precedente successiva

Il margine della mediazione papale si restringe, ma non si è azzerato del tutto. Il giorno stesso della protesta papale, 29 maggio 1304, il consiglio generale dei trecento, quello speciale dei novanta, del podestà e delle capitudini delle arti rinnovano a papa Benedetto la richiesta di nominare il podestà. I fiorentini vogliono farsi perdonare l’umiliazione inferta al legato? oppure la consistente rappresentatività dei consigli opportuni, inclusa quella delle corporazioni delle arti, testimonia la volontà del più ampio ceto sociale operante nelle istituzioni fiorentine di resistere all’intransigente egemonia dei capi neri? Certamente Niccolò non ha ancora desistito dall’impresa se sempre in data 29 maggio, in forza della balìa concessagli dalla città, dà licenza ai priori e gonfaloniere di giustizia di provvedere alla carica del podestà e d’affidarne la nomina al papa.

Firenze 29.V.1304: consigli generale dei trecento, speciale dei novanta, del podestà e delle capitudini delle arti incaricano Lando di Puccio e Martinuccio di Boccacino «ad eundum ad illum nobilem virum quem summus pontifex elegerit in potestatem et ad representandum sibi ipsam electionem» (Consigli della repubblica fiorentina, ed. B. Barbadoro, Bologna 1921-1930, I, 149). Il medesimo giorno il legato Niccolò (Consigli I, 138 per la balìa del 17.III.1304) «concessit licentiam prioribus et vexillifero providendi super electione futuri potestatis et eam committendi in summum pontificem  (Consigli I, 150). ASF, Provvisioni reg. XII, f. 62v (29.V.1304): Lando di Puccio e Martinuccio di Boccaccino, entrambi pratesi, sono inviati presso Benedetto; le autorità fiorentine «in ipsum d. summum pontificem remiserunt et commiserunt vices et voces eorum et auctoritatem et baliam nominandi et elegendi potestatem eiusdem comunis florentini pro sex futuris mensibus initiandis in kallendis mensis iulii proxime venturi et finiendis in kallendis mensis ianuarii tune proxime subsequenti<s>». La lettera papale Rex pacificus (21.VI.1304) riferendosi a questa fase dell’attività legatizia dirà: «Sed cum pretactus legatus ab incepto pacis negotio propterea non cessaret...» (Reg. n° 1278, col. 803).

Non abbiamo nessuna risposta del papa a questo nuovo appello. In Firenze Niccolò convoca dodici rappresentanti dei fiorentini intrinseci e dodici dei fiorentini fuorusciti (quest’ultimi guelfi bianchi e ghibellini) per concordare i termini d'un’intesa. La convocazone dei capi dei fuorusciti è la mossa politica più esplicita del legato, l’unica che c’informa inequivocabilmente degli intenti della mediazione papale: il regolamento della posizione degli sbanditi, condizione necessaria per una credibile pacificazione cittadina. Ora, soltanto la riammissione in città dei numerosissimi sbanditi e condannati può costituire controparte al condono dei reati di esproprio invocato dal De bono pacis. Spoliazione e rapina esigono restituzione; è la più classica e consolidata dottrina sulla virtù della giustizia. Ma l’istanza della restituzione - si sostiene nel De bono pacis - può esser sospesa, perfino ignorando la renitenza di parte lesa, se il condono dei danni dati risulta inserviente al supremo bene della città, la concordia cittadina. La diplomazia papale s’ingegna a favorire il compromesso politico tra i litiganti; il De bono pacis provvede legittimazione giuridica e teologica all’altissimo prezzo (il condono dei danni, appunto) che il partito intrinseco impone al rientro dei fuorusciti. Ma l’ala dei neri irriducibili, la stessa che aveva sobillato il tumulto di Prato, interrompe le trattative il 10 giugno appiccando un devastante incendio in città. Niccolò abbandona Firenze. Le possibilità della pacificazione tramite il legato papale sono definitivamente tramontate.

La vicenda si chiude con la lettera papale Rex pacificus, Perugia 21 giugno 1304: «Rex pacificus, qui pacis cogitationes cogitat non afflictionis, pro mundi pace venit in mundum, in ultimis dum transiturus esset ad Patrem pacem nobis quasi proprio testamento relinquens» (Reg. n° 1278, col. 801; intero testo coll. 801-06). Il medesimo tema d’avvio della Transiturus. Lì per proclamare un proposito, qui per denunciare un fallimento. Dopo l’implicito riferimento a Io. 14,27 «Pacem relinquo vobis» contenuto nell’incipit, il papa cita tre autorità del vecchio testamento e una dei canoni. Poi dice che a operare la pace «constringit ratio» ed  «exempla nos admonent».

Nell’edizione dellla Rex pacificus distingui le citazioni: «Orietur in diebus eius iustitia et abundantia pacis donec auferatur luna» [Ps. 71,7], et «Israel habitabit confidenter» [Deuter. 33, 28], «Dabo pacem in finibus vestris, dormietis et non erit qui exterreat» [Lev. 26, 6] (Reg. coll. 801-02). Suona testo canonico la successiva autorità, di cui ignoro la fonte: «... unde scriptum est: Dissidentes fratres sive clericos seu laicos episcopi hortentur ad pacem...» (col. 802). Gli exempla per contrario sono dati più in là (col. 804): «Catiline conjuratio... Syllana crudelitas et Mariana ferocitas». Nel medesimo contesto politico Silla e Mario sono chiamati in causa in II, 1 della Cronica del Compagni, e Catilina servirà in II, 20 a costruire la superba pagina del ritratto di Corso dei Donati: «Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello del corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d'ingegno, con l'animo sempre intento a malfare... Costui fu messer Corso Donato che per sua superbia fu chiamato il Barone». Risulterebbe tedioso elencare i rinvii al De bono pacis e De bono comuni di Remigio; la lettura dei trattati va di pari passo con quanto suggerito in questa introduzione.

Dunque autorità bibliche e giuridiche; dimostrazione razionale (ratio), persuasione tramite modelli esemplari (exempla). Rivolto poi a Firenze, già florida città ora devastata dalla spada (col. 802), afferma che per dovere d’ufficio pastorale si era proposto di concorrere alla pace cittadina e a ciò aveva inviato il legato fr. Niccolò.

«Nuper siquidem dum Florentina civitas olim florida, quam dies verni, rosarum flores et lilia circumdabant convallium, deformis facta, odiis repleta mutuis, in se vertisset crudeliter gladium, suorum civium lamentaretur exilia, fleret cedes, et carceres de divite pauper, de felice misera deploraret...» (col. 802).

La lettera prosegue con un puntuale resoconto della legazione, dai fatti di Prato all’incendio di Firenze del 10 giugno. Il raffronto con la versione dei cronisti fiorentini è sorprendentemente illuminante. Riteniamo solo la lista dei fiorentini accusati d’aver disseminato terrore e fuoco dopo la convocazione dei dodici rappresentanti per ciascuna delle parti in lite: Rossellino della Tosa, Pazzino dei Pazzi, Tegghia dei Frescobaldi, Sinibaldo dei Donati; alcuni dei Buondelmonti, Tornaquinci, Rossi, Visdomini, Cavicciuoli, Guadagni, Peruzzi, Bordoni, Acciaioli, Medici (col. 803; corrego Ferrutii in Peruzzi, cf. Davidsohn IV, 385). Quanti poi, lucchesi e fiorentini, hanno tramato contro l’accordo coi fuorusciti e reso impossibile un’intesa di pace, costoro sono rei di tradimento: tradimento della patria, crimine più vergognoso dello stesso parricidio e di qualsiasi altra scelleratezza. «In hiis, ultra parricidium et fere cuncta facinora, gravissimum scelus, patrie proprie proditionem agnoscimus» (col. 804).

Remigio, oltre ai testi sull'amor patriae nei nostri due trattati, nel secondo sermone sui santi Maccabei (ricorrenza liturgica 1 agosto), Vos estis qui permansistis mecum (Luc. 22,28): «Tertio [tangit] amicabilem fidelitatem quia mecum. Lanceloth enim strenue bellavit usque in finem sed aliquando cum Galahot erat, aliquando cum rege Arturo. Peccatum enim proditionis maxime displicet Deo qui est veritas et fidelitas; unde, sicut dixit papa iste, nullus proditor salvatur... [si evoca il caso di Ioab in III Reg. 1-2]. Et si maximum peccatum est prodere unum hominem, supermaximum profecto est prodere unum comune; unde Luc. 11[,23] "Qui non est mecum contra me est", et c. 15[,31] "Fili, tu semper mecum es"» (cod. D, f. 387ra-b). Nessun indizio permette di proporre una datazione del sermone e d'identificare il «papa iste».

Riferimenti a personaggi dei romanzi del ciclo arturiano ricorrono altre sette volte negli scritti di Remigio: Speculum (cod. C, f. 136ra: «vel Lanceloth propter probitatem»); De via paradisi VI, 12 (cod. C, f. 289vb: «Merlinus vates Britonum dicitur fuisse natus ex filia regis sanctimoniali et demone incubo»); cod. G4, f. 8rb («Quorum primum est auditio operum Christi non Galvani vel Lanceloth vel Tristani etc.»), f. 69rb (Merlino), f. 209r, mg. d., B («exemplum de Lanceloth qui tradidit se in manu femine»), f. 401vb («propter valorem cordalitatis quia Lanceloth et Orlandus...»); cod. D, f. 374va (Merlino). I testi, specie quello sopra riportato più estesamente, escludono il Lancelot di Chrétien de Troyes in cui Galeotto non compare (cf. CHRÉTIEN DE TROYES, Romanzi, a c. di C. Pellegrini, Firenze 1962, 237-360). Remigio sembra attingere dalla versione volgata della "materia di Bretagna" diffusa dai volgarizzamenti italiani e dai cantari («auditio operum Christi non Galvani vel Lanceloth...»), non molto diversamente dal caso di Dante. Cf. A. VISCARDI, Le letterature d'Oc e d'Oil, Milano 1957, 180-81; ID., Romanzi cortesi, in ED IV, 1030-32; D. BRANCA DELCORNO, Romanzi arturiani, in ED IV, 1028-30; F. CARDINI, Concetto di cavalleria e mentalità cavalleresca nei romanzi e nei cantari fiorentini, in AA.VV., I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale, Firenze 1983, 157-92; I romanzi della Tavola Rotonda, a c. di G. Agrati e M.C. Magini. Milano 1983.

Hanno sopravanzato la perfidia di Catilina, la crudeltà di Silla, la ferocia di Mario. Sono queste le azioni del cristiano? E come vantarsi del nome di cristiano se ci si ribella alla chiesa? Quale mostra fai di te, Firenze! Ti è venuto meno il vigore della giustizia, la fortezza dello spirito. Perfino il gusto d’una breve libertà ti ha generato la nausea.

«Non perfidior Catiline conjuratio, vix superior Syllana crudelitas, et Mariana ferocitas parum minor. Sunt hec, quesumus, fidelium opera? Sunt devotorum Ecclesie actiones? Quis infidelis, quis indevotus, aut quis sceleratus hec faceret, nisi qui in pace more solito grassari non posset vel de suis timeret sceleribus ultionem? Hec sunt desperatorum flagitia et in profunda scelera demersorum! An ergo qui egerunt talia sunt Ecclesie filii, an fideles, sive devoti? Certe istos indevotos, reliquos vero, qui passi sunt et ejecti cum in bono pacis sequerentur legatum, appellamus fideles. Miserabile dictu, volunt hii etiam dum contra Ecclesiam agunt filii reputari!» (col. 804). «O miserabilis Florentina civitas, quam triste de te prebuisti prebesque spectaculum! quia jam in te languerat justitie vigor, tepuerat animi fortitudo et tibi libertatis gustus modico tempore nauseam generaverat. Sub paucorum qui te devoraverunt et devorant sicut escam panis servitutis jugo redacta es, eorum fis victorie premium atque preda. Tibi terrori facti sunt a quibus consuevisti timeri. Facies tua quam non sol decoloravit sed ignis mutata est. Facta es tabida, data in sibilum et posita in derisum. Cecidisti Lucifer qui mane oriebaris. Urbs frequens et exultans civitas in merorem versa cognosceris; omnis lapis pretiosus quondam operimentum tuum, nunc autem, para cilitium, induere sacco et aspergere cinere caput tuum, quia perdidisti filios et privigni, quibus sua eo quod modica displicent aliena placent, dominantur tibi. Narrent filii cui posteris tuis que passa es et a quibus, ut oblivioni quousque ulcta fueris non tradantur» (coll. 804-05).

Non poteva mancare la pena canonica. La lettera chiude citando a comparire a Perugia presso la sede apostolica, entro l’ottava dei santi Pietro e Paolo, i procuratori dei comuni di Firenze e Lucca, sei cittadini fiorentini e cinque lucchesi. L’ottava dei santi Pietro e Paolo scadeva il 6 luglio. Il giorno 7 papa Benedetto moriva.

Ib. col. 805. Secondo Paolino Pieri «il cardinale fece richiedere e citare ad corte alquanti de' grandi di Firenze a dì cinque di luglio, intra' quali fu messere Corso Donati, messer Niccola Acciaiuoli, messer Baldo da Guglione e più altri» (Cronica, ed. cit. p. 80). Compagni (III, 9) non fa parola di citazione, e scrive che «deliberarono andare a Perugia, dove era la corte», Rosso della Tosa, Pazzino dei Pazzi, Geri degli Spini, Betto dei Brunelleschi «con alcuni Lucchesi e Sanesi». Villani (IX, 72, 10-16) dà i nomi: Corso dei Donati, Rosso della Tosa, Pazzino dei Pazzi, Geri degli Spini, Betto dei Brunelleschi «e li altri». Riscontri con la Rex pacificus: 1 Pieri, 1 Compagni, 2 Villani; assenti nella lista papale: 2 propri delPieri, 2 comuni al Compagni e al Villani. «Paganum Bordonum» ha l'edizione della Rex pacificus; un «Paganus quondam Gerardi Bordonis» del sesto San Pancrazio giura come guelfo la pace del cardinal Latino il 9.II.1280 (La pace 241), ma non si hanno testimonianze d'un Pagano dei Bordoni negli anni che c'interessano, mentre Pagno del fu Gherardo di Bordone e suo figlio Gherardo sono tra i protagonisti degli anni dei guelfi neri; che «Paganum» della Rex pacificus non sia una svista per «Pagnum»? I Bordoni erano già stati menzionati nella lista papale dei responsabili dei fatti del 10 giugno. Li rincontreremo nel capitolo dedicato alle vicende dei Girolami.

 

Remigio dei Girolami insegna nello studio del convento domenicano di Perugia dalla primavera 1304; a Perugia risiede per tutto il 1305, molto probabilmente fino al 1307. I contatti con la curia papale e con lo stesso papa Benedetto sono molteplici e prolungati (Studio 219-23; I quodlibeti, MD 14 (1983) 29-34; Note di biografia, AFP 54 (1984) 236-37, 241-42, 247-48).

Studio 219-23; I quodlibeti di Remigio dei Girolami, MD 14 (1983) 29-34; Note di biografia domenicana tra XIII e XIV secolo, «Archivum Fratrum Praedicatorum» 54 (1984) 236-37, 241-42, 247-48. Remigio mai compare nei seguenti atti, tutti rogati in Firenze: 20.XI.1304, lista di 44 frati capitolari di S. Maria Novella, due terzi «et ultra» della maggioranza legale (ASF, Dipl. S. Maria Novella 11.XI.1304, giunta del 20.XI.1304); 23.XI.1304, simile al precedente con lista di 46 frati (ASF, Notar. antecos. 3141 (già B 2127), ff. 3v-4r); 30.XI.1305 e 7.IV.1307, monacazione, procura e testamento di Tessa (= suor Francesca) dei Girolami, figlia di Girolamo di Biliotto [non di Salvi di Chiaro, come in ed. stampa] (ASF, Notar. antecos. 3141, f. 16r-v, f. 38r-v); 24.I.1305/6 e 26.VII.1307, pace fra Tornaquinci e Gírolami (ASF, Notar. antecos. 13364 (già M 293, II), ff. 88v-89r).

Chi legge il De bono pacis (ma anche il De bono comuni) può difficilmente sottrarsi alla tentazione di confrontarli con la Transiturus e soprattutto con la Rex pacificus di Benedetto XI. La collazione, beninteso, non prova nessuna interdipendenza testuale, né scopre tracce per ipotizzare un concorso di Remigio alla stesura delle lettere papali concernenti la legazione fiorentina. Ma non è del tutto inverosimile pensare che Benedetto, affidata l’impresa diplomatica a Niccolò da Prato, uomo prevalentemente di governo e d’esperienza curiale, abbia parimenti usufruito e della conoscenza di Remigio per le intricate cose fiorentine e della sua consulenza teologica. Del resto, morto fr. Matteo d’Acquasparta OFM (29 ottobre 1302), la curia non eccelleva per uomini d’una qualche statura culturale; e il papato di Benedetto - fuori della matrice delle potenti famiglie romane - porta evidentissime testimonianze del sostegno (ricambiato con privilegi e promozioni) dell’ordine domenicano.

■ Di Niccolò non abbiamo testimonianze d'una qualche carriera spiccatamente professionale o di studio se non del lettorato in S. Maria sopra Minerva di Roma nel 1295-96 (MopH XX, 121) e del patrocinio a uomini di lettere durante il periodo avignonese: G. BILLANOVICH, Dal Livio di Raterio al Livio del Petrarca, «Italia medioevale e umanistica» 2 (1959) 135-41, 154-56; Tra Dante e Petrarca, ib. 8 (1965) 1-44. Priore provinciale della provincia Romana da settembre 1297 a luglio 1299 («Arch. Fr. Praed.» 1934, 136). Il monastero di S. Iacopo a Ripoli riscuote da «fr. Nicolao de Prato priore provinciali fratrum Predicatorum Romane provincie» 300 fior. d'oro da lascito testamentario del card. Ugo de Billom O.P. e s'impegna a passare annualmente 12 fiorini a sostegno delle spese dei capitoli provinciali della provincia Romana (ASF, Dipl. S. Maria Novella 31.V.1298). Lettera del provinciale fr. Niccolò, Pisa 28.IX.[1298], all'abate vallombrosano Ruggeri dei Buondelmonti (ASF, Passignano 28.IX.1310). Vescovo di Spoleto in luglio 1299 e cardinale in dicembre 1303 (C. EUBEL, Hierarchia... I, 13, 461).

In atti riguardanti la legazione toscana compaiono insieme al legato in Firenze i frati OP Domenico priore di Prato, Niccolò da Piuvica, Iacopo da Ficulle (Consigli I, 143: 21.IV.1304), Pace da Firenze, Filippo da Prato, Iacopo da Ficulle (I, 150: 29.V.1304). Niccolò autorizza il convento SMN a riscuotere «de usuris, rapinis et aliis male acquisitis»; riscossioni, da 1304 a 1337, in ASF, SMN 15.X.1337; quattro entrate procurate e registrate da Remigio (Studio 223-24; Nuova cronologia remigiana, AFP 60 (1990) 242-45).

Testamento e codicillo, Avignone 1 e 2.III.1321, in A. Paravicini Bagliani, I testamenti dei cardinali del Duecento, Roma 1980, 427-36; vi si nominano «d. Fentius q. Albertini de Prato », detto nipote del cardinale (v. sopra nota 18) e i frati domenicani Niccolò da Piuvica penitenziario del papa, Ugo da Pistoia, Lanfranco e Cambio da Prato, e tra gli esecutori testamentari fr. Lapo da Prato. In Santa Maria Novella 16. III.1320/1, convento e monastero domenicani di Narni riscuotono, tramite procuratore, rispettivamente 20 e 10 fior. d’oro da legato testamentario del card. Niccolò (ASF, Notar. antecos. 3143, f. 57v).  In S. Maria Novella, 16.111. 1320/1, convento e monastero domenicani di Narni riscuotono, tramite procuratore, rispettivamente 20 e 10 fior. d'oro da legato testamentario del card. Niccolò (ASF, Notar. antecos. 3143 (già B 2129), f. 57v). Del perugino fr. Annibaldo dei Guidalottí O.P. († 1345) la Cronica di S. Domenico di Perugia dice: «maxime venit in gratiam plurium cardinalium nostri ordinis, scilicet d. Latyni Romani et d. Nycolay Pratensis, cum quibus moram contrassit [sic] existens eorum capellanus commensalis. Tempore vero quo morabatur actu existens cum d. Nycolao prelato ostiensi episcopo, sub annis Domini mcccxiii serenissimus rex Romanorum Hericus Romam venit pro corona sui ímperii, in cuius coronatione et solemnitate et missa cantata frater prenominatus evangelium ipse cantavit; et dingnum fuit quia super omnes qui aderant melius ipse cantabat» (Perugia, Bibl. comun. ms. 1141, f. 59v).

Se dunque il De bono pacis è controparte culturale e sostegno teologico del tentativo diplomatico di papa Benedetto di pacificare la Firenze dei bianchi-neri, la sua composizione può difficilmente essere rimessa oltre il 21 giugno 1304, data della Rex pacificus che constata l’insuccesso dell’ìmpresa. Se poi si volesse protendere la composizione del De bono pacis oltre la morte di Benedetto XI, sarebbe difficile cogliere nella storia cittadina tra il 1304 e l’amnistia di settembre 1311 occasioni altrettanto propizie alla proposta di pacificazione del trattato. La città soffrirà più delle lotte tra le due fazioni nere che del problema dei fuorusciti bianchi. La delibera del consiglio dei cento (consiglio preposto alla politica economica della repubblica) del 21 dicembre 1304 alza una barriera alle possibilità politiche della proposta del De bono pacis:

«Item quod priores et vexillifer habeant lìberam bailiam super domibus et casamentis rebellium et exbanitorum comunis Florentie locandis et reatandis et revocandis ad pensionem, secundum quod de ipsorum dominorum priorum et vexilliferi processerit voluntate, dummodo faciant melioramentum comunis» (Consigli I, 181). Risultato della votazione: 81 voti sì, 4 no.

Per sondare tutte le possibilità della proposta del De bono pacis, si potrebbe ipotizzare - visto che della legazione papale non si fa parola nel trattato - che civitates e comunitates miranti a concordare la pace tra le fazioni avverse potessero far ricorso ai buoni uffici delle città vicine e amiche. In effetti a più riprese città quali Siena Lucca e la stessa Bologna prestarono la loro diplomazia per porre fine in Firenze alle lotte intestine. Ma i loro tentativi, inconcludenti al pari della legazione papale, erano molto meno affidabili di quest'ultima: le divisioni partitiche di Firenze avevano contagiato le città vicine e l'arbitraggio di quest'ultime era altrettanto sospetto di parzialità quanto quello dei fiorentini "intrinseci". La Rex pacificus diffida città e comunitàpolitiche (universitates) «ne predictis comunibus [Lucca e Firenze] aut illa regentibus sive parti intrinsece civitatum dictarum dent auxilium, consilium vel favorem» (col. 805). Le altre città avevano bisogno della medesima pacificazione di Firenze.

«Tibi libertatis gustus modico tempore nauseam generaverat», dice di Firenze la Rex pacificus. Ti ha provocato nausea, il piacere d’una breve libertà! La sincera passione che anima papa Benedetto forza allo stile di curia un’inconsueta perla letteraria. In verità il tentativo di riconciliazione era fallito non perché ai fiorentini facesse difetto il gusto della libertà, ma per l’elementare ragione che i guelfì neri detentori del potere non vollero spartire i frutti della vittoria con la parte avversa; proprio come la famosa pace concordata dal cardinal Latino nel 1280 era stata erosa in breve tempo dai guelfì vincitori perché costoro non potevano rinunciare agli enormi vantaggi in vista (e il ventennio successivo confermò ampiamente le attese) e condividerli con i ghibellini nemici di ieri. Per altro verso, lo storico non può prevaricare i tempi culturali e chiedere a un Benedetto XI a un Remigio a un Dino Campagni a un Dante Alighieri che indicassero gli specifici contenuti economici e politici della giustizia, della pace, della libertà, del bene comune all'interno del dinamismo conflittuale e delle mobilissime componenti sociali della Firenze del tempo perché le loro proposte fossero praticabili.

È solo a titolo di curiosità che trascrivo il seguente atto notarile che ha il gran pregio, quale fonte diretta, d'indicare «apertis verbis» quali potevano essere, tra i moltissimi, luoghi e modi in cui giustizia e libertà ponevano in radice i loro elementari contenuti. Si noti che se i «discipuli» («ex discipulorum laborerio»), terminato il periodo d'apprendistato, divenuti maestri di bottega e iscritti alla matricola dell'arte, accedevano alle cariche pubbliche, i salariati dipendenti («aliorum qui non sunt de dicta arte») restavano esclusi da qualsiasi partecipazione diretta alla vita politica. Firenze 6.V.1267: «Cenni condam Advegnentis et Nutus filius Giunte de Ripolis, rectores macinas facientium in Montisci, volentes exequi quoddam capitulum constituti eorum artis, in quo continetur quod ex discipulorum laborerio et aliorum qui non sunt de dicta arte et sotietate utilitas magna consequitur magistris ipsius artis, et quod quilibet magister et sotius huius artis teneantur et debeant dare consulibus dicte artis seu camerariis ipsius artis pro ipsa arte pro quolibet discipulo vel alio homine quem secum tenent ad laborandum in dicta arte solvere s. 100 incontinenti, quod ei preceptum fuit a consulibus artis ipsius, ut hec et alia continentur in dicto capitulo; nunc ex vigore dicti capituli precipuerunt Albiço condam Guaschi magistro dicte artis, qui tenet discipulum in dicta arte, quod solvat eis nomine artis s. 100 hinc ad quindecim dies. Qui Albiçus et Cinus eius discipulus promiserunt dictis rectoribus nomine artis dare eis s. 100 hinc ad quindecim dies» (ASF, Notar. antecos. 996 (già A 982), f. 6v).

Torniamo brevemente alla questione dei beni ecclesiastici. Remigio, come sappiamo, annette una qualche importanza a che il condono degli espropri sia esteso anche alle proprietà della chiesa. Laici ed ecclesiastici devono concorrere alla pari a creare condizioni favorevoli alla pacificazione. Nessun riscontro documentario è possibile su questo punto specifico - come del resto sulla proposta centrale - con lo svolgimento della legazione papale per la semplice ragione che, a differenza del lodo del 1280, non si pervenne a nessun’intesa, né dunque fu stilato un documento che enunciasse i contenuti dell’accordo. Un accenno lo si trova nelle fonti cronachistiche. La scissione dei capi neri tra Rosso della Tosa e Corso dei Donati del febbraio 1304 trascinò il vescovo fiorentino Lottieri della Tosa e il nipote di costui, Baldo, a schierarsi col Donati, «in però che - racconta il Compagni - messer Rossellino suo consorto si tenea uno suo castello e’ fedeli, e [Lottieri] non se ne osava dolere mentre che papa Bonifazio visse». In effetti il registro dei beni del vescovado, il noto Bullettone, documenta la lite.

Compagni III, 2. Bullettone: (18.IV.1303) «Qualiter d. Locterius episcopus florentinus revocavit locationem factam d. Rossellino d. Arighi della Tosa de quibusdam terris et possessionibus dicti episcopatus positis in populo Sancti Andree de Monte Iovis de Mucello» (LAMI II, 856). (30.IV.1303) «Qualiter convocatis vicedominis episcopatus florentini occasione detentionis quam faciebat d. Rossellinus de Castro Montis Iovis, d. Locterius episcopus fiorentinus requisivit eos super predictis ab eis consilium et auxilium postulando, qui respondentes dixerunt eorum intentionem, ut in presenti instrumento plenius continetur» (ib. II, 856).

DAVIDSOHN IV, 362 n. 3 incorre in una svista quando, rinviando al Bullettone (LAMI I, 49), dice che Rosso della Tosa, il concorrente di Corso dei Donati, fosse figlio di Arrigo e dunque fratello di Rossellino. Il documento in questione è il proemio del Bullettone (ms originale nell'Archivio della Curia Arcivescovile di Firenze), steso quando una commissione dei rappresentanti delle casate amministratrici dei beni vescovili «episcopatu vacante» (Visdomini, Tosinghi, Aliotti) riordinarono le carte dell'amministrazione: «Hoc est registrum, repertorium et inventarium factum de bonis et iuribus episcopatus florentini, eodem episcopatu vacante per mortem bone memorie d. Antonii [† 1321] olim episcopi florentini...» (LAMI I, 49). La stesura del nuovo registro dei beni porta la data 1323 (LAMI I, 49.50; II, 707; II,709), e in questa data vi compare «d. Rossus d. Arighi della Tosa» (ib. I, 49b).

Il Rosso della Tosa antagonista del Donati era morto l'11.VII.1309, come documenta lo stesso DAVIDSOHN IV, 344-45, e non può essere identificato con Rosso di Arrigo. In riferimento alla scissione tra bianchi e neri, il Compagni (I, 22) elenca tra quest'ultimi «messer Rosso messer Arrigo e messer Nepo e Pinuccio della Tosa»; il cronista non avrebbe scritto così se Rosso fosse stato figlio di Arrigo. Il nome del padre di Rosso antagonista del Donati lo si ricava da due atti notarili: «d. Rubeus condam d. Gottifredi de la Tosa et d. Ricchardus filius d. Thomasii condam Spiglati de Mocçis» prendono mutuo di 1.200 fior. d'oro (ASF, Notar. antecos. 2962, f. 114v: 26.XI.1302). «In curia d. Thome de Mozzis », tra i testi «d. Rubeo olim d. Gottifredi de la Tosa» (Notar. antecos. 3141, ff. 28r-29r: 19.XI.1306). Abbiamo dunque mr Arrigo della Tosa, padre di mr Rossellino (a cui Corso dei Donati dette in moglie la sorella Piccarda tratta dal monastero di Monticelli) e di mr Rosso; quest'ultimo è persona distinta da mr Rosso del fu mr Gottifredi della Tosa. Ricordo che Remigio ci ha lasciato i sermoni in morte di mr Lottieri della Tosa vescovo fiorentino (24.IV.1309), di mr Rosso del fu mr Gottifredi della Tosa (11.VII.1309) e di mr Odoaldo (di mr Carmignano?) della Tosa. Atti notarili, citati qui e in seguito, s'intendano sempre rogati in Firenze se non detto altrimenti. Nelle date con doppio anno separato da barra (es.: 1305/6), il primo numero è quello del documento, il secondo del computo moderno.

Remigio pensava alle proprietà del vescovo Lottieri? Difficile sostenerlo per due motivi. Primo perché nella lite tra Lottieri e Rossellino non è questione di esproprio ma soltanto d’indebita detenzione di terreno dopo revoca di locazione. Secondo perché i termini della vertenza sono circoscritti tra esponenti neri e non investono il problema cittadino, mentre il condono previsto da Remigio mira alle condanne ed espropri degli sbanditi, vero nocciolo d’ogni tentativo di pacificare Firenze. Il che non toglie rilevanza alla questione dei beni ecclesiastici. Le enormi proprietà della chiesa fiorentina testimoniate dal Bullettone, del capitolo del duomo, dei grandi ordini monastici, dei monasteri femminili, delle opere pie quali ospedali e confraternite gestite prevalentemente dai frati dell’ordine della Penitenza, degli stessi ordini mendicanti (in fase di forte crescita demografica e di rafforzamento istituzionale) non potevano non porre il problema. Né in fondo risulterebbe di gran valore individuare - se pure fosse possibile - il caso singolo cui Remigio volesse alludere. Era sufficiente sollevare il problema nel suo insieme e nelle sue dimensioni. Più pertinente l’episodio che oppone il vescovo Lottieri ai consoli dell’arte di Calimala in maggio 1302. Costoro contestano la scomunica, lanciata contro di loro da Lottieri per aver occupato beni ecclesiastici, perché comminata senza regolare procedura («de facto facta»). Il vescovo nomina il proprio vicario, il giurista Enrico da Cremona, a presiedere la causa con ampia facoltà di giudizio. Enrico assolve gl’imputati e li libera dalla scomunica; ma non senza far trapelare un qualche imbarazzo del vescovo a tener testa alla potente corporazione di Calimala («volens dictis consulibus etiam facere omnen gratiam quam de iure potest»).

Palazzo episcopale 7.V.1302: «Super eo quod dicebatur pro parte Boninsengne Angiolini [dei Machiavelli], Adimari Rote [dei Becchenugi], Lapi Guaçe et Lapi Ugolini consulum mercatorum Callismale de Florentia, quod quidem denuntiatio quam fecerat contra eos venerabilis pater d. Loterius... episcopus florentinus, dicendo eos ‑ ut dicitur ‑ per constitutiones episcopales que contra bonorum ecclesiasticorum invasores et occupatores locuntur excomunicationis sententiam incurrisse, revocari debebat tamquam de facto facta, ut ipsi consules asserebant, idem d. episcopus commisit venerabili viro d. Henrico de Cremona decretorum doctori vicario suo ibidem presenti ut dictum negotium et quicquid per eum factum erat contra consules supradictos videret examinaret atque discuteret diligenter... ». Medesimo luogo 9.V.1302: «Et dictus d. vicarius..., habita super predictis deliberatione, volens dictis consulibus etiam facere omnem gratiam quam de iure potest, dictam denuntiationem et quicquid per dictum d. episcopum in predictis et circa ca factum extitit, totaliter revocavit et annullavit..., et ad cautelam dictum procuratorem procuratorio nomine predictorum ab omni sententia, quam per constitutiones pontificales modo aliquo incurrissent, absolvit...» (tutto il caso in ASF, Mercatanti 7.V.1302). Figlio di Adimari di Rota dei Becchenugi è fr. Giovanni frate di SMN.

Nel 1306 il vescovo di Fiesole Antonio dell’Orso - che passerà poi alla sede vescovile di Firenze dal 1309 al 1321 - emana delle costituzioni sinodali, di cui una rubrica porta il titolo De immunitate ecclesiarum ripreso dalle Decretali. Il vescovo rivendica davanti al podestà e alle autorità comunali l’«ecclesiasticam libertatem» e ordina ai rettori delle chiese di render pubblica la scomunica a tutti coloro che avessero imposto taglie e collette a persone e beni ecclesiastici. Fin qui niente di straordinario rispetto alla tradizione canonica. Sorprendente è il fatto che Antonio fa appello all’autorità della bolla bonifaciana Clericis laicos (24 febbraio 1296), inserita nel Liber sextus decretalium del 1298, e ne dispone la trascrizione integrale nelle costituzioni sinodali. Seguono poi due casi specifici di soprusi sui beni della chiesa; nel secondo il vescovo diffida chicchessia dal porre ostacolo alla riacquisizione di beni ecclesiastici ingiustamente espropriati.

«Item prohibemus ne ulla conspiratio vel ordinatio vel compromissio fiat contra bonum statum episcopatus fesulani et conservationem eius iuris, tam in rebus mobilibus quam immobilibus, nec non et contra reacquisitionem eius bonorum que alii iniuste detinent occupata; ymo potius quilibet det ad conservationem eorum que habent et que haberi possent, quantum possunt, consilium, auxilium et favorem... »: Costituzioni del 1306, in R.C. TrexlerSynodal law in Florence and Fiesole 1306-1510, Città del Vaticano (Studi e Testi 268) 1971, 219-20; tutta la rubrica, che incorpora la Clericis laicos, pp. 217-20. Il vescovo Antonio rinnoverà le disposizioni in qualità di vescovo di Firenze nelle Costituzioni fiorentine del 1310, rubrica De immunitate ecclesiarum: «Nos volentes quod tam potestates, quam alii omnes et singuli rectores civitatis et dyocesis nostre, debeant se a predicta sententia [excommunicationis] precavere, mandamus omnibus et singulis rectoribus, nostre iurisdictioni subiectis, ut omnes et singulos facientes vel servantes statuta, seu dictantes vel scribentes, aut procedentes quomodolibet contra ecclesiasticam libertatem, in eorum ecclesiis coram populo, in genere semel quolibet mense, excommunicatos publice nunctiare procurent» (ib. p. 269). In queste ultime costituzioni c'è un'accorata invocazione di pace su Firenze, «in hac florentissima civitate, que flores varios et lilia convallium bono pacis producere consuevit»; ma il rimedio a «guerrarum et seditionum discriminibus» non va al di là della minaccia di scomunica a quanti, «dyabolico suasu, pacis emuli fuerint» (ib. p. 238).

È il caso previsto da Remigio. Costui nel c. 5 del De bono pacis mette la Clericis laicos in bocca all’obiettante, e risponde che questa bolla bonifaciana è stata modificata dalla susseguente Quod olim di Benedetto XI. Di quest’ultima neppure una parola nelle costituzioni fiesolane del 1306.

Qualche ricerca puntata su questa o quella vertenza (e lo spoglio dei ricchissimi fondi fiorentini dei Conventi soppressi ne rivelerebbe a decine) mostra che la questione di fatto si poneva, ma non presume riscontri con improbabili allusioni del De bono pacis. Due esempi che toccano Santa Maria Novella, il convento di Remigio.

Sappiamo come i domenicani istallatisi definitivamente nel 1221 nella primitiva chiesetta di SMN provvedessero a costituire un fondo (frutto di donazioni) la cui rendita concorreva ad assicurare la sussistenza dei frati. Ma l’amministrazione dei beni (che vennero via via crescendo per successive donazioni) fu esclusivamente affidata ai frati dell’ordine della Penitenza; pinzocheri, erano detti in vernacolo. E sotto l’amministrazione di costoro il patrimonio rimane fino al 1304. In novembre di quest’anno il capitolo conventuale, presieduto dal priore fr. Giovanni di Falco d’Oltrarno, ritira i beni dall’amministrazione dei frati della Penitenza e - con licenza del vescovo Lottieri - li ripone sotto la diretta amministrazione conventuale. In dicembre 1304 e maggio 1305 il priore fr. Giovanni di Falco, a nome del capitolo, è introdotto «in corporalem possessionem» dei beni suddetti (Dossier 11-16, 180-90, 221-40, 264-74; ASF, Notar. antecos. 3141, ff. 3v-4r: 23.XI.1304). Non ci si puo attendere dalla natura legale degli atti che ci si dica perché i frati di SMN riprendessero i beni sotto la loro diretta amministrazione e perché in quegli anni. Ma è del tutto impertinente ai fatti e alle coincidenze cronologiche supporre che i frati volessero meglio tutelare il loro patrimonio dall’insicurezza, dal disordine, dalla violenza che in quegli anni dilagavano in città e contado, e che non risparmiavano alcuna istituzione?

Il secondo esempio illustra una delle molte vie traverse per le quali un’istituzione religiosa poteva venir implicata nella questione dei beni espropriati. Il 24 dicembre 1295 fr. Iacopo novizio in SMN, Vanni e Biliotto, fratelli e figli del fu Simone di mr Biliotto dei Donati, rifondono alla loro madre Bruna vedova di Simone, a titolo della dote di costei, due pezze di terra site una in Santa Maria a Quarto l’altra in Santo Stefano a Ugnano (piviere di Settimo). Il 28 agosto 1300 donna Bruna, ora suora dell’ordine della Penitenza di San Domenico, fa testamento e lascia al figlio fr. Iacopo un podere in Santa Maria a Quarto.

ASF, S. Maria Novella 24.XII.1295, fra i testi i ffrr. Giovanni d’Oltrarno, Albertino Mazzante, Lorenzo da Borgo. Di fr. Iacopo di Simone di mr Biliotto dei Donati († 9.VI.1348) Cr SMN  n° 356 dice che «vixit in ordine annis L vel circa», sarebbe dunque entrato in religione nel 1298; il nostro documento mostra che entrò nel 1295. Il fratello di fr. Iacopo, Biliotto, qui non ancora frate, entrò anch’egli in convento e morì il 21. IV.1324 dopo 27 anni «vel circa» di vita religiosa (Cr SMN  n° 232). Il secondo documento è ASF, S. Maria Novella 28.VIII.1300: qui si apprende che Bruna era «filia condam d. Morandi militis de Morandis de Florentia et uxor condam Simonis d. Biliotti de Donatis de Florentia»; tra le disposizioni testamentarie c’è la costruzione d’un ospedale nel territorio di San Casciano in Val di Pesa per i frati Predicatori; l’amministrazione dell’usufrutto dei beni destinati a tale costruzione è affidata a fr. Iacopo e a fr. Cambio di Guglielmo del Forese. Il vescovo Lottieri della Tosa concederà 40 giorni d’indulgenza a quanti concorreranno «ad perfectionem operis bospitalis Sancte Marie ad Mercatale de Sancto Cassiano plebatus de Decimo» (ASF, S. Maria Novella 30.VII.1302).

Il 1° aprile 1309 fr. Lotto da Settimello a nome del capitolo conventuale presenta alla commissione preposta ai beni dei condannati e sbanditi («iudicibus et officialibus super bonis rebellium exbannitorum condempnatorum») il ricorso dal seguente tenore. Donna Bruna lasciò in testamento al figlio fr. Iacopo un podere sito in Santa Maria a Quarto, e all’altro figlio Vanni tre poderi, tra cui uno in San Piero a Sollicciano (Settimo). Quello di Quarto risulta ora incamerato dal comune fiorentino dai beni di Vanni, sbandito e condannato, cui di fatto mai appartenne; mentre il podere di Sollicciano, di proprietà di Vanni, non è incamerato. «Quare facto sic exposito petit et supplicat frater Loctus, nomine quo supra et quantum intuitu pietatis et misericordie placeat vobis dominis officialibus, dictum podere [di Santa Maria a Quarto]... extrahi et cancellari facere de comuni et actis ipsius comunis adeo quod ipsi fratres in eo vel eius causa ulterius non graventur; et loco ipsius poderis, ut consequatur ius suum comune florentinum, poni et scribi faciatis dictum podere et terras positas in populo Santi Petri de Sulicciano et plebis de Septimo, in veritate pertinentes ad ipsum Vanni, ut patet in testamento»; tanto più, si precisa, che la rendita di quest’ultimo podere «sunt maioris fructus et redditus quam sit podere predictum in populo Sancte Marie de Quarto positum». Il 21 aprile 1309 gli ufficiali sui beni degli sbanditi esaminano il caso, controllano il testamento di donna Bruna e accolgono il ricorso di fr. Lotto.

ASF, S. Maria Novella sotto segnatura d’archivio 1.IV.1308. Il diploma contiene presentazione del ricorso 1.IV.1309 e sentenza 21.IV.1309. Nessum broglio; l’errore tra i due poderi era effettivamente occorso: il podere reclamato da fr. Lotto è «positum in populo Sancte Marie de Quarto, cui a jo et ijo et iijo via, a iiijo Geri Cardinalis et heredum Arrighi Spadarii» (ASF, S. Maria Novella 1.IV.1308); esso è il medesimo podere lasciato in eredità da Bruna al figlio fr. Iacopo: «a jo et ijo et iijo via, a iiijo Gieri Cardinalis» (ASF, S. Maria Novella 28.VIII.1300).

Simone di mr Biliotto dei Donati, padre di Vanni e dei ffrr. Iacopo e Biliotto, non va confuso con mr Simone del Forese dei Donati, padre di mr Corso “il Barone”, né tantomeno con Simone di mr Corso ucciso negli scontri di nov. 1301 (Villani IX, 49, 120-37). Il popoloso casato dei Donati si era scisso, come tanti altri, in più partiti nelle lotte d’inizio Trecento (cf. «Enciclopedia dantesca» II, 555-68). Lite per interessi ereditari tra mr Corso e sua sorella Ravenna o Venna entrata nel monastero domenicano di San Iacopo a Ripoli: docc. in Fineschi  62-63, 64-65, 67-69. Taddeo di mr Buoso del Forese dei Donati (popolo S. Maria Alberighi), cugino di mr Corso, «in extremis existens» confessa a fr. Primerano OP e a prete Lapo rettore di S. Maria Alberghi d’aver danneggiato le case di taluni, provvede al risarcimento e sceglie sepoltura in SMN: 29.V.1309 (Delizie IX, 122-23).

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