De bono comuni |
Il bene comune |
originale latino |
volgarizzamento (2007) di EP |
(... ⌂ 18. Argumenta directe contra questionem, et eorum solutiones) |
(... Capitolo 18. Obiezioni conto la tesi - bene comune precede bene privato -, e loro solusione) |
5. Sed contra, quinto sic. «Propter quod unumquodque et illud magis, ut propter quod amamus illud amicum magis est», ut dicitur in I Posteriorum. Sed bonus civis, qui pro bono civitatis exponit se morti, nullo modo hoc faceret nisi hoc faciendo putaret se bene facere. Bene autem facere non est nisi per virtutem; ergo hoc facit propter bonum virtutis. Summum autem bonum civis est bonum virtutis. Ergo etc. |
Obiezione 5. «La ragione per cui una cosa è tale, conta più della cosa stessa; la ragione che ci fa amare qualcuno ci risulta più preziosa della stessa persona amica», si dice nei Secondi analitici 1,2 (72a 29-30) d'Aristotele. Ma il buon cittadino che per il bene della città si espone alla morte, non lo farebbe se non pensasse di agire bene. Agir bene infatti non si dà se non per virtù; dunque agisce così a motivo del bene che è virtù. Sommo bene del cittadino è il bene della virtù. Dunque, eccetera. |
Et dicendum quod in bono totius absque dubio includitur bonum partis, non tamen tamquam finis principaliter intentus a parte, cum bonum totius simpliciter sit maius bonum et etiam ipsi parti [aparti cod.]; sicut grave extra proprium ubi existens, naturaliter appetendo quietem in proprio ubi, etiam naturaliter appetit inclusive moveri deorsum sed non tamquam finem principaliter intentum; motus enim ordinatur ad quietem, non e converso. |
Risposta. Entro il bene del tutto è senz'altro incluso il bene della parte, non però quale fine principalmente inteso dalla parte, visto che il bene del tutto risulta maggior bene anche rispetto alla parte. Quando un peso si trovasse fuori del proprio luogo, e per natura tendesse a ricuperare la quiete nel proprio luogo, per inclusione tenderebbe anche per natura al moto all'ingiù, non però come suo fine principalmente inteso. Il moto infatti è ordinato alla quiete, non viceversa. |
Unde bonus civis non exponit se morti propter bonum virtutis tamquam propter finem principaliter intentum; sed potest illud dici si li “propter” dicat circumstantiam cause formalis, ex cuius scilicet inherentia movetur civis ad faciendum tale opus, sicut si dicerem quod ignis calefacit propter calorem et lapis movetur deorsum propter gravitatem. |
Il buon cittadino dunque non si espone alla morte per il bene che è virtù, quasi perché fine principalmente inteso. Potremmo dirlo se il lessema "perché" stesse per circostanza della causa formale; ossia concomitanza per cui il cittadino è mosso a porre tale azione. Come se dicessi che il fuoco riscalda a motivo del calore, o la pietra si muove all'ingiù a causa della gravità. |
Sed ipsa forma virtutis, esto quod possit dici aliqualiter finis, ulterius tamquam ad fìnem principaliorem ordinatur ad obiectum, cum habitus distinguantur per actus et actus per obiecta, ut habetur ex II De anima[1], et actus sit finis potentie, ut habetur ex IX Methaphisice, et obiectum sit finis actus vel principale movens si sit actus potentie passive. Ergo li “propter” si dicat inclusionem vel informationem vel finem non ultimum, verum est quod dicitur. |
Ma la stessa forma della virtù, ammesso pure che in qualche modo la si possa chiamare fine, è ulteriormente ordinata all'oggetto come a fine principale; gli abiti o assuetudini infatti si distinguono per azioni, e le azioni per oggetti, come si legge in Aristotele, Dell'anima II,4 (415a 16-22); l'azione o l'atto a sua volta è il fine della potenzialità, Metafisica IX, 8 (1050a 9-10), e l'oggetto è il fine dell'atto, o movente principale in caso di atto di potenza passiva. Se dunque il lessema "perché" indica inclusione o forma o fine non ultimo, corretto è quanto si asserisce. |
6. Sexto sic. Cum verum et bonum convertantur, sicut verum se habet ad verum ita bonum se habet ad bonum. Sed illud verum est maxime verum quod est per predicationem eiusdem de se ipso, quia secundum Boetium «nulla est verior propositio quam illa in qua idem de se predicatur»[2]; et secundum Philosophum in V Methaphisice hec propositio “homo est homo”[3] est vera non solum per se sed etiam primo. Ergo illud bonum erit maxime bonum quod erit per attributionem eiusdem ad se ipsum. Ergo bonum partis ipsi parti attributum erit maxime bonum. Sed quod est maxime bonum, maxime est amabile. Ergo etc. |
Obiezione 6. Vero e bene commutano, e dunque come il vero sta al vero, così il bene sta al bene. Massimamente vero è il vero predicato di se stesso, perché a detta di Boezio «nessuna proposizione è più vera di quella in cui soggetto e predicato sono gli stessi»; e secondo Aristotele, Metafisica V,18 (1022a 24-35), la proposizione "uomo è uomo" è vera non soltanto per se stessa ma anche a motivo dell'attributo primariamente predicato. Massimo bene dunque risulta quello che a sua volta è anche attribuito a se medesimo. Il bene della parte attribuito alla stessa parte è bene massimo. Ma quel che è massimo bene, è massimamente amabile. Dunque, eccetera. |
Et dicendum quod pars potest dupliciter considerari: uno |104ra| modo in quantum est res quedam aliquod esse habens, alio modo in quantum est pars. Dicendum ergo quod illud bonum quod est naturale parti in quantum est pars, est potius et naturalius quam illud quod est ei naturale in quantum est res quedam. Pars autem dicitur respectu sui totius, et ideo bonum totius est sibi maxime naturale et maxime amabile cum esse partis in quantum huiusmodi totaliter a toto dependeat. |
Risposta. Parte la si può intendere in due modi: |104ra| in quanto realtà in sé con proprio essere, e in quanto parte. Quel bene che è naturale alla parte in quanto parte, è più importante e più naturale di quello che le è naturale in quanto realtà in sé. La si dice parte rispetto al suo tutto; cosicché il bene del tutto le è massimamente naturale e amabile, perché l'essere della parte in quanto tale dipende completamente dal tutto. |
7. Septimo sic. Quantumcumque aliquid sit magis bonum in se, non oportet quod magis ametur naturaliter nisi sit magis bonum amanti, alias aqua naturaliter magis amaret ignem quam se ipsam cum tamen ipsum naturaliter odiat. Similiter nec quantumcumque sit maius bonum amanti nisi sit ei proprium; sic enim homo naturaliter magis amaret magis beneficos quam magis coniunctos, et interdum magis quam se, puta magistrum suum et huiusmodi. |
Obiezione 7. Per quanto un oggetto sia buono in sé, non ne segue che sia per natura più amato, se non in quanto più amabile rispetto all'amante; altrimenti l'acqua per natura dovrebbe amare più il fuoco che se stessa, mentre di fatto lo odia. Parimenti non ne segue che un oggetto sia per natura più amato perché bene maggiore rispetto l'amante, se non in quanto bene personale. Altrimenti l'uomo amerebbe per impulso naturale più i benefattori che i congiunti; e talvolta più di se stesso, ad esempio il suo maestro o simili. |
Ergo quantumcumque bonum totius sit magis bonum quam bonum partis in se et etiam sit maius bonum ipsi parti, non sequitur propter hoc quod pars naturaliter magis amet ipsum, quia non est ita proprium parti sicut bonum privatum partis, cum aliud relativum sit pars et aliud relativum sit totum. |
Dunque, per quanto il bene del tutto sia maggiore di quello della parte in sé, e maggiore anche rispetto alla stessa parte, non ne segue che la parte per impulso naturale ami il bene del tutto, perché non è un suo bene proprio, ossia bene personale della parte. Diversi sono il relativo parte e il relativo tutto. |
Et dicendum quod licet bonum totius non sit ita proprium parti sicut bonum partis, tamen naturaliter magis amatur a parte quia totum est tota ratio et causa existendi parti in quantum huiusmodi. Unde et videmus quod pars, dimissa natura propria, naturaliter sequitur naturam totius, sicut apparet quando aqua movetur sursum ne sit vacuum in toto mundo, ut dictum est. |
Risposta. Certo, il bene del tutto non è talmente proprio alla parte come il bene della parte stessa; tuttavia esso è maggiormente amato dalla parte, perché il tutto è causa e ragione all'esistere della parte in quanto tale. Vediamo infatti che la parte, ignorate le istanze della propria natura, insegue sempre per natura le istanze del tutto; esempio dell'acqua che muove verso l'alto affinché non si produca il vacuo nell'universo, come detto sopra. |
8. Octavo sic. Deus super omnia alia debet amari ex caritate, ergo et naturaliter, cum gratia non destruat naturam sed perficiat. Sed Deus amatur ex caritate propter bonum proprium, iuxta illud Ps. [118,112] «Inclinavi cor meum ad faciendas iustificationes tuas in eternum propter retributionem». Ergo totum amatur a parte propter bonum proprium partis. |
Obiezione 8. Dio dev'essere amato sopra ogni cosa in forza della carità; dunque per natura, visto che la grazia non distrugge la natura ma la perfeziona. Ma Dio lo si ama di carità per il bene proprio; Salmo 119, 112, «Ho piegato il mio cuore a eseguire i tuoi comandamenti, per sempre e per amore della ricompensa». Dunque il tutto è amato dalla parte a motivo del bene privato della parte. |
Et dicendum quod retributio potest accipi dupliciter. Uno modo obiective, et sic retributio est ipse Deus, iuxta illud quod dixit Dominus ad Abrabam Gen. 15[,1] «Ego protector tuus sum et merces tua magna nimis». |
Risposta. Ricompensa la si può intendere in due modi. In senso obiettivo, e così ricompensa è Dio stesso, come il Signore disse ad Abramo, Genesi 15,1: «Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». |
Alio modo participative, et sic retributio pertinet ad amorem concupiscentie; ac propter hoc non potest esse ultimus finis, cum amor concupiscentie ordinetur ad amorem amicitie tamquam ad potius, sed est finis sub fine; sicut etiam dicimus quod iustus homo principaliter tamquam propter ultimum finem facit bonum et |104rb| declinat malum culpe et substinet malum pene propter Deum, iuxta illud Ps. [43,22] «Propter te mortificamur tota die, extimati sumus sicut oves occisionis». |
Secondo in senso participativo. E qui ricompensa appartiene all'amore di concupiscenza; come tale non può essere fine ultimo, perché amor di concupiscenza è ordinato all'amor d'amicizia come al meglio di sé; dunque fine subordinato a fine superiore. Allo stesso modo diciamo: l'uomo retto principalmente come per fine ultimo opera il bene, |104rb| declina il male della colpa e sostiene il male della pena per amor di Dio; a detta del Salmo 44,23, «Per te siamo messi a morte tutto il giorno, stimati come pecore da macello». |
Et nichilominus sub isto fine dicimus quod exercet predicta ne separetur a Deo et ne dampnetur eternaliter, iuxta illud Ps. [118,80] «Fiat cor meum immaculatum in iustificationibus tuis ut non confundar», et I Cor. 9[,27] «Castigo corpus meum et in servitudinem redigo ne forte, cum aliis predicaverim, ipse reprobus efficiar». |
E tuttavia entro i termini di questo fine diciamo che l'uomo opera le cose suddette per non esser separato da Dio e non subire pena eterna; Salmo 119,80: «Sia il mio cuore integro nei tuoi precetti, perché non resti confuso»; I Corinzi 9,27: «Punisco il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso respinto». |
9. Nono sic. Dicitur Mt. 16[,26] «Quid prodest homini si mundum universum lucretur, anime autem sue detrimentum patiatur?»; et simile habetur Mr. 8[,36] et Luc. 9[,25]. Ex quo verbo videtur quod bonum unius singularis anime sit preferendum bono totius mundi. |
Obiezione 9. Si dice in Matteo 16,26: «Qual vantaggio avrà l'uomo se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?»; luoghi paralleli Marco 8,36, e Luca 9,25. Sembra seguirne che il bene d'una singola anima vada preferito al bene del mondo intero. |
Et dicendum quod Dominus loquitur de lucro rerum terrenarum, secundum Glosam, que dicit «Tempore pacis frangenda sunt terrena desideria»; et alia dicit «Nec lucra nec timor nec aliquid aliud retrahat a salute»[4]. Certum est autem quod bonum anime preferendum est omni bono terreni lucri. |
Risposta. Il Signore parla di "lucro" ossia guadagno delle cose terrene, come vuole la Glossa ordinaria a Matteo 16,26: «In tempo di pace dobbiamo infrangere i desideri terreni»; e altra chiosa: «Né il guadagno né la paura né alra cosa vi distragga dalla salvezza». E di certo il bene dell'anima è da preferire al bene del guadagno materiale. |
Si autem Dominus loqueretur de lucro hominum quantum ad salvationem secundum quod predicator dicitur lucrari homines convertendo eos ad penitentiam, iuxta illud I Cor. 9[,19] «Omnium me servum feci ut plures lucrifacerem», Glosa: «idest lucrum predicationis mee facerem», sic dicendum est quod istud tale lucrum totius mundi factum per verbum vel exemplum alicuius hominis, non potest esse cum vero amore illius hominis ad totum. |
Poniamo invece che il Signore parlasse di "guadagno degli uomini" in rapporto alla salvezza, al modo che diciamo "un predicatore ha guadagnato uomini convertendoli a penitenza", secondo I Corinzi 9,19, «Mi son fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero», e relativa Glossa maggiore (di Pietro Lombardo, PL 191,1613 A) «ossia per ricavar guadagno della mia predicazione». E in questo senso, siffato lucro del mondo intero ottenuto tramite parola ed esempio non può coesistere col vero amore di quella persona per il tuttto. |
Amor enim partis ad totum includit amorem partis ad se, et bonum totius includit bonum partis, sicut patet ex dictis[5]. Et ideo nullus homo peccando verbo vel exemplo, puta per ypocrisim, potest amare suum comune, quia per peccatum malum verum anime sue facit et se vero odio odit, iuxta illud Ps. [10,6] «Qui diligit iniquitatem odit animam suam». |
L'amore infatti della parte per il tuttto include l'amore della parte per se stessa, così come il bene del tuttto include il bene della parte, come appare da quanto detto. E dunque nessuna persona peccando con parola ed opere, ad esempio per iposcrisia, può amare il proprio comune; infatti col peccato produce il vero male dell'anima propria, e si odia di vero odio, a detta di Salmo 10,6 «Chi ama l'iniquità, odia l'anima propria». |
[1] Cf. Tommaso d'Aquino, Sentencia libri De anima II, 5, 47-49: «unde necesse est secundum
diversas operationes anime accipi diversitatem potenciarum» (EL 45/1, 88); II,
6, 131-90 (ib., 93-94); I, 8, 47-48: «potencie enim cognoscuntur per actus, actus
vero per obiecta» (ib., 38); Florilège 6, 56. Tommaso d'Aq., Sententia libri Ethic. II, 7,
53-54: «Oportet enim habitum diffiniri per actum» (EL 47,98); IV, 6,117-20:
«quilibet habitus determinatur per operationes et per obiecta quorum est
habitus, quia scilicet determinati habitus sunt determinatorum operationum et
obiectorum» (ib., 219).
| Metaphysica IX, 8 (1050a 9-10). Tommaso d'Aq., In IX Metaph. lect.
8: «Sed actus est finis potentiae» (EM 1926, n° 1857).
[2] Letteralmente in PIETRO DI SPAGNA, Tractatus (Summule logicales) XII, 13: «Dicit Boetius quod nulla propositio verior est illa in qua idem predicatur de se» (ed. L.M. De Rijk, Assen 1972, 218). Cf. BOEZIO, In Arist. Perihermeneias VI, 14 (ed. C. Meiser, Lipsia 1880, 479-80; PL 64, 628-29).
[3] La frase, a costruzione fortemente ellittica, dovrebb'essere così intesa sulla scorta del testo aristotelico: nella predicazione «secundum se» (xαθ'αuτò: 1022a 24) la proposizione "uomo è uomo" è vera non soltanto nel senso che l'uomo è tale in virtù di se medesimo («per se»: 1022a 32-35) ma anche in virtù d'ogni attributo ricevuto dal soggetto primariamente (πρώτω: «primo» nella traduz. latina) o in una sua parte; l'uomo, ad esempio, vive in virtù di se stesso giacché parte dell'uomo è l'anima, in cui la vita risiede primariamente («in qua prima est ipsum vivere»: 1022a 29-32). Vedi traduz. latina in EM 1926, 326b; confronta con la "media" in Arist. Lat. 25,107.
[4] Glossa ordinaria in Mt. 16,26 "Quid enim" e "Aut quasi" (Biblia cum glosis, ed. Venetiis 1495, f. 1050ra).
[5] Contrariamente a ENRICO DA GAND, Quodlibet IX (1286), 19 (Utrum bonum proprium magis sit procurandum quam commune), il quale introduce la soluzione sulla distinzione: a) caso in cui «bonum proprium includatur in communi»; b) caso in cui «bonum proprium non includatur in communi» (ed. R. Macken, Leuven 1983, 293).