Di quale eresia si era macchiata Lapina madre di fr. Filippo? Notiamo anzitutto che Doc. I (31 ottobre 1327) non è sentenza di condanna ma lettere patenti rilasciate a Lapina dall’inquisitore fr. Accorsio che testimoniano l’abiura dell’eretica, l’assoluzione dalla scomunica incorsa, la riammissione in seno alla chiesa, il giuramento cui l’ex-eretica era tenuta e le pene inflittele dall’inquisitore. Il processo inquisitoriale e la confessione dell’inquisita d’aver aderito a dottrine eretiche («errores suos fuisse nobis in iudicio manifeste confessam») sono anteriori alle lettere patenti di Doc. I, e potrebbero cadere tra settembre 1327 e 31 ottobre dello stesso anno. La sequenza delle registrazioni in ASV, Collectorie 250, potrebbe suggerire che Lapina sia stata inquisita già in settembre 1327; ma tale libro registra le entrate dei beni confiscati, le quali non necessariamente si succedono secondo l’ordine cronologico degli atti inquisitoriali propriamente detti.
L’eresia cui Lapina aveva aderito è eccellentemente identificata:
illius septe spiritus septatricem, septatores cuius per aliquos insolentes hereticos et prophanos gradus et attus ad tamtum et talem perfectionis statum in vita presenti devenire intendunt quod reddantur penitus inpeccabiles.
Ma la formulazione - bisogna dire - è ben lungi dal testimoniare forma e linguaggio che Lapina avrebbe dato alla propria esperienza spirituale. Fr. Accorsio, individuata la corrente eterodossa, riformula il capo d’accusa sul calco della costituzione Ad nostrum (6 maggio 1312) del concilio di Vienne che condannava le posizioni dette del libero spirito o «de spiritu libertatis» infiltratesi tra beghine e begardi di Germania. La costituzione era stata inserita nella collezione ufficiale delle decretali Clementinae promulgate il 25 ottobre 1317. Il primo errore vi è così enunciato:
Primo videlicet, quod homo in vita praesenti tantum et talem perfectionis gradum potest acquirere quod reddetur penitus impeccabilis et amplius in gratia proficere non valebit. Nam, ut dicunt, si quis semper posset proficere, posset aliquis Christo perfectior inveniri (Clementinae V, 3, 3: Corpus iuris canonici, ed. Ae. Friedberg, Graz 1959, II, 1183).
Gli altri articoli condannati dal concilio di Vienne mirano a porre argine alle logiche conseguenze della prima tesi: «Secundo, quod ieiunare non oportet hominem nec orare, postquam gradum perfectionis huiusmodi fuerit assecutus, quia tunc sensualitas est ita perfeete spiritui et rationi subìecta quod homo potest libere corpori concedere quicuid placet. Tertio, quod ílli qui sunt in praedicto gradu perfectionis et spiritu libertatis non sunt humanae subiecti obedientiae nec ad aliqua praecepta ecclesiae obligantur quia, ut asserunt, ubi spiritus Domini ibi libertas... Sexto, quod se in actibus exercere virtutum est hominis imperfecti, et perfecta anima licentiat a se virtutes… Octavo, quod in elevatione corporis Iesu Christi non debent assurgere nec eidem reverentiam exhibere, asserentes quod esset imperfectionis eisdem si a puritate et altitudine suae contemplationis tantum descenderent quod circa ministerium seu sacramentum eucharistie aut circa passionem humanitatis Christi aliqua cogitarent» (C1ementinae V, 3, 3: ed. Friedberg II, 1183).
La biblioteca dell'ufficio
inquisitoriale di Firenze era stata provvista d'una copia del Septimus (cioè Glementinae) in novembre 1319 e della glossa di Giovanni d'Andrea al medesimo in giugno 1324 (Biscaro, Inquisitori ed eretici 1929, 358; 1933, 201). «È vero che l'abiura è spesso autografa dell'imputato, ma ciò non significa che fosse compilata da lui, perché invece veniva sempre preparata dal giudice sulla scorta dell'evidenza processuale ed è indicativa dunque del giudizio del tribunale, non del pensiero dell'imputato» : A. Del Col, I processi dell'inquisizione come fonte: considerazioni diplomatiche e storiche, «Annuario dell'Ist. Stor. Ital. per l'età moderna e contemporanea» 35-36 (1983-84) 34.L’inquisitore palesemente riprende alla lettera la prima parte del primo articolo d’errori denunciati dalla decretale Ad nostrum. Sebbene la condanna di Vienne colpisca beghine e begardi, l’eresia è quella denominata del «libero spirito». Un movimento le cui origini si riallacciano ai fermenti dell’evangelismo laico pauperistico del XII secolo, che si qualifica nel corso del XIII e che raggiunge la massima fioritura e affermazione nel XIV secolo. Non una setta vera e propria, ma un moto spirituale che si propaga per diffrazione, contagiando altri più definiti movimenti e istituti religiosi due-trecenteschi - dalle fratemite laiche dell’ordine della Penitenza ai beghinaggi a comunità laiche ruotanti attorno agli ordini Mendicanti - riversandosi negli Apostolici di Gherardo Segarelli da Parma e nei segnaci di Dolcino da Novara, incrociandosi talvolta perfino con gli Spirituali francescani e Fraticelli. Il testo più significativo e diffuso è il Miroir des simples âmes di Marguerite Porete, condannata al rogo nel 1310; ben due traduzioni trecentesche circolavano in volgare italiano. Dal Miroir sono elaborate le proposizioni condannate dall’Ad nostrum del concilio di Vienne.
Innestato sul tema biblico della libertà del cristiano, il percorso spirituale - sospinto da un acuto e intimo assillo mistico - giunge a una teopatia diretta e liberante, cui esperienze e linguaggio d’antica tradizione prestano parole d’intonazione panteistica. Il Miroir della Porete descrive le tappe (degrez o estaz) del cammino dell’anima «de libero spiritu». Toccata dalla grazia e liberata dal peccato mortale, l’anima si esercita nell’ascesi dell’osservanza dei comandamenti (1° stato), dei consigli (2° stato), dell’obbedienza (3° stato), pervenendo a una sorta di contemplazione acquisita, ripiena di gaudio ed ebbrezza spirituali, affrancata ormai da occupazioni esteriori e da vincoli d’obbedienza (4° stato). L’anima matura quindi il passaggio dal tutto del peccato al tutto di Dio, cosicché è Dio che vuole ed opera nella volontà e nelle opere dell’anima (5° stato) fino al perfetto assorbimento e annientamento in Dio stesso (6° stato). Già nel quinto stato l’anima, stabilita nella grazia tramite l’identificazione col volere divino, è sottratta a ogni lusinga di peccato, diventa anzi impeccabile (cf. R. Guarnieri, Il movimento del libero spirito. Testi e documenti, «Archivio italiano per la storia della Pietà» 4 (1965) 351-708, con ed. del Miroir). È il punto colpito dal primo articolo della costituzione viennese, a cui rimanda il testo di fr. Accorsio. Ma al brano ripreso dalla decretale Ad nostrum, fr. Accorsio premette l’evocazione del percorso spirituale attraverso molteplici stadi che non si ritrova nella costituzione viennese e che fa eco invece alla dottrina dell’eresia del libero spirito così come volgarizzata dal Miroir des simples âmes di Marguerite Porete: «septatores cuius per alíquos insolentes bereticos et prophanos gradus et attus».
Alla teopatia teorizzata nel quinto stato non poteva non seguire una mistica apatheia che dichiara superati e inutili ogni pratica delle virtù cristiane, ogni frequentazione dei sacramenti e della preghiera, ogni esercizio delle opere penitenziali ecc.; il superamento insomma della mediazione storica e istituzionale della chiesa, dei suoi sacramenti e ministeri come della sua catechesi, della sua pastorale ascetica come della sua pubblica liturgia[1]. Le pene inflitte a Lapina, sebbene in parte convenzionali in atti inquisitoriali, sembrano ben rispondere al principio terapeutico dell’antidoto. Oltre alla banda dalle due croci color zafferano da esibire quale segno visibile di ritrattazione, al carcere e all’interdizione d’indossare l’abito di qualsiasi ordine religioso, Lapina dovrà digiunare a pane e acqua tutti i venerdì per lo spazio d’un anno; attendere nei giorni festivi alla messa e alla predicazione; confessarsi almeno due volte l’anno e ricevere il sacramento dell’eucaristia; recitare quotidianamente per cinque anni venticinque Pater noster e altrettante Ave Maria.
Il movimento del libero spirito aveva dato esca, in frange avventizie ed errabonde, a comportamenti meno esigenti della perfezione cristiana e più proni a decantare in bizzarrie e perfino in licenziosità remote frustrazioni di povertà ed emarginazione. Niente di tutto questo nel caso di Lapina, ché fr. Accorsio non avrebbe mancato di formulare altri capi d’accusa se l’eretica ne avesse dato appiglio. L’adesione di Lapina alla «secta spiritus» non fu cosa superficiale e fugace, visti e la qualità dell’errore contestatole e il tempo trascorso nell’eresia: ben otto anni. Dal 1319 dunque, se viene condannata nel 1327. Filippo, suo figlio, era frate domenicano dal 1318. Nel processo di degradazione dell’ufficio inquisitoriale fiorentino - dove “eresia” diviene nient’altro che pretesto per estorcere fiorini - avviato dallo stesso fr. Accorsio di Ghinuccio Bonfantini da Firenze e consumato negli anni ’30 e ’40 dagli inquisitorí fr. Mino da San Quirico e fr. Pietro dall’Aquila, a loro volta inquisiti e condannati dalla sede apostolica per ogni genere di malversazione e concussione, il caso Lapina è pressoché l’unico - se ignoriamo il fenomeno degli Spirituali e Fraticelli - che documenti la reale conflittualità tra due tradizioni spirituali e che offra contenuti di qualche valore per la storia della dissidenza dottrinale nella Firenze di quegli anni.
Le pene delle due croci e del carcere, benché comminate, vengono sospese dall’esecuzione per espressa decisione di fr. Accorsio. Difficile credere che la stretta relazione parentale di Lapina con un frate di Santa Maria Novella sia stata estranea a quest’atto di clemenza dell’inquisitore. Costui del resto non è ignaro - a meno che non gli si voglia addebitare improbabile ingenuità - che la vendita del 18 novembre 1327 a fr. Filippo («Carta de venditione michi facta per inquisitorem...») non è che una girata per consentire alla madre di fr. Filippo di rientrare in possesso dell’abitazione in San Lorenzo requisitale all’atto di condanna.
Resterebbe da indagare più sistematicamente nell’ambiente della spiritualità laica della Firenze del Trecento per individuare la consistenza della penetrazione della corrente del libero spirito e i tramiti della sua diffusione. Lapina fu un caso isolato? Umbria e Toscana furono le regioni in cui più attecchirono i movimenti di dissidenza religiosa del Trecento. Certamente questo è il caso degli Spirituali e dei Fraticelli. Ma se la documentazione di atti inquisitoriali di questo periodo è notevole, grazie soprattutto alla sopravvivenza dei registri di contabilità dell’ufficio dell’inquisitore, non altrettanto è quella relativa allo specifico capo d’accusa e dunque all’eresia di volta in volta perseguita.
Cf. L. Oliger, Spirituels, in
Dictionnaire de théologie catholique XIV, Parigi 1941, 2522-49; C. Schmitt, Benoît XII et l'Ordre des Frères Mineurs, Quaracchi–Firenze 1959, 143-266; Id., Fraticelles, in Dictionnaire de spiritualité V, Parigi 1964, 1167-89 ; A. M. Ini, Nuovi documenti sugli Spirituali di Toscana, «Archivum Franciscanum Historicum» 66 (1973) 305-77 con ampia bibliografia ; Mariano d'Alatri, Fraticellismo e inquisizione nell'Italia centrale, «Picenum Seraphicum» 11 (1974) 289-314.Segnalo alcuni documenti riguardanti inquisitori toscani OFM: a) fr. Salomone da Lucca. 25.VI.1282: «Cecchus filius olim Geri de Bardis populi Sancte Marie supra Arnum ex precepto, ut dixit, cidem facto per iudicem et assessorem d. Iacobini de Rodilia potestatis Florentie, introduxit et corporalem dedit et tradidit possessionem Lapo condam d. Manfredi de Adimaribus, ut sindicum d. fratris Salamonis ordinis fratrum Minorum executorem eretice pravitatis, in partem domus terre et poderis que olim fuerunt Bindi filii olim d. Aldobrandini Mangiatroie de Infangatis...» (ASF, NA 11250 (già I 104), f. 117r); A. Castellani, Nuovi testi fiorentini…, Firenze 1952, 523, 529: 18 e 19.XII.1284) ; b) fr. Benedetto dei Bardi: teste («fr. Benedicto de Bardis inquisitore») nel testamento 17.VIII.1293 di messer Tegghia del fu messer Buondelmonte dei Buondelmonti: F. Soldani, Lettera sesta sopra la fondazione e patronato del monastero di San Michcle a Passignano, Firenze 1750, 78-83) ; c) fr. Alamanno da Lucca, inquisitore negli anni 1297-98, è guardiano di Santa Croce nel 1301: ASF, SMN 17.VIII.1301); d) fr. Andrea dei Mozzi, 7.XII.1307: messer Simone del fu Geri dei Bardi, presente messer Vanni del fu messer Iacopo Lecca dei Mozzi, vende a ser Giovanni di Guido, notaio di «fr. Andree de Moççis de ordine Minorum inquisitoris heretice pravitatis per romanam ecclesiam in partibus Tuscie constituti» e a nome di detto inquisitore, terre con case torre corte e pozzo (ASF, NA 2962 (già B 1948), f. 153r-v); Dipl. S. Iacopo a Ripoli 12.V.1309 (inquisitore innominato); Riformagioni 5.VII.1309; v. anche ib. 19.VII.1309 (ed. Tocco, Quel che non c’è 69-73), 2.III.1313; ASF, NA 2964 (già B 1950), f. 32v (2.XII.1311); e) fr. Grimaldo da Prato: ASF, NA 5212 (già C 465), f. 74v (11.VIII.1313). Atti da fonti archivistiche fiorentine s’intendano sempre rogati a Firenze; nelle date con doppio anno separato da barra (es.: 1327/8), il primo numero è quello del documento, il secondo del computo modemo.
Negli stessi mesi dell’episodio Lapina, vengono condannate per eresia altre fiorentine: Nante, sorella di ser Cione di messer Ranieri; Giovanna, madre di Lorenzo di Bonaccorso dei Villanuzzi; Decca, vedova di messer Catello, Bertaccia dei Pilestri (nelle fonti fiorentine de Pilestris scambia indifferentemente con de Pilastris). Ma la testimonianza riguarda soltanto le entrate nel registro di contabilità dell’inquisitore e niente è detto circa lo specifico contenuto dell’imputazione.
ASV, Collectorie 250, f. 98r (seconda registrazione dopo quella di Lapina): «Item pervenerunt... die XXIII novembris <1327>, XI indictione, de duabus partibus XX florenorum auri, habitorum a ser Cione d. Ranerii qui redemit bona Nantis sororis sue confiscata propter crimen ipsius Nantis, floreni auri tredecim et s. XXII [implica la parità: 1 fior. = 66 s.]. Item pervenerunt... die XXVIII novembris <1327>, de duabus partibus XL florenorum auri, habitorum a Laurentio Bonaccursi Villanuzzi qui redemit bona d. Iohanne matris sue confiscata propter crimen per eam conimissum, floreni auri viginti sex et s. XLIIII florenorum parvorum [parità: 1 fior. = 66 s.]. Item pervenerunt... die XV decembris <1327>, de duabus partibus XXXV florenorum auri, habitorum a Riccho Uberti populi Sancti Pancratii qui emit unam domum confiscatam tamquam de bonis d. Decche uxoris olim d. Catelli propter crimen heresis per ipsam d. Deccham commissum, floreni auri viginti tres et s. XXVI» [parità : 1 fior. = 78 s.]. Ib. f. 98v (17.XII.1327): «Item pervenerunt... pro duabus partibus pretii cuiusdam poderis olim dicte d. Decche confiscati propter crimen heresis per eam commissum, quod podere venditum fuit Sangallo de Portinariis pro pretio florenorum auri CXXVI, detractis de dicta summa XXVI florenís auri de quibus providit dictus inquisitor eidem d. Decche ad cor redeunti et abiuranti hereticorum et sortium, et de quibus eidem voluit misereri, in summa fioreni auri sexaginta sex et s. XLIIII [parità: 1 fior. = 66 s.]... Item pervenerunt... die XXX ianuarii <1327/8> pro duabus partibus de pretio dotium d. Bertaccie de Pilestris, confiscatarum propter crimen heresis per eam commissum, que vendita fuerunt sindicis de Pilestris pro pretio florenorum auri CXXXVIII, detractis de summa predicta XXX florenis auri de quibus providit dictus inquisitor et misereri voluit eidem d. Bertaccie ad cor redeunti et abiuranti hereticorum et sortium, in summa floreni auri septuaginta duos».
I Villanuzzi sono un notevole casato del popolo San Pancrazìo, attivo nell’arte di Calimala, di Por Santa Maria, della lana e del cambio. Bonaccorso d’Uguccione, insieme con Cione e Nuto fratelli e figli del fu Giunta, nel censimento dei danni subìti dai guelfi nel periodo ghibellino (1260-67) dichiara danni in due torri; ha case a fitto in San Pancrazio. Figli di Bonaccorso sono Adimari (o Mari) e Lorenzo.
Liber extimationum (1269), ed. O. Brattö, Göteborg 1956, 62. Cione è degli ufficiali del comune preposti alla compera di terreni e case per far posto alla costruzione della nuova piazza di S. Maria Novella, oggi quella antistante la facciata della chiesa: ASF, SMN 16.I.1287/8; 2.II.1287/8; 3.II.1287/8; 20.III.1287/8. ASF, Estimo 1, pp. 17, 18 (anno 1305).
Su Adimari, oltre alle notizie raccolte in Detentori 194 n. 36, cf. ASF, Notar. antecos. 13364 (già M 293, II), f. 61r-v (26.VII.1302): «Maruccio filio Bonaccursi Villanucçi». Su Lorenzo testimonia ASV, Collectorie 250, f. 98r.
Due Villanuzzi sono frati di Santa Maria Novella: fr. Francesco di Adimari 1316-1348 e fr. Giovanni 1322-1348 (Cr SMN n° 392, n° 343). Giovanna, condannata per eresia nel 1327, madre di Lorenzo e dunque moglie di Bonaccorso d’Uguccione, è la nonna di fr. Francesco di Adimari di Bonaccorso; Lorenzo di Bonaccorso, che riscatta i beni sequestrati a Giovanna, zio di fr. Francesco. Monaca domenicana in San Iacopo a Ripoli è Giovanna dei Vìllanuzzi (ASF, S. Domenico del Maglio 26.IX.1292; ASF, SMN 31.V.1298), priora il 4.IV.1307 (ASF, Notar. antecos.3141 (già B 2127), ff. 37r-38r); tre donne della medesima famiglia risultano nel 1319 suore dell’ordine della Penitenza «de ordine sive habitu fratrum Predicatorum»: Giovanna, Mandina e Maruccia dei Villanuzzi (ASF, Notar. antecos. 3143 (già B 2129), f. 15v: 24.XII.1319).
«Decca vedova del fu messer Catello», si dice del terzo caso omettendo patronimìci e casato. Chi è costei ? Testimonianze notarili permettono di ritessere fili insospettati. E anche inquietanti. Decca, o Aldobrandesca, è figlia di messer Morando dei Morandi e vedova di messer Catello dei Gianfigliazzi:
ASF, Notar. antecos. 3140 (già B 2126), f. 12r (1.II.1300/1): «Actum apud ecclesiam Sancte Crucis de Florentia presentibus testibus fr. Illuminato [de Caponsacchis] ordinis Minorum, ser Opicço de Pontremoli notario inquisitoris heretice pravitatis, Philippo condam Morocçi de Ianfilliacçis (...). Iohannes filius condam d. Catelli de Ianfilliacçis... recognovit dixit et confessus fuit d. Aldobrandesche, uxori dicti condam d. Catelli, quod quoddam debitum 150 florenorum auri per dictam d. Aldobrandescam, tamquam principalem debitricem et Vannem Cafagii et ser Dionigium olim dicti d. Catelli tamquam eius fideiussores, ex causa mutui promissorum Phylippo condam Morocçi de Ianfilliacçis..., et quoddam aliud debitum 220 florenorum auri, ex causa mutui promissorum hodie per dietam d. Deccham et Iohannem prefatum Phylippo predicto..., contracta fuerunt pro ipsius Iohannis comodo et utilitate..., et propterea promisit et convenit eidem d. Aldobrandesche ipsam dominam conservare indempnem (... ). Insuper iuravit dictus Iohannes ad sancta Dei evangelia tactis scripturis predicta servare etc., et non contra venire ratione minoris etatis vel alia quacumque etc.». ASF, Notar. antecos. 3143 (già B 2129), f. 46r-v (19.I.1320/1): «d. Deccha filia condam d. Morandi de Morandis et uxor olim d. Catelli de Gianfilliazzis que moratur in populo Sanete Marie Novelle», ottenuto per mundualdo Domenico di Bindo degli Agli, nomina procuratore Benincasa detto Piero del fu Vanni dei Morandi per ricuperare beni e rappresentarla in qualsiasi lite.
Sorella di Decca è Bruna dell’Ordine della Penitenza di San Domenico, vedova di Simone di messer Biliotto dei Donati:
«Religiosa et honesta mulier d. Bruna de sororibus Sancti Dominici, filia condam domini Morandi militis de Morandis de Florentia et uxor condam Simonis domini Biliotti de Donatis de Florentia» (ASF, SMN 28.VIII.1300).
Documentazione su Bruna e suoi figli in ASF, SMN 24.XII.1295; 28.VIII.1300; 1.IV.1308 (questa la segnatura d’archivio, ma il doc. è del 1.IV.1309, cui segue atto 21.IV.1309). Ancora in vita nel 1310 (ASF, SMN 20.VI.1311; Fineschi 280); non compare nella lista di 145 donne dell’ordine della Penitenza OP data in ASF, Notar. antecos. 3143 (già B 2129), ff. 15v-16v (24.XII.1319).
Dei tre figli di Bruna - Vanni, Iacopo e Biliotto - gli ultimi due sono frati di SMN (Cr SMN n° 356 † 1348, n° 232 † 1324). Marito di Decca era stato messer Catello di Rosso di Adimari dei Gianfigliazzi († 1298-1301), consorteria guelfa dichiarata magnate nel 1293 e proscritta dalle cariche pubbliche, a fianco dei guelfi neri di messer Corso dei Donati nelle lotte tra bianchi e neri d’inìzio Trecento, titolare d’una compagnia prevalentemente creditizia dai vasti interessi, attiva soprattutto in Francia. A messer Catello, tra gli usurai del terzo girone del settimo cerchio, sembra mirare Dante in Inf. XVII, 58-60.
Compagni II, 26; III, 4; F. P. Luiso, Su le tracce di un usurario fiorentino del secolo XIII, «Archivio storico italiano» serie V, t. 43 (1908) 3-44; A. D’Addario, Gianfigliazzi, «Enciclopedia dantesca » III (1971) 153; Detentori ad indicem; A. Sapori, Studi di storia economica 927-73, con albero genealogico dei Gianfigliazzi a p. 972. Messer Catello era ancora in vita il 18.III.1298 («ser Dionisio d. Catelli de Iamfigliacçis»: ASF, Notar. antecos. 2962 (già B 1948), f. 7v: 18.III.1297/8) e risulta deceduto prima del 12.I.1301: «Iohannes filius condam d. Catelli» (Notar. antecos. 3140 (già B 2126), f. 9r). Moglie di Gianfigliazzo di Rosso di Adimari (cf. Sapori 972) è Lapa di Ricco di messer Iacopo dei Bardi, sorella di fr. Andrea dei Bardi OP (ASF, Notar. antecos. 2964 (già B 1950), f. 24v: 14.X.1311); oltre ai figli di Gianfigliazzo già noti al Sapori, in questo documento vengono segnalate tre figlie: Maruccia, Simona e Ghita.
Conosciamo due figli di messer Catello, Dionisio notaio e Giovanni; quest’ultimo frate Minore di Santa Croce da febbraio 1303.
ASF, Notar. antecos. 3140 (già B 2126), f. 9r (12.I.1300/1): «Iohannes filius condam d. Catelli de Ianfilliacçis fecit suos procuratores legales etc. ser Spilliatum Aldobrandini de Filicari et ser Lapum Iannis de Ferrallia notarios... ad comparendum pro eo coram dominis potestate et capitaneo Florentie... in causa et causis quam vel quas habet vel habere sperat etc. cum Roberto Trebarzi vel eius procuratore…, ad petendum in integrum restitutionem». Ib. f. 12r (1.II.1300/1), testo dato sopra. Ib. f. 86v (27.X1.1302): «Iohannes olim d. Catelli de Ianfilliazis revocavit ser Spilliatum de Ancisa et ser Dionigium d. Catelli notarios a procuratione quam fecerat de eis..., dicens se nolle quod in factis suis se ulterius intromietant». Ib. f. 95r (20.II.1302/3): «Actum in sacrestia fratrum Minorum de Florentia presentibus testibus fratribus Illuminato de Caponsaccís et Talduccio de la Casa ordinis Minorum et ser Bonavinta ser Cambii Acçii notario. Frater Iohannes filius olim d. Catelli de Ianfilliacçis novitius in ordine Minorum et ante eius professionem, sentiens hereditatem dicti condam patris sui sibi esse dampnosam et honerosam potius quam lucrosam, ipsi hereditati renuntiavit ipsamque repudiavit dicens et protestans se nolle ex hereditate dicti sui patris vel bonis ipsius hereditatis aliquid comodum vel incomodum substinere». Sapori, Studi di storia economica 944, 948 n. 3, 972. Per fr. Illuminato dei Caponsacchi OFM cf. ASF, Notar. antecos. 3140, f. 12r (1.II.1300/1); ASF, SMN 9.II.1300/1, testamento di messer Schiatta degli Abati che sceglie sepoltura in Santa Croce e fa donativi a «fr. Iohanni de Sancto Petro in Bossolo et fr. Illuminato de Caponsacchis et fr. Taddeo Karini et fr. Iacobo de Abbatibus fratribus Minoribus»; ASF, Estimo 1 (anno 1305), tra i fitti nel popolo SMN: «Item alia domus d. Gemme filie Dini mungnay posita ibi prope, cui a j° via, a ij° fratris Aluminati in qua moratur d. Bruna, solvit l. 6 f.p.» (p. 50). «Item alia domus d. Gemme sororis fratris Aluminati in qua moratur d. Guidutia, de qua solvit l. 2 et s. 10 f.p.» (p. 51); Ch.T. Davis, The early collection of books of S. Croce in Florence, «Proceedings of the American philosophical society» 107 (1963) 401, 402, 403, 406, 407.
Suor Costanza di Vanni (o Giovanni) di Cafagio di Adimarí dei Gianfigliazzi è del monastero domenicano di San Iacopo a Ripoli; e suor Tancia dei Gianfiglíazzi dell’altro monastero domenicano San Domenico a Cafaggio:
Castellani, Nuovi testi 644; Sapori, Studi di storia economica 946: data 31.VII.1292. Nell’albero genealogico tracciato dal Sapori (p. 972) Costanza sarebbe figlia di Rosso di Cafagio di Adimari, ma dal doc. su cui è stabilita la relazione parentale mi sembra si debba intendere che fosse figlia di Vanni (o Giovanni) di Cafagio di Adimari. Nelle liste capitolari delle suore di San Iacopo a Ripoli (1266, 1281) appare una «Constantia» senz’altra specificazione onomatica (ASF, Notar. antecos. 995 (già A 981), f. 44r: 10.VI.1266; S. Domenico del Maglio 18.XII.1281); nelle liste capitolari successive, in cui spesso si dà anche il casato, non compare alcuna Costanza (ASF, S. Domenico del Maglio 26.IX.1292; SMN 31.V.1298; Notar. antecos. 3141 (già B 2127), ff. 37r-38r: 4.IV.1307). Tancia dei Gianfigliazzi è monaca in S. Domenico a Cafaggio: ASF, Notar. antecos. 3141, f. 31r-v (27.XII.1306); S. Domenico del Maglio 20.IV.1319.
Decca, condannata per eresia dall’inquisitore di Santa Croce, era madre d’un frate di Santa Croce e zia di due di Santa Maria Novella.
Inquisizione e convento del resto si erano gia clamorosamente intricati nella condanna, pronunciata il 13 agosto 1313 dall’inquísitore fr. Grimaldo da Prato, dei discendenti in linea maschile «usque ad secundam progeniem» di messer Gherardo di Neri dei Nerli, condannato dopo morte per eresia (verosimilmente catara) da fr. Salomone da Lucca nei primissimi anni del decennio 1280. Tra i discendenti colpiti, oltre al nipote messer Gherardo di Bertuccio di messer Gherardo di Neri, priore di San Quirico a Capalle e canonico di San Frediano in Firenze, c’era anche il nipote «frater Iohannes», figlio di messer Nerlo di messer Gherardo di Neri. L’inquisitore omette di annotare a quale ordine il frate appartenesse, ma fr. Giovanni dei Nerli è dell’ordine dei Minori di Santa Croce in Firenze, del medesimo convento dove ha sede l’ufficio inquisitoriale e da dove fr. Grimaldo emette la sentenza.
Tocco, Quel che non c’è 73-78 doc. 25; Ini, Nuovi documenti 351. L’eretico messer Gherardo era deceduto anteriormente al 4.III.1276/7: «Nerlo filio condam d. Gherardi Nerli» (ASF, Notar. antecos. 17563 (già R 40), f. 52r). Molte informazioni sui Nerli in ASF, NA 3140 (già B 2126) (aa. 1297 ss.).
Cerretani. - Nel 1282 fr. Salomone da Lucca raccolse la confessione e ritrattazione dell’eresia catara della fiorentina «domina Iohanna uxor Mariti de Cerreto» (Tocco, Quel che non c’è 61-64 doc. 20). Il Tocco non ha notizie su tale Giovanna. Ecco quanto potrebbe illustrare la tipologia sociale dell’eretica. Marito del Cerreto è fratello d’un personaggio eminente nella vita politica della città, il giudice messer Andrea di messer Iacopo del Cerreto (di costui, ben conosciuto dalle fonti comuni della storia fiorentina, segnalo soltanto il testamento 27.VII.1301, ASF, Notar. antecos. 3140, ff. 40v-43r, e l’esecuzione testamentaria 29.VII.1304, affidata ai commissari dom Grazia abate di San Salvatore a Settimo e fr. Giovanni di Falco d’Oltramo priore di SMN: ib. ff. 135v-139v). Figli di Marito e di Giovanna sono messer Aldebrando (o Ildebrando) giudice (ASF, Arte dei giudici e notai 5, f. 58v: anni 1280-90, in cui compare insieme a messer Andrea) e Niccolò. Andrea, Marito, Aldobrando e Taddeo, fratelli e figli di messer Aldobrando di Marito, con Iacopo e Giovanni fratelli e figli di Niccolò di Marito, compaiono in una lunga serie di atti legali attinenti a questioni di eredità: ASF, Notar. antecos. 3140, ff. 47-49 (1301), 128v (28.III.1304), 135v-139v (29.VII.1304); Notar. antecos. 3141, f. 17r (11.XII.1305): «a Niccholo filio condam Mariti olim d. Iacobi pro se et pro Andrea, Marito et Aldobrando fratribus filiis condam et heredibus alterius Aldobrandi condam filii dicti Mariti d. Iacobi») ; f. 44r (11.V.1308); Notar. antecos. 3142, ff. 40v-44r (5.X.1316), 52v-54r (21.XI.1316). Iacopo e Giovanni di Niccolò di Marito, nipoti dell’eretica Giovanna, risultano chierici e sollecitano benefici ecclesiastici: Notar. antecos. 3143 (già B 2129), ff. 38r-v (30.X.1320), 57r (7.III.1320/1), 60v (4.VIII.1321). I Cerretani da iniziali simpatie ghibelline passano al partito guelfo dopo il 1267 e sì schierano con i neri nelle lotte d’inizio Trecento; l’esercizio della magistratura e la partecipazione attiva alle cariche pubbliche permette loro di consolidare un notevole patrimonio. La condanna di Giovanna non ebbe certamente effetti negativi sulla vita pubblica e carriera politica del cognato messer Andrea, il personaggio di spicco dei Cerretani.
Esaurito il ciclo cataro (e bisognerà guardarsi dal generico patarenus nel lessico del XIV secolo inoltrato, che poteva valere un generico «eretico») e individuate le dissidenze di matrice fraticelliana, il caso di Lapina non potrebbe offrire una pista per dar nome a devianze ereticali in ambienti affini quando le fonti tacessero gli specifici contenuti dell’eresia? Certamente la corrente sottile e alliciente del libero spirito, refrattaria per natura a costringere il proprio corso in setta rigida e organizzata, beneficiò d’una penetrazione fluida e diffusiva, a corsa sotterranea e trasversale, capace di sedurre anche ambienti che l’ombra degli Ordini Mendicanti - dalla spiritualità rigorosamente ortodossa - presumeva di serbare indenni dal contagio. «Carte domine Lapine matris fratris Philippi Lapi modicum utiles», dice la nota a tergo del diploma 31 ottobre 1327. Non utile a testimoniare a favore dell’avente diritto? In tal senso non utile al convento fiorentino di Santa Maria Novella, che non compare in nessuno dei tre atti; eppure l’archivio conventuale custodiva decine di pergamene che non chiamano in causa il convento tra i soggetti della transazione. Utilissima era certamente a Lapina - e in subordine a fr. Filippo - cui garantiva in radice la legittimità del riacquisto della casa, rimovendo l’ipoteca della condanna per eresia. Perché allora «modicum utiles»? Non tradisce, il buon frate che ha vergato la nota, un mal dissimulato fastidio per una vicenda ereticale che raggiungeva, sia pur trasversalmente, un membro del convento?
[1] Marguerite Porete, Miroir: l'anima «non quiert plus Dieu par penitance ne par sacrement nul de Saincte Eglise, ne par pensees ne par paroles ne par oeuvres, ne par creature d'ycy bas ne par creature de lassus, ne par justice ne par misericorde ne par gloire de gloire, ne par divine cognoissance ne par divine amour ne par divine louenge». «Ceste fille de Syon ne desire ne messes ne sermons, ne jeunes ne oraisons (...). Pourquoy desideroit celle Ame ces choses..., puisque Dieu est aussi bien partout sans ce somme avec ce? » (in Guarnieri, Frères, col. 1264). Gli altri articoli condannati dal concilio di Vienne mirano a porre argine alle logiche conseguenze della prima tesi: « Secundo, quod ieiunare non oportet hominem nec orare, postquam gradum perfectionis huiusmodi fuerit assecutus, quia tunc sensualitas est ita perfecte spiritui et rationi subiecta quod homo potest libere corpori concedere quicquid placet. Tertio, quod illi qui sunt in praedicto gradu perfectionis et spiritu libertatis non sunt humanae subiecti obedientiae nec ad aliqua praecepta ecclesiae obligantur quia, ut asserunt, ubi spiritus Domini ibi libertas (...). Sexto, quod se in actibus exercere virtutum est hominis imperfecti, et perfecta anima licentiat a se virtutes (...). Octavo, quod in elevatione corporis Iesu Christi non debent assurgere nec eidem reverentiam exhibere, asserentes quod esset imperfectionis eisdem si a puritate et altitudine suae contemplationis tantum descenderent quod circa ministerium seu sacramentum eucharistie aut circa passionem humanitatis Christi aliqua cogitarent» (Clementinae V, 3, 3: ed. Friedberg II, 1183).