralita del giudizio pratico». Definita così la coscienza, niente impedisce che simili atti morali siano liberi. Anzi, per esplicito insegnamento del R., gli atti si pongono come morali, e quindi imputabili, solo se liberi (Antropologia). Del resto lo stesso R. nell’Apologia si scagiona da tale accusa che gli pare «arditissima menzogna e goffisimo errore». Cosa - conclude il Gigli - «che non è d’un uomo della sua sfera».

Se si tiene presente la nozione di coscienza del R., non è diffìcile comprendere come agli atti morali «senza coscienza» sia il giudizio pratico ad assicurare la libertà. Infatti «le operazioni senza coscienza sono sempre secondo lui (Rosmini) precedute dalla cognizione diretta e dal volontario riconoscimento, epperò da un giudizio e da una stima pratica, ch’è libera, della cui libertà partecipa l’atto esterno che necessariamente ne dipende» (n. 38).

In ogni caso «se si potesse dimostrare il contrario di ciò ch’egli ritiene circa la natura della coscienza, cadrebbe secondo il medesimo R. siffatta moralità senza coscienza, e quindi si direbbe di aver il medesimo errato fitosoficamente, ma non mai teologicamente, di non aver cioè mai ammesso un merito senza libertà» (n. 42).

precedente ] successiva ]