⌂ 2. Accusa di quesnellianismo e giansenismo (n. 61). Il R. parla di «una prevalente e trionfante grazia» che muove l’uomo giustificato «infallibilmente e irresistibilmente a qualche atto santo»; ma ciò - argomenta il Prete Bolognese - nega la libertà umana sotto l’azione della grazia, e significa quindi ricadere nella dottrina condannata dal Tridentino e ripresa da eresie successive [Denz. 814/1554].
Critica (nn. 62-72). Il Gigli concede che il termine «irresistibilmente» usato dal R. non è felice, o comunque non abituale nella teologia della grazia, e potrebbe ingenerare confusione. Ma ciò non legittima la conclusione tratta - troppo frettolosamente invero - dal Prete Bolognese.
Il R. nella dottrina della grazia s’inserisce decisamente nella corrente agostiniana e tomistica, e le sue posizioni ricalcano apertamente quelle di S. Tommaso. Si prenda per es.: «Deus enim movet quidem voluntatem immutabiliter propter efficaciam virtutis moventis» (S. Tommaso). Chi non ritiene la dottrina tomistica della premozione e della gratia efficax ab intrinseco non potra mai comprendere che l’infallibilità della produzione dell’effetto sotto tale mozione non significa necessità dell’azione della causa seconda. Sotto tale mozione divina la volontà dell’uomo infallibilmente coopera alla produzione dell’effetto perché infallibilmente è portata a liberamente determinarsi a siffatta opera di collaborazione. Ed il R. afferma esplicitamente che all’uomo resta la possibilità di resistere alla grazia (almeno in senso diviso). «Perocché sono due cose diverse dire che una causa sia sufficiente a produrre un effetto, e dire che quella causa non possa essere impedita da un’altra nella produzione di quell’effetto, a cui produrre ella è per sé sufficiente» (Antropologia).
Codesta accusa poggia, in fondo, su premesse di dottrina molinista che trova volentieri l’inconciliabilità del libero arbitrio con la dottrina tomistica della grazia efficace.
3. Accusa di giansenismo per la dottrina delle «due dilettazioni necessitanti» (n. 73). Per il Ballerini, il R. sia nell’Antropologia che nelle Catechesi riprende la posizione giansenistica delle due delettazioni necessitanti, e cioè della concupiscenza da una parte e della grazia dall’altra che spingono l’uomo irresistibilmente, e quindi non liberamente, l’una al male e l’altra al bene.
Critica (nn. 74-82). Il Gigli per tutta risposta oppone un chiarissimo testo dell’imputato: «Talora tra la volontà e la coscienza si ha un combattimento... Ma anche allorquando la volontà, dopo aver lungamente lottato, vinta, cede al nemico, non soffre violenza, anche allora se pecca, pecca spontaneamente». Il Rosmini - commenta l’autore del «Parere» - distingue tre tempi della volontà nel peccato: a) prima dell’azione, caratterizzato dalla lotta di opposti motivi di bene e di male; b) dopo il peccato; c) durante l’atto peccaminoso. In questo terzo momento il R. non considera la libertà perché rimette al punto a) il libero esercizio della volontà, la cui decisione permane nel farsi dell’atto umano. Nel momento c) quindi è detto che, se la volontà pecca, pecca spontaneamente. Ed è chiaro che questo termine non significa «necessariamente» - come interpreta il Prete Bolognese - ma indica lo stato in cui la volontà, presa la libera determinazione, non può che operare ed in forza della sua spontaneità. In tal caso anzi la volontà «cresce la forza dell’uno e dell’altro dei due allettamenti» proprio per la sua intrinseca energia posta in atto da una elezione di libertà.
Adombrata così l’importante distinzione nell’atto umano del voluntarium e del liberum (l’equivoco era proprio nell’ignorare - o non applicare - tale distinzione), il Gigli può riportare un testo del R. in cui paradossalmente la posizione rosminiana appare essere proprio all’antitesi della tesi giansenistica. «La dottrina da me data della libertà - scrive il R. nell’Apologia - distrugge fin la radice del sistema giansenistico perché dimostra consistere la libertà umana nel potere di accrescere o diminuire la stessa dilettazione; sicché questa prevale e domina perché il libero arbitrio a ciò la determina» (n. 79). Il che, nella formulazione tecnica della manualistica di scuola, si può ricondurre - ci pare - al tradizionale: concupiscentia a libero procedens adauget voluntarium. E questo non ha niente a che vedere con la necessità dell’atto volontario.
4. Accusa di molinosismo. Oggetto: gl’istinti animali nell’uomo hanno tanta forza da esser necessitanti al male. Posizione del «quietismo di Molinos», e attribuita al R. del Prete Bolognese.
Critica (nn. 83-101). Riferiti due lunghi testi rosmininani del Trattato della coscienza e dell’Antropologia, il Gigli imposta la difesa su tre punti:
a) è vero che l’uomo, dopo il peccato originale, è come combattuto all’interno di se stesso da opposti principi di male e di bene, la «legge delle membra» e la «legge mentis meae» (abbondanti testi di S. Paolo e di S. Tommaso);
b) è possibile che l’istinto del male spinga talvolta l’uomo ad operare indipendentemente dalla propria volontà (conferma da testi scritturistici e tomistici); in tal caso, mancando l’adesione della volontà, gli atti non sono liberi e perciò non imputabili;
c) è possibile che l’istinto del male solleciti la volontà e provochi la libera adesione (cf. S. Tommaso: «Utrum voluntas moveatur a passione appetitus sensitivi»: I-II, q. 77, a. 1). Il grado di imputabilità dell’atto e determinato dalla misura in cui la concupiscenza sollecitando il voluntarium permette la compresenza del liberum. Ora ciò che insegna il R. a questo proposito non è contrario alla «dottrina comune dei Teologi», come si può ricavare dal Trattato della coscienza, n. 97. Egli sostiene che «il traviamento del giudizio» nell’uomo, se non attualmente, può esser colpevole «nel suo principio», e cioè effetto delle «precedenti nequizie» (responsabile in causa) (Antropologia, n. 743). Quanto al rapporto istinto-volontà, il Gigli può fissare che dalla lettura diretta dei testi rosminiani non risulta «che il R. voglia tutti gli atti istintivi necessari, e non peccaminosi, né insegna all’opposto che siano peccati senza che siano liberi sia in atto sia in causa: anzi dimostra chiaro che alcuni sono assolutamente indipendenti dalla volontà, alcuni dipendenti dalla volontà libera in atto ed altri dipendenti dalla volontà libera in origine. L’insieme delle citate dottrine dimostrano che gli atti istintivi talora sono liberi, e talvolta sono necessari, e però talor peccaminosi e talor no; talor morali in senso stretto e talor morali in senso latissimo. In questo modo la dottrina di R. in materia si accosta a quella di S. Tommaso intorno alla natura degli istinti, come sopra abbiam veduto... » (n. 96).
E, poco dopo, il richiamo alla sua metodologia di critica; «Ho intanto trascritto per intero tutti gli articoli del R. intorno all’appetito sensitivo perché meglio s’intenda la sua mente, e perché qualche passo che isolatamente sembra duro e oscuro possa chiarirsi e portarsi al suo proprio senso col contesto e col corpo della dottrina che spiega tutto il pensiero e la mente dell’autore» (n. 97).
5. Accusa di luteranesimo e di calvinismo. Il R. nega il libero arbitrio negli atti umani. Partendo dalla definizione rosminiana dell’atto libero («l’atto della volontà che non viene determinato da nessuna cagione necessaria diversa dal principio che vuole») il Ballerini conclude che il R. assicura sì all’atto umano la libertas a coactione ma ne esclude la libertas a necessitate. Il che è ricadere nella più palese eresia della non libertà dell’uomo nel suo agire morale (n. 102).
Critica (nn. 103-129). Il R. distingue nell’attività elettiva della volontà umana tre gradi secondo la presa di coscienza sempre più perfetta che l’uomo fa del suo atto. Questa descrizione del movimento volitivo rimanda - secondo l’allusione dello stesso R. - agli atti della volontà esaminati da S. Tommaso. Questi riduce gli atti essenziali della volontà a due: a) la simplex volitio: la compiacenza inefficace della volontà circa l’oggetto; b) l’electio: la determinazione efficace della volontà verso l’oggetto dell’atto umano. Ora è solo nell’electio che il libero arbitrio esplica il suo pieno esercizio (Proprium liberi arbitrii est electio). La definizione che il R. dà dell’atto libero vuole appunto affermare che in tanto l’atto umano si pone libero in quanto non è determinato da nessun altro principio se non quello che conviene alla stessa volontà, e cioè la sua incondizionata elezione. In tale concezione è evidente che viene esclusa, dal libero determinarsi della volontà, ogni costrizione sia esterna che interna. È la conclusione che si trae da tutte le premesse rosminiane e dal contenuto stesso dei passi incriminati dall’Eusebio Cristiano. Del resto, lo stesso R. afferma esplicitamente la necessità della duplice libertà (a coactione e a necessitate) perché venga assicurato il libero arbitrio nell’attività morale dell’uomo (Antropologia, n. 583).
Quanto poi alla «spontaneità» di cui parla il R., questa va intesa - come è stato già detto - non necessità dell’azione ma naturale e facile passaggio all’atto umano posta la previa elezione della volontà. Che, anzi, se presentazione d’oggetti di volizione da parte dell’intelletto o sollecitazioni da parte della concupiscenza hanno aumentato la «spontaneità» dell’atto volontario, ciò significa una intensità di voluntarium ma non una negazione del liberum. Questa è la vera esegesi delle poco felici parole del R. - ed il Ballerini pretende trarne materia d’accusa - con cui si dice che nell’atto umano c’è «una necessità che non è se non la stessa volonta determinata».
Conclusione del Gigli: «Di siffatta natura sono tutti gli altri argomenti contro la dottrina di R. intorno alla libertà; anche conchiudo che la di lui dottrina in materia non sia contraria al domma della libertà; e che la libertà da ogni peccato della quale egli tratta non convenga punto con quella di Lutero De servo arbitrio» (n. 129).
6. Accusa di tesi manichea circa la dottrina di peccati necessari (n. 130).
Critica (nn. 131-145). La risposta è contenuta nella precedente esposizione. Il Ballerini accusa il R. di escludere l’attività libera negli atti umani partendo dal testo dove questi fissa le condizioni dell’atto morale: a) l’esistenza d’una legge; b) la volontà che, a conoscenza della legge, pone l’atto. Qui - argomenta il Ballerini - si afferma un’attività volontaria, non un’attività libera.
Il Gigli risolve facilmente la difficoltà facendo notare che il R. parla di moralità in senso generalissimo, prescindendo - o, se si vuole, includendo - dall’atto sia materialiter che formaliter morale. Tanto è vero che l’autore parla di moralità imputabile e non imputabile. Ed è ovvio che «in siffatto modo della definizione della moralità in genere rimoto si deve prescindere dal principio libero» (n. 131). Che per l’atto imputabile, poi, il R. richieda il pieno uso del libero arbitrio, è quanto egli stesso asserisce facendo la critica di Baio: «... se volete definire un peccato imputabile, una colpa, la volontà non è solamente causa, ma anco elemento essenziale di ciò che si vuol definire, perché la colpa è colpa in quanto è prodotta da una volontà libera e non altramente». « Sicché - aggiunge il Gigli - possiamo concludere che la dottrina del R. rispetto alla moralità e al peccato non sia anticattolica, né quindi degna di censura» (n. 145).
7. Accusa di luteranesimo e calvinismo intorno alla dottrina del peccato originale. Questo - espone il Prete Bolognese - è identificato dal R. alla concupiscenza o alla generale inclinazione al male dell’uomo, alla maniera appunto di Lutero e Calvino (n. 147).
Critica (nn. 148-165). Il Gigli espone prima di tutto la dottrina tomistica del peccato originale e conclude fissandone l’essenza: il peccato originale, formaliter è la privazione della giustizia originale; materialiter è la concupiscenza. Ora la dottrina rosminiana riprende fedelmente la posizione di S. Tommaso.
Infatti nell’Antropologia (n. 757), il R. parla della concupiscenza che si pone, a riguardo del peccato originale, come «la base» di esso. Ora dal contesto si ricava che codesta espressione non è altro che una formulazione moderna della terminologia scolastica che assegna alla concupiscenza la parte materiale del peccato originale.
Quanto all’elemento formale del peccato originale: a) il R. afferma che dopo il battesimo, nonostante il peccato originale sia distrutto, la concupiscenza rimane. «Se dunque secondo il medesimo R. rimane la concupiscenza anche nell’uomo battezzato, non è per lui la concupiscenza il formale e l’essenza del peccato originale, il quale altrimenti sarebbe e non sarebbe distrutto dal battesimo» (n. 154); b) il R. parlando dell’essenza del peccato originale dice che questa consiste «nello stato della volontà suprema avversa alla legge» (Antropologia, n. 105); e con ciò aflerma direttamente il formale di tale peccato come stato di privazione di grazia originale. Ed il Gigli porta a conferma di ciò numerosi testi rosminiani, tra i quali alcuni che fanno esplicito riferimento alla teologia tomistica del peccato originale.
Che se poi il R. parla a volte di «atti che nascono inevitabilmente dal fomite della concupiscenza originale... i quali atti procedono dal peccato abituale d’origine», è chiaro che si tratta d’un’altra formulazione della dottrina tradizionale: il peccato originale, in forza del battesimo, «aufertur reatu, remanet tamen actu», cioè nel fomite. E il R. designa appunto il fomite con l’espressione - non usuale, bisogna convenire - «peccato abituale d’origine».
Il R. resta così scagionato anche dall’accusa d’eresia circa il peccato originale. La sua dottrina anzi - esaminata alla base dei testi diretti - risulta cattolica, giacché «il Rosmini rettamente parla del peccato originale, sia dell’essenza e della parte formale di esso, sia della parte materiale, sia del fomite sia degli atti provenienti da questo, sì ne’ rinati che ne’ non rinati...» (n. 164).
Dopo la precedente dettagliata e stringente analisi, il Gigli può formulare, con tutta giustificazione critica, la conclusione generale:
«Io quindi conchiudo che la dottrina di Rosmini non sia contraria ai dommi cattolici né in materia di moralità, né in materia di grazia, né in materia di libertà, né in materia d’istinto animale, né in qualunque altra materia incriminata» (n. 166).
E, rivolto ai Cardinali della Congregazione dell’Indice cui è destinato il «Parere» e che presiedono alla formulazione dei giudizio sull’ortodossia del Rosmini, termina:
«Il mio voto adunque, Emi Principi, subordinato già al vostro illuminato spirito, è che l’opere di Rosmini cader non possano sotto censura. Questo voto è in forza di un mio pieno convincimento...
Se da voi, Emi, sarà riconosciuto come esatto giusto e vero, se cioè coi vostri altissimi lumi, vedendovi la verità, lo degnerete della vostra approvazione avrò il piacere di non avere indarno faticato, di aver guarentito il dogma e salvato un uomo illustre, che mercé la sua pietà e dottrina onora il clero e le lettere. In altro caso troverò ben ragione di rassegnarmi nell’inconcusso principio, che tutti debbono riconoscere in forza della natura del finito e dell’esperienza d’innumerevoli fatti, cioè che lo spirito umano, poiché ben limitato, soventi fiate travede nel discoprimento del vero che, come altissimo e avente origine dal medesimo Iddio, non così facilmente si raggiunge dall’umano intelletto e che, sebben semplice, non si lascia in un modo solo vedere da tutti» (n. 167).
NB, Nov. 2007. In questi giorni corre la notizia circa il processo di beatificazione del Rosmini. E ricorre pressappoco, nelle parole degli storici e teologi intervistati, quanto qui si legge nella conclusione generale dell'ottocentesco Girolamo Gigli!
Dic. 2014: →un omonimo Girolamo Gigli!