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Dizionario degli istituti di perfezione
«Memorie domenicane» 7 (1976) 398-402. ■ recensione ■ |
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1 | Dizionario | progetto 1969 | |
2 | Introduzione | 5 | i primi volumi |
3 | progetto 1950 | 6 | concludendo |
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Dizionario diretto da G. Pelliccia (1962-68) e da G. Rocca (1969- ), ed. Paoline. Opera completa in 10 volumi.
Vol. I (1974) A-Cam, pp. I-XXXIV, coll. 1-1728.
II (1975) Cam-Conv, pp. I-XXVI, coll. 1-1726.
III (1976) Conv-Fig, pp. I-XXVI, coll. 1-1734.
IV (1977) Fig-Int, pp. I-XXVI, coll. 1-1734. Fin qui, allora; completo il resto:
V (1978) Iona-Int, pp. I-XXVI, coll. 1-1743.
VI (1980) Monach-Pinz, pp. I-XXVI, coll. 1-1751.
VII (1983) Pio-Pza, pp. I-XXVI, coll. 1-2079.
VIII (1988) Saba-Spir, pp. I-XXXII, coll. 1-2039.
IX (1997) Spir-Véz, pp. I-XXVI, coll. 1-1959 (sotto la voce Storiografia, § 3: La storiografia domenicana delle origini, coll. 374-78).
X (2003) Via-Zwi, pp. I-XXVI, coll. 1-1683. Ultimo volume, con Appendice e Indici, incluso "Indice analitico" di tutte le voci, 1138-1682, di grande utilità per la consultazione del tutto.
L’Introduzione del direttore G. Rocca (I, pp. VII-XVI) è il miglior avvio al discorso su questa imponente realizzazione delle Paoline. Vi si espongono, con chiarezza e onestà, origine natura e rischi d’una tale impresa.
Ideata nel 1950 da don Giacomo Alberione († 1971), in occasione del primo congresso mondiale degli stati di perfezione, per rispondere al bisogno d’una «sintesi enciclopedica che presentasse la realtà storica, canonica, teologica, culturale e umana della vita religiosa», l’opera entrò nella prima fase esecutiva nel 1960-62. Sopravvenne il concilio Vaticano II, e fece segnare il passo all’attività redazionale; ma suscitò - com’era ovvio - il bisogno d’una profonda revisione dell’ispirazione e delle idee direttrici del dizionario, quando Lumen gentium e Perfectae caritatis persuadevano nuovi rapporti teologici tra forme storiche di vita associata all’interno della chiesa e l’unica vocazione alla santità cristiana. Il dizionario era stato concepito «come una specie di prontuario che accogliesse, con interessi prevalentemente canonici e apologetici, uno schedario completo degli istituti religiosi esistenti ed estinti, ma soprattutto una galleria dei più insigni religiosi di tutti i tempi...» (p. VIII); con una sezione destinata agli istituti religiosi e un’altra «alla presenza dei religiosi nei vari rami del sapere, della spiritualità e della società» (ib.).
Il progetto aveva pressoché un lustro ed era già vecchio.
Tutt’altra impostazione venne elaborata dal nuovo direttivo costituito nel 1969, che è responsabile della redazione finale del dizionario. Centrando anzitutto la specificità dell’opera nella «vita religiosa», furono stabilite tre grandi linee metodologiche di lavoro:
a) analizzare la vita religiosa nella sua natura, evoluzione storica, nelle sue difficoltà;
b) illuminare la sua posizione nella chiesa e di fronte alla chiesa;
c) tener conto anche della sua posizione nella società e di fronte alle leggi civili (p. IX).
Furono costituite sezioni (dal Diritto alle Religioni non cristiane, dalla Spiritualità alla Psicologia e Sociologia...) all’interno del comitato redazionale, affidate a coordinatori specialisti nei diversi settori. Le caratteristiche culturali che ne risultarono costituiscono anche il volto distintivo del presente dizionario, rispetto sia a opere affini che alle vecchie Storie degli ordini religiosi dell’Hélyot (1714-19) e dell’Heimbucher (1896-97):
visione teologica della vita religiosa
base storiografica moderna
ricorso alla psicologia e sociologia
spazio dedicato alla personalità dei fondatori
numerosissime voci assegnate alla struttura interna della vita religiosa e sua evoluzione nel corso dei secoli
ampia trattazione del monachesimo orientale e occidentale nonché delle Regole che hanno retto secoli di monastica
voci dedicate al fenomeno monastico nelle altre religioni.
Due grosse difficoltà si sono affacciate ai redattori.
La prima: come evitare la tentazione apologetica quando gli articoli su istituti esistenti (e loro personaggi insigni) siano affidati a membri dell’istituto medesimo. Vi si collega il problema della selezione dei collaboratori, delle correnti spirituali, delle tendenze teologiche in un corso storico in cui lo statuto giuridico-teologico della vita religiosa è aperto a profonde trasformazioni. I redattori hanno fatto opera d’integrazione, quand’era possibile, per contenere intenti celebrativi; hanno allargato e introdotto temi e collaborazione ai fini d’ottenere più ampia espressione del pluralismo di fatto. Presso una sponda hanno sollecitato obiettività storica, presso l’altra hanno rischiato rifiuti di collaborazione da chi temeva un altro caso di «petrificazione romana» della vita religiosa post-conciliare. La prudenza ha consigliato - come si conviene a simili imprese editoriali - di «trovare la giusta collocazione tra due eccessi e, conseguentemente, ottenere credibilità per il Dizionario stesso» (p. XII).
La seconda difficoltà non era minore, benché si presentasse sotto il cartello della tecnica editoriale: che titolo dare al dizionario? Dizionario degli ordini religiosi, di vita regolare, di perfezione...? La nostra memoria lessicale (da Simone lo Stilita ai Focolarini) è d’un tratto agitata da lotte intestine: chi è monaco senz’essere ordine, chi religioso senz’esser regolare, chi regolare senz’esser né monaco né religioso, chi canonico d’ordine regolare, chi laico d’ordine canonico, chi perfetto senz’esser né canonico né ordine, chi d’ordine equestre ma non di perfezione, chi di vita perfetta senz’esser né istituto, né religioso... Nessuno potrebbe ragionevolmente prendersela col titolo d’un dizionario. Dietro suggerimento di A. Gutiérrez, il comitato direttivo ha adottato il titolo Dizionario degli istituti di perfezione. L’espressione - si fa notare - è nei documenti del Vaticano II.
E scorriamo i primi volumi dell’opera apparsi tra il ’74 e il ‘77. Editorialmente splendida, impreziosita da illustrazioni, diagrammi, tavole, l’opera supera gli ostacoli scientifici e teologici con la ricchezza di voci ricercate - oltre a quelle scontate su tutti gli istituti, fondatori e uomini illustri - nelle strutture interne, sociali istituzionali psicologiche, che fanno il tutto reale d’organismi associativi di vita cristiana. Certo, “istituti”, “fondatori”, “uomini (e donne) illustri” fanno ancora spicco su colonne di fogli in ottavo dove reticenza del contesto in absentia e lievitazione del testo celebrativo dislocano a dismisura le tessere; cosicché il lettore è costretto a lettura incrociata se ha da ricomporre integro, da più articoli, il fatto storico, e discernere gradi ed elementi allogeni del “composto” religioso. Tipica, ad esempio, la pudica rapidità con cui taluni autori evocano la «decadenza» degli ordini religiosi (sec. XIV-XV), lesti a rincorrere le riprese della observantia e della strictior observantia. Ci si vieta d’intendere le ragioni specifiche della decadenza religiosa e ci si tacciono i contenuti della riforma all’insegna della “primitiva osservanza”. Non rimane allora che invocare la peste nera come «causa principale della decadenza» (cf. I, 324-25). Ma - si diceva - le voci collaterali e sussidiarie colmano gl’interstizi e trascorrono da pilastro a pilastro; servono da correttivo, perfino da chiave critica per rileggere le pagine ispirate agli annali commemorativi delle glorie di famiglia. La cura storica nel fissare l’origine e seguire l’evoluzione dei temi sussidiari prevale e s’impone. È il settore, a nostro avviso, più prezioso del dizionario. Vi si trovano pregevoli scorci storici su abito religioso, agricoltura, architettura, amicizia, araldica, attività proibite, clausura, conversi, conventualismo, carcere, classi di religiosi, confessione, costituzioni, dietetica, dote, documenti pontifici d’approvazione, economia, elezioni e tecniche elettorali, evoluzione degli ordini religiosi... Non si può che auspicare la moltiplicazione e l’ampliamento di voci parallele nei restanti volumi. È il terreno su cui i propositi critico-teologici della redazione provano il valore culturale dell’impresa; vi mettono in libertà forze torrentizie dalla corsa trasversale agli edifici; di questi saggiano statica e fondamenta. Vedi caso dell’abito religioso alle voci Abito, Costume.
Inevitabili, allora, le divergenze prospettiche, le interpretazioni discordi, perfino le contrapposizioni stridenti tra scritture - per così dire - verticali e scritture orizzontali (ma anche questo, dopotutto, documenta i trapassi di fede in atto). L’articolo che rivendica specificità all’economia monastica occidentale (autore J. Leclercq) ne espone, a partire dai testi legislativi e spirituali, princìpi e paradossi.
Princìpi: 1) ingiunzione del lavoro come fuga dall’ozio e strumento d’ascesi; 2) il lavoro dev’essere attività disinteressata («i monaci non lavorano per sfruttare le risorse del mondo e nemmeno, sembra, per procurarsi i mezzi per vivere... ma perché il lavoro è uno strumento di salvezza»: III, 1022); 3) il lavoro non mira al rendimento né all’arricchimento; 4) l’economia monastica è, di principio, un’autarchia, ossia è autosufficiente.
Paradossi: 1) non si cercava il rendimento ma lo si otteneva (aggregazione al monastero della familia, conversi destinati alla conduzione e al lavoro dei fondi); 2) il monastero è povero ma dà ospitalità ed elemosina; 3) economia senza risparmio: la produzione si limita alla consumazione; 4) lavoro senza salario: «il monastero non pagava quelli che lavoravano per esso ma, nuovo paradosso, erano questi che versavano un canone al monastero»; 5) solitudine e popolamento; 6) clausura e trasporti (prolungamento del commercio). L’esposizione conclude a un’«economia a base soprannaturale» (III, 1026). Al che fa immediatamente séguito l’asserzione d’apertura del paragrafo successivo (del marxista E. Werner): «Nel feudalesimo non è mai esistita una particolare forma di economia monastica, che si sia differenziata, in linea di massima dall’economia feudale» (III, 1027).
Ma non è il caso di conclusioni contrarie da contrarie premesse. Nelle voci Agricoltura ed Economia monastica occidentale (le prendiamo a titolo d’esempio) sopravvivono due modi tradizionali di riandare la storia della vita religiosa, due attitudini che il dizionario intendeva esorcizzare ma che non è riuscito a scrollarsi di dosso: l’una implicitamente apologetica quando rivendica in proprio (per la vita religiosa) un fatto sociale strutturalmente secolare; l’altra tendenzialmente idealista quando l’ondata del “materialismo” montante forza l’antica sprovvedutezza del religioso in pavidità del cittadino. Bonifiche, dissodamento, disboscamento, messa a coltura non possono terminare, senza regolari trapassi, a «civilizzazione ed evangelizzazione» (I, 435-43); né la normativa etica dell’ideale monastico del lavoro può issofatto inferire un’economia monastica «a base soprannaturale» (III, 1020-26). La quale, peraltro, avrebbe potuto storicamente darsi. Ma era qui l’occasione di provarne la specificità - se ebbe luogo - a confronto con l’economia della signoria laica o vescovile. Ci saremmo attesi che a confronto con la dinamica della proprietà fondiaria dei signori laici, si illustrassero le differenze introdotte e mantenute dall’amministrazone dell’economia monastica. Quali, ad esempio, le differenze strutturali tra proprietà laica e proprietà monastica nella dinamica economica esistente tra terra dominica e terre tributarie; nei valori economici dei contratti di concessione (sia nelle forme economico-sociali del manso: ingenuile, servile ecc., che nella natura del canone, quantità del censo e delle corvées); nella composizione del rapporto lavoro/reddito tra monaci, conversi, familia, coloni, hospites? Quale le differenze nell’organizzarsi della signoria bannale sussidiaria alla proprietà terriera? Quali le differenze nell’evoluzione dall’economia della curtis o villa a quella della signoria rurale in senso stretto? E quali le differenze nella trasformazione (sec. XI-XII) della proprietà terriera verso regimi di tenure e di fitti a breve termine?
Le medesime tentazioni serpeggiano qua e là nel dizionario. Nella trattazione, ad esempio, di quegli ordini, istituti, congregazioni, movimenti associativi estinti, cui nessuna penna presta il tributo di fervore dell’adepto. A Cluny sono riservate 4 colonne contro le 73 dei Cistercensi, le 137 degli Agostiniani. I movimenti evangelico-comunitari, le fraternità apostoliche e più in là le... sètte, hanno l’aria d’essere schiacciati da un giudizio - non conclamato ma onnipresente - che ripone nel momento istitutivo e d’approvazione il criterio definitivo dell’esserci o non, nella chiesa di Dio, della “vita religiosa”. Esempi. Il consilium o propositum conversationis di Durando di Huesca e Bernardo Prim avrebbe potuto essere il momento di verità teologica per stabilire legittimità, valori e limiti della vita cristiana associata a petto degli Ordines Religiones Status Regulae prima, delle Osservanze Congregazioni Istituti poi. Lo si licenzia invece con un «ma i loro gruppi non avevano le garanzie dei futuri Ordini mendicanti... nati in seno alla Chiesa e secondo le direttive del Concilio Lateranense IV» (I, 1401). Tutto qui. E quali garanzie? Viene rafforzato il sospetto che l’aver ottenuto da Innocenzo III la dispensa dall’impegno militare nel negotium tolosanum contro gli Albigesi (i due ex-valdesi professavano il rifiuto d’ogni guerra) non abbia giovato alle sorti future dei due “istituti di perfezione” (ma loro lo chiamavano propositum conversationis!) quando il papato si raccoglieva in forze contro le autonomie imperiali e le dissidenze ereticali.
Vi fa da richiamo il fatto capitale, tra Innocenzo III e Riforma, della soppressione di molti ordini mendicanti decretata nel 1274 dal secondo concilio di Lione. Le poche righe che evocano e commentano il famoso decreto Religionum diversitatem nimiam (voce Documenti pontifici di approvazione: III, 760) non aiutano a comprendere né le ragioni della soppressione né la natura della utilitas invocata a favore dell’eccezioni: non si sopprimono i Frati Predicatori e Minori a motivo della «evidens ex eis utilitas ecclesiae universali proveniens» (Concilio II di Lione, const. 23).
Permane una perplessità di fondo in chi consulta il Dizionario degli istituti di perfezione: quale la posizione teologica del dizionario circa natura e collocazione della “vita religiosa” entro l’unità sostanziale e strutturale della santità cristiana?
Moltiplicare le luci dagli angoli del pluralismo aiuta di certo a illuminare l’oggetto; ma potrebbe anche dissimularlo. Vorremmo solo che, a opera compiuta, la questione non restasse elusa.
Il DIP comunque s’impone fin d’ora per il programma, per ricchezza d’informazione, per serietà di contributi. Costituisce uno strumento di riflessione di fede, un grande stimolo a cogliere, tra le novità del mondo e della chiesa, le occasioni e le forme nuove di vita associata della vocazione alla santità evangelica. Non dovrebbe mancare, questo Dizionario, in nessuna biblioteca d’«istituto di perfezione». Sa di già dissuadere chicchessia dall’elevare torri di cartone sulla testa dei novizi.