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Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.)

in tre autori domenicani

 

Semplice "nota": ovvero breve relazione dattiloscritta (mie carte personali, alla data 13.VI.1988) inviata al prof. Giuseppe Billanovich. Contesto "Petrarca e altri lettori di Tito Livio tra Due e Trecento", convegno Brescia (Istituto Paolo VI) 22-25 settembre 1988. Vi ero stato invitato, ma non potetti parteciparvi. Ignoro se il testo sia comparso negli atti del convegno.

Emilio Panella OP

Roma (Santa Sabina), giugno 1988

1 IACOPO DA VARAZZE (prov. Savona, Liguria; † 1298)
2 REMIGIO DEI GIROLAMI DA firenze († 1319)
3 TOLOMEO DA LUCCA († 1327)
 

Livio in Tolomeo

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 Billanovich

NOTA SU LIVIO IN TRE AUTORI DOMENICANI

1. IACOPO DA VARAZZE († 1298), Chronica civitatis ianuensis, ed. G. Monleone, 3 voll., Roma 1941.

Tito Livio («qui inter latinos ystoriographos magis preclarus fuit»: II, 39) è esplicitamente chiamato in causa in relazione alle prime notizie storiche sulla città di Genova (LIVIO XXVIII, 46). Lo si cita dalla «secunda parte, ubi agit de secundo bello Punico» (II, 40); «in libro X» (II, 41, ma di fatto LIVIO XXX, 1, dove Iacopo - o la sua fonte diretta - pasticcia e su numero e su nome dei consoli); «in libro primo» (II, 126, di fatto LIVIO II, 32). Già l'editore aveva convincentemente mostrato che Iacopo non legge gli Ab Urbe condita direttamente; le ragioni potrebbero qua e là esser meglio focalizzate e ampliare lo spoglio delle fonti, ma terminerebbero alla medesima conclusione.

Nelle parti VI-VIII della Chronica (II,110-83), Iacopo abbozza la dottrina del buon governo e delle virtù dei reggitori. Il discorso è principalmente di tono etico-precettivo. Sorprende, in un uomo che aveva percorso il curriculum intellettuale negli studia dell'ordine dei Predicatori, l'assoluta assenza del contributo della Politica d'Aristotele (la Chronica si protrae fino alla vigilia della morte dell'autore; la Politica era stata tradotta negli anni '60). Un'implicita passione comunale alimenta le pagine dedicate alle virtù politiche dei cives, che «in tantum debent çelare quod utilitati proprie ipsam [scil. rem publicam] debent preponere, quod pro ipsa conservanda interdum morti se debent exponere, quod pro ipsa defendenda licet patri contra filium et filio contra patrem arma levare» (II, 170). La lista degli exempla dell'amor patrio (Regolo, Tarquinio, Curzio, Fabrizio ecc.), fissata e trasmessa da un canone d'antica tradizione, attinge da fonti consuete alle biblioteche del tempo: De civitate Dei d'Agostino, De officiis di Cicerone (libro di testo nella facoltà delle arti in materia di etica politica prima della traduzione della Politica aristotelica), Valerio Massimo, Svetonio, Vegezio, compilazioni medievali de gestis o historiis romanorum... Ma non vi è traccia né di letture né di curiosità intellettuali che intravedano una periodizzazione politica delle forme storiche dell'organizzazione della polis romana (poniamo regno, repubblica, impero); che mettano a fuoco i dinamismi della competizione dei ceti dirigenti (Sallustio poteva aiutare il medievale contento dei libri in circolazione); che sospingano il personaggio-exemplum a figura politica, capace di svelare forme sia pure elementari e d'una genesi del potere e d'una prassi politica (poniamo i consoli, Cesare, Catone l'Uticense).

2. REMIGIO DEI GIROLAMI DA firenze († 1319).

Nella sua vasta produzione letteraria è assente il nome di Livio (salvo che mi sia sfuggito nello spoglio dei voluminosi codici). Eppure gli Ab Urbe condita avrebbero potuto interessarlo, viste le spiccate simpatie che il frate fiorentino nutre per l'assetto politico del comune (città-stato) e il prolungato interesse per la vita pubblica della sua città, di cui conosce fortune e travagli, e di cui individua a più riprese i differenti soggetti sociali che si contendono di volta in volta il potere cittadino. Anche nel De bono comuni (Firenze 1301) e De bono pacis (Perugia 1304) (ed. in «Memorie domenicane» 1985, 123-83), il ricorso alla romanità classica termina alla funzione persuasiva dell'exemplum (e le fonti sono le medesime menzionate per Iacopo) con la consueta detemporalizzazione dei tempi e soggetti politici. Ma nell'economia compositiva dei due importanti trattati, l'esemplarità è per così dire funzionale e subordinata al fulcro argomentativo del discorso principale, che rimane vigoroso e pertinente alla specifica situazione fiorentina: la irrinunciabile preminenza del bene comune su quello privato quando le basi della polis rischiano la dissoluzione; il ruolo sociale dei beni, quando il condono alla restituzione degli espropri sia contraccambiato col rientro dei fuorusciti e sbanditi per ritessere la convivenza politica.

3. TOLOMEO DA LUCCA († 1327)

Determinatio compendiosa de iurisdictione imperii [1280 ca.], c. 23 (Quare dominium concessum est Romanis, videlicet ex eorum civili benivolentia). Riferito da Valerio Massimo IV, 1, l'episodio della giovane di rara bellezza catturata in Spagna da Scipione l'Africano e da costui restituita illibata allo sposo e ai genitori, continua:

Titus etiam Livius loquens de predicta victoria sic dicit de Scipione, quod quando misit obsides Romam, primum ortatus est universos bonum habere animum, «venisse enim eos in populi Romani potestatem, qui benefitio quam metu obligare homines malunt exterasque gentes fide ac societate vinctas habere quam tristi subiectas servitio» (ed. M. Krammer, Hannoverae-Lipsiae 1909, 45-46).

Continuazione del De regno III, 6 (Quomodo concessum est Romanis dominium a Deo propter ipsorum civilem benevolentiam). Riferito il medesimo episodio da Valerio, continua:

Unde Titus Livius De bello Punico narrat Scipionem sponsum dictae virginis allocutum fuisse, in quo sermone suam ostendit pudicitiam digne principibus imitabilem et dominii meritoriam. Scribit et idem Titus de ipso quaedam benevolentiae inductiva in praedicta victoria. Cum enim misit obsides Romanis, primo quidem hortatus est universos bonum habere animum: «venisse enim eos in Romanorum potestatem, qui beneficio quam metu obligare homines malunt exterasque gentes fide ac societate iunctas habere quam tristi subiectas servitio» (nelle ediz. volgate del De regimine principum di Tommaso d'Aquino).

Salva la possibilità degli onnipresenti fantasmi dei florilegi, Tolomeo sembra aver attinto direttamente da Livio; non solo a motivo della citazione letterale di XXVI, 4-9, 8 (iunctas > uinctas è una banale degradazione grafica di valore adiaforo, mentre malunt in entrambi i testi contro malit potrebbe svelare l'area della tradizione pervenuta al frate lucchese) e dello stesso titolo de bello Punico con cui si denominava la III deca, ma perché Tolomeo non preleva un blocco compatto (come d'abitudine nei florilegi) ma trasceglie e riordina il materiale liviano per costruire l'argomento inserviente alla tesi in questione. L'elemento «quando misit obsides Romam (o Romanis)» proviene da LIVIO XXVI, 51, 1-2; quanto segue nella Determinatio è invece XXVI, 4-9, 7-8. Nel De regno Tolomeo prima riassume il dialogo di Scipione con Allucio fidanzato della ragazza (XXVI, 50) cogliendone acutamente le implicite intenzioni là dove risolve rapidamente il rispetto della pudicizia nella validazione del potere («ostendit pudicitiam... dominii meritoriam»), poi torna indietro (XXVI, 49, 7-8) per raccogliere il vero frutto della lezione.

E si noti ancora: quando lavora al De regno Tolomeo ha sottomano il testo della Determinatio (frequenti sono i casi in cui il frate lucchese riutilizza o rielabora brani di opera precedente); non si limita tuttavia a rilanciare la documentazione liviana apprestata nella Determinatio ma vi aggiunge del nuovo: l'incontro di Scipione con Allucio, cui il conquistatore rende la promessa sposa dando esempio imitabile di principe pudico. È LIVIO XXVI, 50, del tutto assente nella Determinatio.

Tolomeo, specie nella continuazione del De regno, si confronta con l'esposizione sistematica dell'origine e delle forme del potere politico; cosicché ha modo di tradire la propria predilezione per il periodo repubblicano della storia romana; e di coniugare nel contempo un repubblicanesimo comunale con un forte ierocratismo papale (consapevolmente contenuto da Remigio): l'incompiuta sovranità dei comuni toscani  -  contesi tra autonomia locale, rivendicazioni dei vicari imperiali e competenza papale durante la vacanza dell'impero  -  offre sostegno all'insolito e originale connubio (il miglior contributo al riguardo è di Ch. T. Davis). Parimenti la corruzione tirannica del governo permette a Tolomeo (almeno in talune occasioni) d'avanzare oltre l'exemplum e configurare un ruolo storicamente definito di personaggi politici: Giulio Cesare è abbinato ad Annibale nell'«abusus dominii» (De regno III, 8 n° 966). «Duravitque consulatus, immo monarchia, usque ad tempora Iulii Caesaris, qui primo usurpavit imperium» (ib. III, 12 n° 996; cf. EUTROPIO VI, 25). (La recensione di tutti i testi di Remigio su Cesare mi fa credere che il personaggio fosse trattato alla stregua dell'exemplum, in positivo o in negativo secondo i bisogni del contesto retorico).

Uno spoglio più sistematico delle fonti classiche, anche quando non invocate esplicitamente, potrebbe ipotizzare un apporto più sostanzioso degli Ab Urbe condita nelle predilezioni repubblicane di Tolomeo?

Ricordiamo che almeno la continuazione del De regno è stata certamente redatta in Toscana, tra Lucca e Firenze; qui Tolomeo risiede in qualità di priore conventuale di Santa Maria Novella da luglio 1300 a luglio 1302, verosimili anni della parte del De regno che a lui compete (cf. «Memorie domenicane» 1986, 263-65, 276-77).

Emilio Panella OP

Roma, giugno 1988


 

16.I.2015. AA. VV., Niccolò da Prato e i frati Predicatori tra Roma e Avignone, «Memorie domenicane» 44 (2013) pp. 584b voce "Billanovich", 604b voce "Tito Livio".


 

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